Divina Commedia: Purgatorio, Canto XXXIII
Ruggero Focardi (1864-1934), Dante e Beatrice nel Paradiso Terrestre, 1901
Il sipario si alza, in piena allegoria melodica, sulle sette danzatrici che, addolorate sulla vista del gigante al suo fuggire, dopo aver strappato dall’albero il divino barroccio, portandoselo appresso insieme alla prostituta, intonano un Salmo nella speranza che il castigo divino perseguisca i colpevoli di tale scempio.
La stessa Beatrice si alza, colma di compassione, ricalcando evangeliche parole, poi facendo cenno a Stazio, Matelda e Dante di seguirla e, dopo aver percorso solamente nove passi, invitando l’Alighieri a marciare con maggior celerità, allo scopo d’affiancarla e così poter sentire con maggior chiarezza le sue parole, una volta raggiunta, chiedendo al pellegrino la ragion per la quale non le ponga domande.
Completamente sgomentato ed evidentemente a disagio, Dante adduce la scusante del non aver bisogno d’esprimer desideri, essendo la sua donna in grado di leggerli lei stessa, al che Beatrice incalzandolo per lasciarsi alle spalle codesti atteggiamenti di freno dovuti a vergogne e timori, aggiungendo che il carro distrutto dal drago non esiste più e che i colpevoli verranno degnamente puniti, poi la donna rivelando la venuta dai Cieli di un “cinquecento diece e cinque” — dopo secoli di tentativi ancor non identificato dai commentatori — che ucciderà meretrice e colosso.
L’annuncio è completamente ostico al discepolo, ma alla sua beata è sufficiente ch’egli, seppur perplesso, ben imprima alla mente quanto visto ed udito, per diffonderlo fra i viventi.
Dopo un ulteriore scambio vocale fra la coppia e Matelda, a proposito dello zampillare dei due fiumi purgatoriali da un’unica scaturigine, il poeta, insieme a Stazio, viene condotto alle acque dell’Eunoè e ne beve, appagandosi della sua estatica dolcezza, che si sorseggerebbe all’infinito, come il fiorentin verseggiatore vorrebbe descrivere ai suoi stimati lettori oltre tempo, purtroppo impossibilitato a farlo dalla fine dello spazio preventivato per la sua Commedia.
Frenato dalle imposizioni dell’arte scrittoria, egli s’accontenta di descrivere la sensazione scaturita dal discender di quel cristallino e lucente fluido nel suo corpo, unendo narratore e personaggio in un unico animo, quello purificato e rifiorito nel suo sentire, come ramoscello che metta nuove gemme e, per mano all’astro più luminoso al suo cuore, pronto “a salire le stelle”.
Si conclude in quest’esatto punto la purgatoriale avventura, un secondo passaggio di staffetta fra Cantiche che, già svestitasi di tetre e amareggiate atmosfere nel primo cambio di mano, ora si dona intrisa di quella speranza propria a quelle anime che di sostare in provvisoria attesa nel sacro promontorio han ricevuto la grazia.
Fra queste, seppur ancor vivente e perciò provvisto di quel corpo sulla cui ombra ogni spirito ha sgranato gli occhi stupefatto, quella d’un Alighieri tanto narratore quanto protagonista, nella inconsueta ed encomiabile ingegnosità intellettiva, tra singolare fantasia e indiscusso stile, in grado di dotare le sue pagine dell’immortalità tipica dei capolavori letterari.
Dalle sue rime una sorta di vortice calamita il lettore nell’ardua risalita, nello stesso adagiando le sensazioni di volta in volta provate dai due peregrini, naturalmente ben diverse da quelle suscitate nel percorso fra selva oscura e natural burella, viceversa nuove nella loro sfumatura più rilassata, positiva, fiduciosa e priva del disincanto appartenente ai dannati.
Anche l’espiazione delle pene viene vissuta in maniera meno atroce, seppur l’ormai noto contrappasso garantendo la corretta redenzione secondo tempi e zone prestabiliti, a partir dall’Antipurgatorio, costituito dalla spiaggia (Canti I e II) e prime balze dove si distribuiscono, su quattro schiere, i negligenti, coloro che in vita tardarono a pentirsi e costretti ad una sosta personalizzata nei tempi in base al gruppo d’appartenenza:
Morti scomunicati (Schiera I, Canto III): attendono nell’Antipurgatorio un tempo lungo trenta volte quello che vissero distanti dalla Chiesa.
Alta ripa (Canto IV).
Pigri (Schiera II, Canto IV); Morti per violenza (Schiera III, Canti V e VI); Principi negligenti (Schiera IV, Canti VII, VIII, XIX): sostano per il tempo corrispondente all’intera durata della loro esistenza terrestre.
Superate le prime quattro balze, s’accede al Purgatorio vero e proprio, dove i peccatori sono suddivisi in sette cornici.
Nelle prime tre cornici sostano gli spiriti che rivolsero amore al male:
Superbi (Cornice I, Canti X, XI, XII): marciano caricati d’enormi pesi, fra esempi d’umiltà esaltata, scolpiti nel marmo, e di superbia punita, raffigurati nel suolo.
Invidiosi (Cornice II, Canti XIII, XIV, XV): sottoposti al tormento, i loro occhi sono cuciti con filo di ferro, ascoltando voci che riportano esempi di carità esaltata e d’invidia punita.
Iracondi (Cornice III, Canti XV, XVI, XVII): stanno all’interno di una densa coltre di fumo che li offusca nella vista e li asfissia, mentre vengono loro proposte esemplari visioni di mansuetudine esaltata e di ira punita.
Accidiosi (Cornice IV, Canti XVII, XVIII): peccarono per scarso amore del bene; corrono ininterrottamente urlando esempi di sollecitudine esaltata e di accidia punita.
Nelle ultime tre Cornici attendono coloro che provarono smodato amore nei confronti dei beni terreni:
Prodighi e Avari (Cornice V, Canti XIX, XX, XXI, XXII): stanno bocconi per terra con piedi e mani legati, pregando e piangendo, frattanto pronunciando esempi di liberalità e povertà esaltate e di avarizia punita.
Golosi (Cornice VI, Canti XXII, XXIII, XXIV): patiscono sete e fame, rese ancor più insopportabili dalla presenza di acqua e di frutta, nel mentre udendo voci che raccontano esempi di temperanza esaltata e di golosità punita.
Lussuriosi (Cornice VII, Canti XXV, XXVI, XXVII): camminano nelle fiamme, gridando e pregando esempi di castità esaltata e di lussuria punita, baciandosi in modo fraterno.
Risalite tutte le Cornici, s’accede al Paradiso Terrestre (Canti XXVII, XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII), lussureggiante distesa dove le anime portano a termine il loro processo di purificazione immergendosi nelle acque del Letè e dell’Eunoè, il primo deputato ad eliminare il ricordo dei peccati commessi, il secondo a riabilitare la memoria nei confronti del bene compiuto.
Una scalata nella roccia faticosamente portata avanti in compagnia di Virgilio, l’adorato maestro poi congedatosi poco prima dell’incontro con Beatrice, e per una parte di tragitto di Stazio, che con Dante si dirige verso l’Eunoè, sulla via della beatificazione, quel traguardo che ad inizio lettura pareva corrispondere ad un miraggio, tante furono le occasioni di cedimento dell’Alighieri, tuttavia divenuto una tappa sempre più prossima, alla quale avvicinarsi all’unisono con l’adorata Beatrice con la stessa avvicendandosi, e noi lettori a ruota, in un “ciel che più de la sua luce prende”, vedendovi “cose che ridire né sa né può chi di la su discende”.
‘Deus, venerunt gentes’, alternando | |
or tre or quattro dolce salmodia, | |
3 | le donne incominciaro, e lagrimando; |
Le donne iniziano (incominciaro) a cantare un soave salmo (dolce salmodia), piangendo (e lagrimando), alternandosi (alternando) fra loro, or le tre, or le quattro, nell’intonare ‘Deus, venerunt gentes’;
Le “donne” sono le sette Virtù danzatrici che piangono per il trasferimento, dal 1309 al 1377, della sede papale ad Avignone, come metaforizzato, in chiusura del Canto scorso, nella fuga del brutale gigante con il carro trionfale e la meretrice; ‘Deus, venerunt gentes’ è incipit del Salmo 78 incluso nella Vulgata: “Deus, venerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum, posuerunt Hierusalem in acervis lapidum…” — “Dio, son penetrati i gentili nella tua eredità, hanno profanato il tuo tempio santo, hanno ridotto Gerusalemme in cumuli di pietre…” nel quale, riferendosi all’assedio di Gerusalemme ed alla devastazione del suo sacro tempio, s’implora la giustizia divina, allegoricamente paragonando la ‘cattività avignonese’ a quella babilonese.
e Bëatrice, sospirosa e pia, | |
quelle ascoltava sì fatta, che poco | |
6 | più a la croce si cambiò Maria. |
e Beatrice, devotamente sospirando (sospirosa e pia), le ascolta mostrando tali sembianze (quelle ascoltava sì fatta), che, al confronto, poco più si mutò nelle fattezze (cambiò) Maria al cospetto della croce.
la beata donna appare talmente colma di pietà, dal venir la sua espressione paragonata della Beata Vergine alla vista del figlio crocifisso.
Ma poi che l’altre vergini dier loco | |
a lei di dir, levata dritta in pè, | |
9 | rispuose, colorata come foco: |
Ma non appena (poi che) le (l’) altre vergini le concedono di poter parlare (dier loco a lei di dir), drizzatasi (levata dritta) in piedi (pè), la stessa risponde (rispuose), avvampando (colorata) come un fuoco (foco):
Le “altre vergini” sono sempre le sette ninfe ballerine.
L’autore della Commedia, per la prima e unica volta nell’intero poema, per designare i piedi utilizza un termine, “pè”, appartenete all’antico toscano popolare.
‘Modicum, et non videbitis me; | |
et iterum, sorelle mie dilette, | |
12 | modicum, et vos videbitis me’. |
‘Ancor per poco, e non mi vedrete (Modicum, et non videbitis me); ancora un poco (modicum), sorelle mie predilette (dilette), e voi mi rivedrete (et vos videbitis me)’.
Beatrice, forse nell’intento di predire una caduta e una risalita della Chiesa, recita le medesime parole che Gesù pronunciò durante l’ultima cena, per indicare agli apostoli la sua prossima dipartita e futura resurrezione, come narrato dal Vangelo secondo Giovanni.
Poi le si mise innanzi tutte e sette, | |
e dopo sé, solo accennando, mosse | |
15 | me e la donna e ’l savio che ristette. |
Poi la donna si fa precedere (le si mise innanzi) da tutte e sette, e, con lieve cenno (solo accennando), incammina (mosse) dietro di lei (dopo sé) Dante (me), Matelda (e la donna) e il saggio (’l savio) poeta che era rimasto (ristette).
Il “savio che ristette” è Stazio, verosimilmente il “ristette” asserito in opposto riferimento a Virgilio, mestamente congedatosi per impossibilità a proseguire.
Così sen giva; e non credo che fosse | |
lo decimo suo passo in terra posto, | |
18 | quando con li occhi li occhi mi percosse; |
Così prosegue (sen giva); e l’Alighieri reputa ch’ella abbia percorso al massimo una decina di passi (non credo che fosse lo decimo suo passo in terra posto), quando il di lei sguardo si radica nel suo (con li occhi li occhi mi percosse);
e con tranquillo aspetto «Vien più tosto», | |
mi disse, «tanto che, s’io parlo teco, | |
21 | ad ascoltarmi tu sie ben disposto.» |
e con far sereno (tranquillo aspetto) dice al discepolo (mi disse) d’accelerare il cammino (Vien più tosto), per modo d’esser raggiunta ed ascoltata a dovere (tanto che ad ascoltarmi tu sie ben disposto) qualora lei gli parli (s’io parlo teco).
Sì com’io fui, com’io dovëa, seco, | |
dissemi: «Frate, perché non t’attenti | |
24 | a domandarmi omai venendo meco?». |
Pertanto (Sì), appena Dante l’accosta (com’io fui seco), come da parte sua doveroso (com’io dovëa) in base alle richieste dell’amata, lei gli chiede (dissemi), appellandolo fratello (Frate), quale sia il motivo per cui egli non s’azzardi (perché non t’attenti) a porle domande (domandarmi), ora che finalmente marcia al suo fianco (omai venendo meco).
Come a color che troppo reverenti | |
dinanzi a suo maggior parlando sono, | |
27 | che non traggon la voce viva ai denti, |
avvenne a me, che sanza intero suono | |
incominciai: «Madonna, mia bisogna | |
30 | voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono». |
Come succede a coloro (color) i quali, nel trovarsi a parlare (parlando sono) al cospetto d’un loro superiore (dinanzi a suo maggior), vengono travolti da un senso di riverenza (troppo reverenti), non riuscendo a cavarsi di bocca (non traggon ai denti) una voce franca (viva), avviene per l’Alighieri (a me), che, scevro di voce integra (sanza intero suono), inizia a parlare (incominciai): “Mia signora (Madonna), voi siete a conoscenza (conoscete) dei miei bisogni (mia bisogna), e ciò di cui necessitano per essere soddisfatti (ch’ad essa è buono).
Dante, asservito da soggezione e pervaso di timidezza, parla a mezza voce, tartagliando.
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna | |
voglio che tu omai ti disviluppe, | |
33 | sì che non parli più com’om che sogna. |
E Beatrice, in ribattuta (Ed ella a me), esprime il desiderio (Voglio) ch’egli ormai possa liberarsi (ti disviluppe) da qualsivoglia timore (tema) e imbarazzo (vergogna), per modo da smettere di parlare come colui (sì che non parli più com’om) che si trovi in fase onirica (sogna).
Quel “com’om che sogna” starebbe per chi si trova assorto, con la testa per aria.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, | |
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda | |
36 | che vendetta di Dio non teme suppe. |
Inoltre ella informa l’Alighieri (Sappi) del fatto che il (’l) vaso rotto dalla serpe (che ’l serpente ruppe), non esiste più (fu e non è); ma che il colpevole (chi n’ha colpa), sia certo (creda) del fatto che la giustizia divina (vendetta di Dio) non ammette (teme) indugi (suppe).
Il “vaso” è ricettacolo utilizzato a metaforizzare il sacro carro spezzato dal possente drago, apparso in quarantaquattresima e quarantacinquesima terzina del precedente Canto, a rappresentanza degli scismi religiosi: “Poi parve a me che la terra s’aprisse tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago che per lo carro sù la coda fisse; e come vespa che ritragge l’ago, a sé traendo la coda maligna, trasse del fondo, e gissen vago vago”.
A tal riguardo, la “vendetta di Dio” giungerà puntuale e intransigente, indi, traslando, in terra verranno puniti coloro che hanno offeso l’onore e la spiritualità della Chiesa.
Il vocabolo “vaso”, nel suo significato di ricezione, al ventottesimo versetto del secondo Canto infernale venne utilizzato come epiteto di San Paolo, definito lo “Vas d’elezïone” come apostolo su cui si riversò la scelta divina, al fin di rinfrancare la fede cristiana, nonché al sessantaquattresimo verso decimo Canto purgatoriale, atto a simbolizzare, con la locuzione “benedetto vaso”, la sacra arca contenente le tavole della Legge.
Non sarà tutto tempo sanza reda | |
l’aguglia che lasciò le penne al carro, | |
39 | per che divenne mostro e poscia preda; |
Ella continua: “Non sarà per sempre senza erede (tutto tempo sanza reda) l’aquila (l’aguglia) che lasciò le penne nel (al) carro, tramutandolo in un mostro (per che divenne mostro) e poi (poscia) lo stesso divenendo preda del gigante.
ch’io veggio certamente, e però il narro, | |
a darne tempo già stelle propinque, | |
42 | secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro, |
nel quale un cinquecento diece e cinque, | |
messo di Dio, anciderà la fuia | |
45 | con quel gigante che con lei delinque. |
dato il mio veder con certezza (ch’io veggio certamente), e per questa ragione lo rivelo (però il narro), l’avvicinarsi d’una costellazione (a darne tempo già stelle propinque), immune da ogni ritardo (secure d’ogn’intoppo) e da ogni intralcio (d’ogne sbarro), dalla (nel) quale verrà aò mondo un cinquecento dieci (diece) e cinque, mandato dall’Onnipotente (messo di Dio), ucciderà la ladra (anciderà la fuia) insieme a (con) quel gigante che con lei delinque.
All’aquila, come già detto emblema impero al quale s’imputa la colpa dell’aver affidato alla Chiesa poteri e proprietà a lei non consone, pertanto sottoponendola alla smania di potere della Francia, succederà degno erede, messo celeste, che assassinerà prostituta e gigante.
Questo misterioso “cinquecento diece e cinque”, il cui avvento è profetizzato da Beatrice in maniera del tutto inaccessibile, è a tutt’oggi, come verosimilmente destinato a rimanere, una delle predizioni, fra le tante contenute nel sommo poema, del tutto indecifrabili, al pari di quella che il Canto di proemio, in trentaquattresima terzina, si pone alle menti dei dantisti come uno degli arcani più astrusi (Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l veltro verrà, che la farà morir con doglia), nel presagir, per voce di Virgilio, la venuta del famigerato “veltro”, colui il quale, uccidendo la lupa e facendola patire, libererebbe l’umanità dalla cupidigia, in un certo senso le due premonizioni riagganciandosi fra loro fra loro.
Volendo allinearsi ad una delle interpretazioni più semplicistiche, DXV, ossia 515 a cifre romane, sarebbe l’anagramma di DVX, sinonimo d’imperatore, quest’ultimo, pur rimanendo in campo d’ipotesi, da alcuni chiosatori individuato in Arrigo VII di Lussemburgo (1273-1313) come colui che tentò, invano, di riunire l’Italia e Roma sotto la sua supremazia, giustiziando le corruzioni ecclesiastiche; svariate sono, tuttavia, le alternative letture susseguitesi nel corso dei secoli e giunte ai nostri giorni fra mistero e discrepanza.
E forse che la mia narrazion buia, | |
qual Temi e Sfinge, men ti persuade, | |
48 | perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia; |
E può esser (forse) che il mio arcano (buia) narrare (narrazion), al pari (qual) delle profezie di Temi e i misteri della Sfinge, non ti convinca appieno (men ti persuade), essendo che, similmente a quelli (perch’a lor modo) intorpidisce (attuia) la mente (lo ’ntelletto);
In effetti è la stessa Beatrice ad ammettere la cripticità del suo vaticinio, paragonato a quelli della Sfinge e di Temi, o Themis; quest’ultima, secondo la mitologia, era figlia di Urano e Gea, rispettivamente divinità greche del cielo e della terra, lei stessa dea della giustizia e del diritto, per questa ragione solitamente invocata in fase di giuramento, oltre che ritenuta la padrona dell’Oracolo di Delfi, il più prestigioso della religione ellenica arcaica.
ma tosto fier li fatti le Naiade, | |
che solveranno questo enigma forte | |
51 | sanza danno di pecore o di biade. |
ma presto (tosto) i fatti saran (fier) le Naiadi (Naiade), che scioglieranno (solveranno) questo astruso (tenace) enigma senza (sanza) che greggi (di pecore) o colture (di biade) ne possano venir danneggiate (danno).
Le Naiadi sono ninfe di fiumi e boschi, deputate alla risoluzione d’eventi oscuri e il precisar che le stesse non causeranno “danno di pecore o di biade”, si ricollega alla Sfinge in quanto, secondo ovidiane narrazioni contenute nelle Metamorfosi — dove le ninfe vengono citate come ‘Laiades’ — quando la stessa si lanciò nel vuoto dopo che Edipo ebbe decifrato il suo enigma fatale, per vendicare la sua morte Temi avventò una volpe affamata su animali e coltivazioni dell’intera regione.
Tu nota; e sì come da me son porte, | |
così queste parole segna a’ vivi | |
54 | del viver ch’è un correre a la morte. |
Tu prendine nota in memoria; e per come te le riporto io stessa (sì come da me son porte), così queste parole traslittera ai viventi (a’ vivi) che vivono un’esistenza destinata a perire (del viver ch’è un correre a la morte).
Beatrice si raccomanda al suo protetto affinché memorizzi il suo sermone, per poi riproporlo ai viventi una volta ritornato sul mondo.
Il “viver ch’è un correre a la morte” è la vita terrena, destinata a finire.
E aggi a mente, quando tu le scrivi, | |
di non celar qual hai vista la pianta | |
57 | ch’è or due volte dirubata quivi. |
E ricorda (aggi a mente), quando le scriverai (scrivi), di non tralasciare (celar) come vedesti (qual hai vista) la pianta, che adesso, per la seconda volta, in questo luogo (quivi), è stata razziata (dirubata).
La “pianta ch’è or due volte dirubata” è l’albero della conoscenza, dapprima defraudato dei suoi frutti da Adamo ed Eva, la seconda dall’aquila imperiale; se si considera un terzo furto il carro a lei strappato dal gigante, il saccheggio si triplica e seguendo questa linea teorica diventa difficoltoso comprendere quali siano le due volte indicate da Beatrice.
Qualunque ruba quella o quella schianta, | |
con bestemmia di fatto offende a Dio, | |
60 | che solo a l’uso suo la creò santa. |
Chiunque la saccheggi oppure la devasti (Qualunque ruba quella o quella schianta), con blasfemo sacrilegio (bestemmia di fatto) oltraggia l’Altissimo (offende a Dio), che la creò inaccessibile (santa) esclusivamente secondo i suoi disegni (a l’uso suo).
Gli sconosciuti decreti divini in base ai quali la pianta venne creata inviolabile, vengono oltremodo sottoposti ad ingiuria da chiunque la rompa o la derubi.
Per morder quella, in pena e in disio | |
cinquemilia anni e più l’anima prima | |
63 | bramò colui che ’l morso in sé punio. |
Per averne morso il frutto (morder quella), Adamo (l’anima prima) bramò per cinquemila (cinquemilia) anni e più, fra tormento (in pena) e desiderio (in disio), l’arrivo di colui che redimesse con la propria morte (in sé punio) quel (’l) morso.
Per il suo addentar frutti, Adamo dovette attendere più di cinquanta secoli la venuta del Cristo il quale, attraverso la propria carne, ne avrebbe riscattato il suo peccaminoso gesto.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima | |
per singular cagione essere eccelsa | |
66 | lei tanto e sì travolta ne la cima. |
Il (lo) tuo intelletto (’ngegno) è assopito (Dorme), se non riesce a discernere (estima) la singolare ragione (singular cagione) per la quale la pianta (lei) sia tanto alta (eccelsa) e così capovolta nella (travolta ne la) cima.
Del simbolico significato attribuito alle piante, tre Canti purgatoriali han già tratteggiato:
– “Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, cred’io, perché persona sù non vada. Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso, cadea de l’alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso” (Canto XXII, vv.130-138).
– “E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d’un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci” (Canto XXIV, vv.100-105).
– “Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”; poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo. La coma sua, che tanto si dilata più quanto più è sù, fora da l’Indi ne’ boschi lor per altezza ammirata” (Canto XXXII, vv.37-42).
E se stati non fossero acqua d’Elsa | |
li pensier vani intorno a la tua mente, | |
69 | e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa, |
per tante circostanze solamente | |
la giustizia di Dio, ne l’interdetto, | |
72 | conosceresti a l’arbor moralmente. |
E se i frivoli pensieri (li pensier vani) avvolti alla (intorno a la) tua mente non avessero avuto (fossero) sulla stessa l’effetto (fossero) delle acque dell’(acqua d’)Elsa, e la loro attrattiva (’l piacer) paragonabile a un Piramo sui gelsi (a la gelsa), a quei due soli attributi (per tante circostanze) riconosceresti moralmente nell’albero (conosceresti a l’arbor) la giustizia di Dio.
La confusione mentale di Dante viene metaforicamente rapportato ad incrostazioni, come quelle conseguenti all’effetto del toscano fiume Elsa, affluente di sinistra dell’Arno, le cui acque molto calcaree, e delle macchie di sangue schizzate sui gelsi al conficcarsi una spada nel petto, da parte di Piramo, delineato in tredicesima terzina al nel ventisettesimo Canto di Purgatorio: “Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che ’l gelso diventò vermiglio”.
Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto | |
fatto di pietra e, impetrato, tinto, | |
75 | sì che t’abbaglia il lume del mio detto, |
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, | |
che ’l te ne porti dentro a te per quello | |
78 | che si reca il bordon di palma cinto». |
Ma poich’(perch’)io ti vedo (veggio te), mentalmente (ne lo ’ntelletto) pietrificato (fatto di pietra) e, una volta calcificato (impetrato), poi ottenebrato (tinto), al punto d’abbagliarti la luce della verità proveniente dalle mie parole (sì che t’abbaglia il lume del mio detto), desidero anche (voglio anco) che tu possa portarle (’l te ne porti) dentro di (a) te, e se non un resoconto (scritto), almeno un’impressione (dipinto), come colui (per quello) che torni (reca) con il bastone (bordon) adornato (cinto)”.
Beatrice, conscia dello scompiglio psichico dell’Alighieri, s’assicura ch’egli ritorni sulla terra portando con sé almeno un’impressione di quanto vissuto, come il pellegrino in rientro dalla Terrasanta avvolga foglie di palma al proprio bastone.
E io: «Sì come cera da suggello, | |
che la figura impressa non trasmuta, | |
81 | segnato è or da voi lo mio cervello. |
E Dante (io): “Così (Sì) come la cera che non muta (trasmuta) la figura a lei impressa con il sigillo (da suggello), il (lo) mio cervello è or marchiato (segnato) dal vostro discorso (da voi).
L’Alighieri specifica molto chiaramente quanto il parlare di Beatrice sia in lui indelebile.
Ma perché tanto sovra mia veduta | |
vostra parola disïata vola, | |
84 | che più la perde quanto più s’aiuta?». |
Ma perché le vostre parole, desiate, sorvolano (vostra parola disïata vola) sorvolano talmente il mio orizzonte mentale (tanto sovra mia veduta), che più la si smarrisca (perde) quanto più si tenti di capirla (s’aiuta)?”.
Però il poeta non riesce a comprendere il motivo per cui più si concentri per carpirne il significato, più le stesse gli divengano sfuggenti.
«Perché conoschi», disse, «quella scuola | |
c’hai seguitata, e veggi sua dottrina | |
87 | come può seguitar la mia parola; |
“Affinché tu conosca (Perché conoschi) appieno”, risponde (disse) Beatrice, “quella scuola che frequentasti (c’hai seguitata), e tu ti renda conto (veggi) di come la sua dottrina non sia in grado di tener testa alla (può seguitar la) mia parola;
e veggi vostra via da la divina | |
distar cotanto, quanto si discorda | |
90 | da terra il ciel che più alto festina.» |
e tu renda conto di come le scienze umane (vostra via) si discostino ampiamente (distar cotanto) da quelle (la) divine, tanto quanto il più elevato e celere dei cieli (cielo che più alto festina) si distanzia dalla sfera terrestre (discorda da terra)”.
La sua amata gli spiega che la sua difficoltà di comprensione deriva dall’essersi, in vita, riferito a dottrine filosofiche (scuola) non all’altezza e che la scienza di Dio surclassa ovviamente quella dell’uomo.
Il “ciel che più alto festina” è il nono del Paradiso, o Primo Mobile.
Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda | |
ch’i’ stranïasse me già mai da voi, | |
93 | né honne coscïenza che rimorda». |
Quindi Dante le risponde (Ond’io rispuosi lei): “Non rammento (mi ricorda) d’essermi giàmmai estraniato (ch’i’ stranïasse me già mai) da voi, tantomeno ne ho (né honne) coscienza che mi rimorda”.
«E se tu ricordar non te ne puoi», | |
sorridendo rispuose, «or ti rammenta | |
96 | come bevesti di Letè ancoi; |
Risponde (rispuose) una Beatrice sorridente (sorridendo): “E se tu non riesci (te ne puoi) a ricordartelo (ricordar), sull’istante (or) ti ricordo (rammenta) il tuo aver bevuto oggi (come bevesti ancoi) l’acqua del (di) Letè;
La donna, in quel suo sorridere, parrebbe ancor possedere una lieve e meravigliosa sfumatura umana, compiacendosi nella conferma di quanto il discostarsi terreno di quell’uomo, a lei caro al punto da intercedere per la sua beatitudine presso i Cieli, venga ritenuta una severa mancanza.
e se dal fummo foco s’argomenta, | |
cotesta oblivïon chiaro conchiude | |
99 | colpa ne la tua voglia altrove attenta. |
e se dal fumo (fummo) di deduce (s’argomenta) la presenza del fuoco (foco), codesto oblìo (cotesta oblivïon) evidenzia (conchiude) chiaramente (chiaro) il peccare (colpa) del tuo desiderio (ne la tua voglia) indirizzato (attenta) altrove.
Dante non ricorda d’essersi allontanato dalla sua adorata in quanto, avendo bevuto l’acqua del Letè, se n’è obliato e la stessa sorride in quanto, per il semplice fatto che le acque del fiume siano atte a cancellare la memoria dei peccati, se ne deduce che l’affrancarsi da lei dell’uomo sia stata un atto vizioso, al pari di quanto dal fumo s’intuisca la presenza del fuoco.
Veramente oramai saranno nude | |
le mie parole, quanto converrassi | |
102 | quelle scovrire a la tua vista rude.» |
Ciononostante ormai (Veramente oramai) le mie parole diverranno disadorne (saranno nude), per quanto sarà opportuno (converrassi) al fin di renderle abbordabili (quelle scovrire) dalla (a la) tua grezza (rude) capacità percettiva (vista)”.
Beatrice d’ora in poi parlerà in modo ad esser facilmente interpretabile, in linea con le facoltà dell’Alighieri.
E più corusco e con più lenti passi | |
teneva il sole il cerchio di merigge, | |
105 | che qua e là, come li aspetti, fassi, |
quando s’affisser, sì come s’affigge | |
chi va dinanzi a gente per iscorta | |
108 | se trova novitate o sue vestigge, |
le sette donne al fin d’un’ombra smorta, | |
qual sotto foglie verdi e rami nigri | |
111 | sovra suoi freddi rivi l’alpe porta. |
E il sole, maggiormente fulgido (corusco) e lento nel cammino (con più lenti passi), giunge al meridiano (teneva il sole il cerchio di merigge) — il quale muta la propria posizione secondo lo sguardo di colui che l’osserva (che qua e là, come li aspetti, fassi) — quando le sette donne si bloccano (s’affisser), come ferma incedere (s’affigge) una guida (dinanzi a gente per iscorta), dinanzi ad una scoperta (se trova novitate) o parvenza di essa (sue vestigge), ai margini d’una zona tenuemente velata (al fin d’un’ombra smorta), similmente all’ombra donata dal verde fogliame e dai bruni (nigri) rami, presso i gelidi torrenti di montagna (sovra suoi freddi rivi l’alpe porta).
Verso il mezzodì, le sette donne s’arrestano improvvisamente al margine di una zona ombreggiata.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri | |
veder mi parve uscir d’una fontana, | |
114 | e, quasi amici, dipartirsi pigri. |
Dinanzi ad esse, a Dante par di scorgere (veder mi parve) l’Eufrate (Ëufratès) e il Tigri sgorgar da un’unica fonte (uscir d’una fontana), e, come (quasi) amici, disgiungersi in tutta calma (dipartirsi pigri).
Tigri ed Eufrate sono i due celebri corsi d’acqua che delimitano quella che all’epoca era la Mesopotamia, ad oggi regione della Siria orientale e dell’Iraq centrale; nella Genesi gli stessi compaiono come Phisón e Géon, itinerari dell’Eden.
«O luce, o gloria de la gente umana, | |
che acqua è questa che qui si dispiega | |
117 | da un principio e sé da sé lontana?». |
“O luce, o gloria dell’umanità (de la gente umana), che fiumi sono questi (acqua è questa) che qui scaturisce (si dispiega) da un’unica sorgente (un principio) e poi si separano (sé da sé lontana)?”
L’Alighieri è palesemente stupito.
Per cotal priego detto mi fu: «Priega | |
Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose, | |
120 | come fa chi da colpa si dislega, |
In risposta a cotale quesito (Per cotal priego) Beatrice consiglia a Dante (detto mi fu) di pregare (Priega) Matelda perché glielo (che ’l ti) dica. E, a questo punto (qui), la bella donna risponde (rispuose), nell’intento di discolparsi (come fa chi da colpa si dislega), asserendo che quanto l’Alighieri sta chiedendo (Questo), in aggiunta ad altre cose, da lei stessa (per me) gli sono già state spiegate (li son dette); ella poi si dice certa (e son sicura) non avergliele celate (gliel nascose) l’acqua del (di) Letè.
Il Letè non può aver tolto dalla memoria dell’Alighieri le spiegazioni a suo tempo fornitegli da Matelda, essendo che le sue acque cancellano esclusivamente le colpe.
la bella donna: «Questo e altre cose | |
dette li son per me; e son sicura | |
123 | che l’acqua di Letè non gliel nascose». |
E Bëatrice: «Forse maggior cura, | |
che spesse volte la memoria priva, | |
126 | fatt’ha la mente sua ne li occhi oscura. |
In ribattuta (E) Beatrice ipotizza che forse ben altri turbamenti (maggior cura), che frequentemente (spesse volte) sottraggono (priva) della capacità mnemonica (la memoria), possono aver offuscato (fatt’ha oscura) la sua mente nelle sue facoltà visive (ne li occhi).
La ragioni di tali dimenticanze viene dunque attribuita a semplice distrazione, per aver fissato la concentrazione su altri aspetti e, nell’affermarlo, quasi fosse una giustificazione nei confronti del suo sconquassato allievo, la donna dimostra un’affettuosa amorevolezza, quasi materna, per il senso protettivo ch’emana.
Ma vedi Eünoè che là diriva: | |
menalo ad esso, e come tu se’ usa, | |
129 | la tramortita sua virtù ravviva». |
Indi Beatrice, indicando (vedi) a Matelda l’Eunoè che defluisce (diriva) a poca distanza (là), la sprona a condurvi Dante (menalo ad esso), e raccomandandole di ravvivare (ravviva) l’annebbiato ricordo delle sue (la tramortita sua) virtù, com’è sua abitudine fare (come tu se’ usa).
Quel “come tu se’ usa” è altresì letto in ‘come hai già fatto’, essendo la seconda volta che la donna immerge l’Alighieri nelle acque.
Come anima gentil, che non fa scusa, | |
ma fa sua voglia de la voglia altrui | |
132 | tosto che è per segno fuor dischiusa; |
Come un’anima garbata (Come anima gentil), che non avanzi scuse (fa scusa), facendo (fa) della (de la) volontà (voglia) altrui il proprio volere (sua voglia), non appena la stessa venga palesata (tosto che è per segno fuor dischiusa);
così, poi che da essa preso fui, | |
la bella donna mossesi, e a Stazio | |
135 | donnescamente disse: «Vien con lui». |
così, dopo esser stato Dante (popi che fui) preso per mano da Matelda, la bella donna s’incammina (mossessi), dicendo (e disse) a Stazio, con far signorile (donnescamente): “Vieni (Vien) con lui”.
Stazio viene spronato a seguirli, dato che anch’esso dovrà poi completare il suo percorso di purificazione.
S’io avessi, lettor, più lungo spazio | |
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte | |
138 | lo dolce ber che mai non m’avria sazio; |
L’Alighieri confida ai suoi lettori (lettor) che s’egli avesse (S’io avessi) maggior (più lungo) spazio a disposizione, (da) scrivere, tenterebbe di decantare, per quanto sia possibile (i’ pur cantere’ in parte), il soave gusto derivato dal sorseggiare (lo dolce ber) le acque dell’Eunoè, delle quali (che) mai si sarebbe saziato (non m’avria sazio);
ma perché piene son tutte le carte | |
ordite a questa cantica seconda, | |
141 | non mi lascia più ir lo fren de l’arte. |
ma dato l’esser complete (perché piene son) tutte le pagine tramate per (ordite a) questa seconda Cantica, il freno (lo fren) dell’(de l’)arte gli impedisce di continuare (non mi lascia più ir).
Il “fren de l’arte” sta probabilmente a significare la lunghezza dell’opera che l’autore s’era prefissato.
Io ritornai da la santissima onda | |
rifatto sì come piante novelle | |
144 | rinovellate di novella fronda, |
145 | puro e disposto a salire a le stelle. |
Dante si congeda dal sacro fiume (Io ritornai da la santissima onda) completamente rigenerato (rifatto sì), come le giovani (novelle) piante che si rinnovano (rinovellate) di nuovi ramoscelli (novella fronda), purificato (puro) e abilitato (disposto) a risalir (salire a) le stelle.
A chiusura di Cantica segue ascesa in Paradiso, là dove assaporare “La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove”…
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