Divina Commedia: Purgatorio, Canto XXVIII
Nicolò Barabino (1832-1891), Dante incontra Matelda, 1876-87
Rassicurato dalle precedenti parole di Virgilio sul suo aver ormai raggiunto un meritato livello d’indipendenza, Dante s’inoltra nella selva dell’Eden, stupefacendosi della sua mirabile e lussureggiante natura e poco dopo trovandosi nei pressi di un limpido torrente le cui acque cristalline non hanno pari, dall’altro lato dello stesso notando una bellissima donna nell’atto di cantare, raccogliendo fiori.
Il poeta, ammirato della sua grazia e beltà, le chiede d’avvicinarsi per meglio comprendere le parole del suo canto e la stessa acconsente, a lui appressandosi con far riservato ed amabile che al sol guardarla emoziona.
Trattasi di Matelda, presenza protagonista del Canto, della quale il nome verrà accennato solamente in chiusura di Cantica, qui semplicemente appellata “bella donna”, con cui l’Alighieri converserà per ben ventiquattro terzine consecutive, dalla stessa apprendendo l’origine di venti e fiumi dell’Eden, oltre al generarsi delle piante tanto nel Paradiso Terrestre quanto sul mondo.
A final suggello di gradito colloquio una chicca di sottintesa lode, da parte della savia donna, a Stazio e Virgilio, con conseguente orgoglio del discepolo nel vederli sorridere.
La paradigmatica personalità di Matelda e la raffigurazione della “divina foresta” sono allegorico perno della Commedia, una selva contrapposta a quella “oscura”, a suo tempo entrando Dante nella quale la “diritta via era smarrita”, da allora principiando il titubante peregrino faticoso ed illuminante tragitto verso la vetta della beatitudine, nell’Eden sostando e ripartendo, indi simbolicamente racchiudendo nello stesso un doppio significato, una tappa che altro non è che un nuovo avvio, dopo aver goduto del diletto derivante da un brevissimo soggiorno fra le sue meraviglie.
Un luogo in cui si ripercorre l’antico errare d’Adamo, tuttavia non fissandosi in esso ma innalzando sguardo ai Cieli, nel fremente entusiasmo d’accederne in piena purificazione, il discepolo indirizzandosi ad essi con l’esclusività d’un bagaglio traboccante saggezza proveniente dalle vissute esperienze.
Uno spazio in permanente movimento, lo stesso moto palpitante nel cuore di un Alighieri prossimo al giungere e ricongiungere vista e pathos alla donna amata, sempre più vicina, mai comunque obliandosi di rendere omaggio alle sue due stimate guide, onorandole di velati encomi che dalle labbra di Matelda riecheggiano da secoli fra i vibrati ed elegiaci inchiostri del fiorentin verseggiatore, imperiture gemme ricamate a fil d’infinito e battenti sull’emotività del lettore più appassionato.
Vago già di cercar dentro e dintorno | |
la divina foresta spessa e viva, | |
3 | ch’a li occhi temperava il novo giorno, |
sanza più aspettar, lasciai la riva, | |
prendendo la campagna lento lento | |
6 | su per lo suol che d’ogne parte auliva. |
Ormai smarrito nel desiderio (Vago già) di perlustrare (cercar), in lungo e in largo (dentro e dintorno) la divina foresta, fitta e lussureggiante (spessa e viva), che alla vista attenua (ch’a li occhi temperava) lo sfavillio del sole appena sorto (il novo giorno), Dante, senza ulteriormente attendere (sanza più aspettar), abbandona (lasciai) il margine (la riva) dell’altopiano, inoltrandosi nell’ampia pianura (prendendo la campagna), con passo lento (lento lento) calcando quel suolo (su per lo suol) che da ogni (d’ogne) parte effonde effluvi (auliva).
La “divina foresta” è il Paradiso Terrestre nel quale l’Alighieri s’inoltra in titubante esplorazione.
Un’aura dolce, sanza mutamento | |
avere in sé, mi feria per la fronte | |
9 | non di più colpo che soave vento; |
Una mite brezza (Un’aura dolce), omogenea al suo interno (sanza mutamento avere in sé), sfiora il pellegrino sulla (mi feria per la) fronte con tocco non più forte d’un gradevole venticello (non di più colpo che soave vento);
“sanza mutamento avere in sé” indica plausibilmente una folata uniforme, sia nell’orientamento che nella potenza.
per cui le fronde, tremolando, pronte | |
tutte quante piegavano a la parte | |
12 | u’ la prim’ombra gitta il santo monte; |
a conseguenza del quale le frasche (per cui le fronde), ondeggiando (tremolando), in generale arrendevolezza (pronte tutte quante) s’inclinano orientandosi verso l’area dove (a la parte ù’) il promontorio purgatoriale (santo monte) proietta (gitta) l’ombra di primo mattino (la prim’ombra);
La locuzione “a la parte u’ la prim’ombra gitta il santo monte”, indica l’occidente.
non però dal loro esser dritto sparte | |
tanto, che li augelletti per le cime | |
15 | lasciasser d’operare ogne lor arte; |
senza (non) però deviar troppo (esser sparte tanto) dall’originaria posizione verticale (dal loro esser sparte), per modo che agli uccelletti (li augelletti) sia comunque concessa la pratica d’ogni loro dote (lasciasser d’operare ogne lor arte);
Dunque i rami si flettono, pur mantenendo una perpendicolarità idonea al naturale cinguettar dei pennuti.
ma con piena letizia l’ore prime, | |
cantando, ricevieno intra le foglie, | |
18 | che tenevan bordone a le sue rime, |
tal qual di ramo in ramo si raccoglie | |
per la pineta in su ’l lito di Chiassi, | |
21 | quand’Ëolo scilocco fuor discioglie. |
anzi, con traboccante gaiezza (piena letizia) dando accoglienza alle (l’) prime ore del giorno tra il fogliame (ricevieno intra le foglie), che a sua volta s’accompagna (tenevan bordone) al loro canto (a le sue rime), similmente a come avviene (tal qual si raccoglie), al passaggio del cinguettio di ramo in ramo, nella (per la) pineta a ridosso del litorale (in su ’l lito) di Chiassi, quando Eolo scioglie vento di Scirocco (quand’Ëolo scilocco fuor discioglie).
Il “lito di Chiassi” è l’odierna spiaggia del Lido di Classe, nei pressi dell’antico porto di Ravenna; al discepolo affiora alla mente in quanto il pigolio dei passeri lo conduce alla sua pineta.
Eolo, nella mitologia greca, è il re dei venti secondo l’interpretazione — una fra le tante di differenti autori — dell’omerica Odissea.
Il termine “scilocco” è forma antica indicante il suddetto vento.
Già m’avean trasportato i lenti passi | |
dentro a la selva antica tanto, ch’io | |
24 | non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi; |
Ormai la lenta andatura ha inoltrato Dante (Già m’avean trasportato i lenti passi) talmente (tanto) a fondo della (dentro a la) selva antica, ch’egli non è più in grado (ch’io non potea) di scorgere il punto da cui ne fece ingresso (ond’io mi ’ntrassi);
L’Alighieri pare in preda ad una sorta di disorientamento.
ed ecco più andar mi tolse un rio, | |
che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde | |
27 | piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo. |
ed ecco che un fiumiciattolo (rio) gli impedisce di procedere oltre (più andar mi tolse), dato il suo incurvare (piegava) verso (che ‘nver’) sinistra, con le sue piccole (picciole) onde, l’erba che spunta sulla sua riva (che ’n sua ripa uscìo).
Il “rio” è il fiume Lete e, considerando che lo stesso si fa ostacolo a Dante direzionando le sue onde a sinistra, se ne deduce che il poeta stia procedendo verso destra.
Tutte l’acque che son di qua più monde, | |
parrieno avere in sé mistura alcuna | |
30 | verso di quella, che nulla nasconde, |
avvegna che si mova bruna bruna | |
sotto l’ombra perpetüa, che mai | |
33 | raggiar non lascia sole ivi né luna. |
La totalità delle (Tutte l’) acque che sulla terra sono più terse (son di qua più monde), al confronto (verso) di quella appena vista, perfettamente nitida (che nulla nasconde), parrebbero (parrieno) avere in sé una sorta di torbidezza (mistura alcuna), seppur (avvegna che) la stessa avanzi scorrendo alquanto oscurata (si mova bruna bruna) sotto l’ombra perpetua, che mai permette ai raggi solari, tantomeno ai lunari, di penetrare (raggiar non lascia sole ivi né luna).
La limpidezza del piccolo corso d’acqua è al di sopra di qualsiasi trasparenza fin ad allora vista dall’Alighieri sul mondo, apparendo in tutta la sua chiarezza nonostante l’ombreggiata posizione.
Coi piè ristetti e con li occhi passai | |
di là dal fiumicello, per mirare | |
36 | la gran varïazion d’i freschi mai; |
Dante arresta il passo (Coi piè ristetti) e con lo sguardo (li occhi) attraversa (passai di là) il piccolo fiumicello, al fin di rimirare (per mirare) la vasta varietà di rami ricoperti da gemme fiorite (gran varïazion d’i freschi mai);
e là m’apparve, sì com’elli appare | |
subitamente cosa che disvia | |
39 | per maraviglia tutto altro pensare, |
una donna soletta che si gia | |
e cantando e scegliendo fior da fiore | |
42 | ond’era pinta tutta la sua via. |
e lì gli appare (là m’apparve), al pari di come improvvisamente compare (sì com’elli appare subitamente) ciò (cosa) che, a causa dello stupore (per meraviglia), devia qualsiasi altro pensiero (tutto altro pensare), una donna che, in tutta solitudine (soletta), se ne va (si gia) sia (e) cantando che raccogliendo fiori fra quelli (e scegliendo fior da fiore) di cui è disseminato l’intero suo tragitto (ond’era pinta tutta la sua via).
La donna ricorda quella sognata dall’Alighieri nel Canto precedente, ovvero Lia, apparsa in trentatreesima terzina: “giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea…”.
Sebben ancor oggi la femminil figura sia oggetto dei più disparati tentativi d’identificazione, al cento diciannovesimo versetto dell’ultimo Canto purgatoriale la stessa verrà enunciata nel nome di Matelda: “Per cotal priego detto mi fu: “Priega Matelda che ’l ti dica”.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore | |
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti | |
45 | che soglion esser testimon del core, |
vegnati in voglia di trarreti avanti», | |
diss’io a lei, «verso questa rivera, | |
48 | tanto ch’io possa intender che tu canti. |
Dante le parla (diss’io a lei): “Suvvia (Deh), bella donna, che ti scaldi attraverso (a’) raggi d’amore, se vado confidando nell’aspetto (s’i’ vo’ credere a’ sembianti) ch’è solitamente specchio del sentimento (soglion esser testimon del core), che ti compiaccia venir un poco (vegnati in voglia di trarreti) avanti, verso questa sponda (rivera), affinché possa comprendere cosa stai cantando (possa intender che tu canti).
Tu mi fai rimembrar dove e qual era | |
Proserpina nel tempo che perdette | |
51 | la madre lei, ed ella primavera». |
Tu mi fai ricordare (rimembrar) in che luogo si trovava e com’(dove e qual)era Proserpina nel periodo (tempo) durante il quale venne persa (perdette lei) dalla madre, e lei (ed ella) perdette la primavera”.
Di Proserpina narrano le ovidiane Metamorfosi: Proserpina, versione mitologica romana delle greca Persefone, era figlia di Cerere, dea romana della terra e della fertilità; mentre la giovane raccoglieva fiori sulle ripe d’un lago, Plutone, divinità greca degli Inferi, la rapì, facendola sua sposa e, contemporaneamente, regina del regno infernale.
Chiesto l’aiuto del fratello Giove, ente supremo, il massimo che l’addolorata madre riuscì ad ottenere fu la liberazione della figlia per sei mesi l’anno, i rimanenti da trascorrere a fianco del marito Plutone; afflitta, Cerere s’adoperò affinché nel semestre d’assenza dell’adorata Proserpina il gelo totale calasse, assopendo la natura, per poi risvegliarsi al ritorno della stessa.
Come si volge, con le piante strette | |
a terra e intra sé, donna che balli, | |
54 | e piede innanzi piede a pena mette, |
volsesi in su i vermigli e in su i gialli | |
fioretti verso me, non altrimenti | |
57 | che vergine che li occhi onesti avvalli; |
Come donna in fase di danza (balli) volteggia (si volge), con i piedi ben saldi per (piante strette a) terra, mettendo a mala pena un piede davanti all’altro (innanzi piede), Matelda si volge (volsesi) verso l’Alighieri (me), passando sopra (in su) i vermigli fiori e sui (in su i) gialli, come una vergine che tenga abbassato (avvalli) il pudico sguardo (li occhi onesti);
L’immagine che l’autore della Commedia rende della donna, al punto da farla quasi apparire agli occhi del lettore come una timida ed aggraziata danzatrice, è d’una delicatezza disarmante.
e fece i prieghi miei esser contenti, | |
sì appressando sé, che ’l dolce suono | |
60 | veniva a me co’ suoi intendimenti. |
dunque realizzando il desiderio di Dante (e fece i prieghi miei esser contenti), appressandoglisi a tal punto (sì appressando sé), da condurre al suo udito la soave melodia del suo canto (che ’l dolce suono) con (co’) tutti i suoi significati (intendimenti).
Tosto che fu là dove l’erbe sono | |
bagnate già da l’onde del bel fiume, | |
63 | di levar li occhi suoi mi fece dono. |
Non appena giunta (Tosto che fu) nel punto in cui l’erba viene ormai bagnata dalle acque (là dove l’erbe sono già bagnate da l’onde) del bel fiume, Matelda fa (fece) dono all’Alighieri (mi) di sollevare il suo sguardo (levar li occhi suoi).
Non credo che splendesse tanto lume | |
sotto le ciglia a Venere, trafitta | |
66 | dal figlio fuor di tutto suo costume. |
Dante non crede che sotto le ciglia di (a) Venere, trafitta dal figlio involontariamente (fuor di tutto suo costume), splendesse cotanta luce (tanto lume) d’amore.
Son sempre le Metamorfosi a narrare della dea dell’amore Venere, per sbaglio trafitta dal figlio Cupido, o Eros, avuto dalla relazione con Marte, dio della guerra; il figlio, colpendola involontariamente con il suo dardo, l’innamorò del bellissimo Adone.
Alla vista dello sguardo di quella donna lui apparsa incantandolo, l’Alighieri ne scorge talmente tanto amore da ritenerlo, al confronto, addirittura maggiore di quello che potesse avere l’infatuata Venere.
Ella ridea da l’altra riva dritta, | |
trattando più color con le sue mani, | |
69 | che l’alta terra sanza seme gitta. |
Ella ride fiera (dritta) sulla riva opposta (da l’altra), intrecciando (trattando) una miriade di fiori colorati (più color) con le sue mani, che quella sopraelevata distesa (l’alta terra) origina (gitta) senza semina (sanza seme).
Non v’è seminagione in quanto la flora origina s’origina per mano del Creatore.
Tre passi ci facea il fiume lontani; | |
ma Elesponto, là ’ve passò Serse, | |
72 | ancora freno a tutti orgogli umani, |
più odio da Leandro non sofferse | |
per mareggiare intra Sesto e Abido, | |
75 | che quel da me perch’allor non s’aperse. |
Di soli tre passi il fiume distanzia Dante e Matelda (ci facea lontani); ma l’Ellesponto (Elesponto), nella zona dove l’attraversò (là ’ve passò) Serse, tuttora deterrente nei confronti della generale presunzione dell’umanità (ancora freno a tutti orgogli umani), non fu maggiormente odiato (più odio non sofferse) da Leandro, per le sue mareggiate fra (mareggiare intra) Sesto ed Abydos (Abido).
Dell’Ellesponto — attuale stretto dei Dardanelli che collega il mar di Marmara all’Egeo — narrano le Heroides, raccolta d’immaginarie epistole, in lingua latina, composte, fra il 25 ed il 16 a.C. circa, per mano del poeta romano Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17/18 a.C.), fra le cui pagine prende vita la triste storia d’amore fra Leandro ed Ero, della quale scrisse anche Museo, scrittore e poeta greco antico, soprannominato ‘Grammatico’, vissuto nel quinto secolo.
Leandro è follemente innamorato di Ero, per raggiunger la quale, abitando i due amanti sulle rive opposte del braccio marino — ad Abydos, sulla costa frigia, lui, a Sesto, sul lato prospiciente turco, lei — il giovane, ogni notte, attraversa a nuoto acque trafficate da numerose imbarcazioni, nonché spesso rese altrettanto pericolose dalle correnti che lo agitano, mentre l’infatuata fanciulla lo attende alla finestra, con un lume di candela che gli possa fare da indicazione di rotta; la fiamma della stessa, malauguratamente, un giorno si smorza e, in quella medesima nottata, Leandro, privo della fidata guida, perde la vita in mare.
Va da sé quanto tali acque siano state detestate dal ragazzo, insofferenza che ora si manifesta nell’Alighieri al ritener il Lete un ostacolo fra lui e la donna che vorrebbe avvicinare oltremodo.
L’aggancio al re di Persia Serse I (519 a.C. – 465 a.C.) avviene in quanto il sovrano, nel 480 a.C., navigò in medesimo tratto marittimo, allo scopo di dichiarare guerra alla Grecia, durante il secondo conflitto persiano.
«Voi siete nuovi, e forse perch’io rido», | |
cominciò ella, “in questo luogo eletto | |
78 | a l’umana natura per suo nido, |
maravigliando tienvi alcun sospetto; | |
ma luce rende il salmo Delectasti, | |
81 | che puote disnebbiar vostro intelletto. |
Ella inizia a parlare (cominciò): “Voi siete nuovi del posto, e può esser (forse) che alcune perplessità vi stiano meravigliando (maravigliando tienvi alcun sospetto), per il fatto ch’io irraggi gioia (perch’io rido) in questo luogo scelto (eletto) da Dio come personale dimora (suo nido) per la (a l’) specie (natura) umana; ma il salmo Delectasti vi renderà (rende) l’interpretazione (luce) in grado di sciogliere ogni vostro dubbio (che puote disnebbiar vostro intelletto).
Il “Delectasti” rimanda al Salmo 91 della Vulgata, ovvero la traduzione, in latino della Bibbia, a partir dall’antica versione greca ed ebraica ad opera, sul finir del quarto secolo, dello scrittore, teologo e santo Romano Sofronio Eusebio Girolamo (347-420), che esorta alla lode delle bellezze del creato; in questo frangente ci si riferisce, per la precisione, al versetto che recita: “Quia delectasti me, Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo” — “Poiché hai voluto allietarmi, Signore, con l’opera tua, per l’opera delle tue mani esulterò”.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti, | |
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta | |
84 | ad ogne tua question tanto che basti». |
E tu che stai davanti e mi supplicasti (se’ dinanzi e mi pregasti), confidami se altre cose vuoi sapere (dì s’altro vuoli udir); ch’io sono venuta in quanto predisposta (ch’i’ venni presta) a rispondere ad ogni tuo quesito per quel tanto che basta (basti)”.
«L’acqua», diss’io, «e ’l suon de la foresta | |
impugnan dentro a me novella fede | |
87 | di cosa ch’io udi’ contraria a questa». |
L’Alighieri, in risposta (diss’io): “La corrente dell’acqua e il e il fruscio della (’l suon de la) foresta, dentro di (a) me discordano (impugnan) con una mia recente convinzione (a me novella fede) nata sull’ascolto di una cosa che io udii (ch’io udi’), contrapposta (contraria a questa).
In effetti il discepolo ben ricorda la spiegazione fornita da Stazio, su richiesta di Virglilio, riguardo all’assenza di fenomeni atmosferici in Purgatorio: “Libero è qui da ogne alterazione: di quel che ’l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d’altro, cagione” (Purgatorio, canto XXI, vv. 43-45); di conseguenza non riesce a comprendere come possano esserci nel Paradiso Terrestre vento e flusso dell’acque.
Ond’ella: «Io dicerò come procede | |
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face, | |
90 | e purgherò la nebbia che ti fiede. |
Ond’ella: “Io ti dirò (dicerò) come e secondo quale ragione (per sua cagion) si verifica (procede) ciò che ti provoca sbalordimento (ch’ammirar ti face) e diraderò (e purgherò) la confusione (nebbia) che ti offusca (fiede) la mente.
Matelda avvia dunque una lunga e scrupolosa delucidazione, al fin di sciogliere ogni perplessità nella mente di Dante.
Lo sommo ben, che solo esso a sé piace, | |
fé l’uom buono e a bene, e questo loco | |
93 | diede per arr’a lui d’etterna pace. |
Dio (Lo sommo ben), che solamente di sé di compiace (solo esso a sé piace), creò (fé) l’uomo intriso di bontà (buono) ed indirizzato al (a) bene, e gli concesse (diede codesto luogo (questo loco) come pegno (per arr’a lui) d’eterna (eterna) pace.
L’Eden fu concesso in dote all’umanità come sede d’eterna beatitudine.
Per sua difalta qui dimorò poco; | |
per sua difalta in pianto e in affanno | |
96 | cambiò onesto riso e dolce gioco. |
Per suo difetto (sua difalta) qui dimorò per poco tempo; per suo difetto (difalta) tramutò (cambiò) virtuosa gaiezza (onesto riso) in pianto e dolce serenità (gioco) in affanno.
Sennonché l’uomo, per effetto del peccato originale, vi sostò ben poco.
Perché ’l turbar che sotto da sé fanno | |
l’essalazion de l’acqua e de la terra, | |
99 | che quanto posson dietro al calor vanno, |
a l’uomo non facesse alcuna guerra, | |
questo monte salìo verso ’l ciel tanto, | |
102 | e libero n’è d’indi ove si serra. |
Per scongiurare che i sotterranei tremori provocati dal vapore delle acque (Perché ’l turbar che sotto da sé fanno l’essalazion de l’acqua) e del suolo (de la terra) che, per quanto loro possibile (posson), tendono a dirigersi verso il calore (dietro al calor vanno), non causino agli uomini alcun fastidio (a l’uomo non facesse alcuna guerra), questo monte s’elevò al cielo fino a questa altezza (salìo verso ’l ciel tanto), rimanendone immune (e libero n’è) fino al suo ingresso (d’indi ove si serra).
Il Padre Eterno, per scongiurar ogni interferenza d’agenti atmosferici che potessero infastidir i primi progenitori, innalzò il monte purgatoriale verso il cielo, da essi esonerandolo fin dal primo varco alla sua base.
Sempre da Stazio, come già approfondito nel ventunesimo Canto di codesta Cantica, proviene teoria esposta sulla sistematica dei vapori.
Or perché in circuito tutto quanto | |
l’aere si volge con la prima volta, | |
105 | se non li è rotto il cerchio d’alcun canto, |
in questa altezza ch’è tutta disciolta | |
ne l’aere vivo, tal moto percuote, | |
108 | e fa sonar la selva perch’è folta; |
Ora (Or), essendo che la sfera dell’aria (tutto quanto l’aere) si muove in cerchio (in circuito) seguendo la rotazione del Primo Mobile (si volge con la prima volta), salvo intermittenze provocate all’interno del suo tracciato (se non li è rotto il cerchio d’alcun canto), tale moto d’aria sbatte (percuote) su questo promontorio (in questa altezza) ch’è totalmente immerso (ch’è tutta disciolta) nell’aria libera (ne l’aere vivo), facendo stormire la selva in tutto il suo esser fitta (e fa sonar la selva perch’è folta);
e la percossa pianta tanto puote, | |
che de la sua virtute l’aura impregna | |
111 | e quella poi, girando, intorno scuote; |
e i travolti alberi (la percossa pianta) posseggono tal potere (tanto puote), da impregnare l’aria della loro virtù (che de la sua virtute l’aura impregna), la stessa virtù (e quella) che poi, ruotando (girando), tutt’intorno s’effonde (intorno scuote);
e l’altra terra, secondo ch’è degna | |
per sé e per suo ciel, concepe e figlia | |
114 | di diverse virtù diverse legna. |
e il mondo terrestre (l’altra terra), in base alla fecondità ed al suo clima (secondo ch’è degna per sé e per suo ciel), concepisce e genera (concepe e figlia) differenti alberi (diverse legna) da differenti (di diverse) virtù.
Non parrebbe di là poi maraviglia, | |
udito questo, quando alcuna pianta | |
117 | sanza seme palese vi s’appiglia. |
Sulla terra non dovrebbe dunque suscitar stupore (Non parrebbe di là poi maraviglia), ascoltato ciò (udito questo), se qualche (quando alcuna) pianta attecchisce (vi s’appiglia) senza esser stata direttamente seminata (sanza seme palese).
Secondo tal assunto, il vento deriva dalla rotazione delle sfere celesti, per azione delle quali la diradata atmosfera avvolge le piante dell’Eden, generandone il fruscio; in tal modo l’aria assorbe le loro virtù seminali, poi spandendole sul mondo, dando vita alla sua variegata vegetazione, la cui eventuale spontaneità di crescita non dovrebbe quindi stupire.
E saper dei che la campagna santa | |
dove tu se’, d’ogne semenza è piena, | |
120 | e frutto ha in sé che di là non si schianta. |
E devi (dei) saper che la sacra pianura (campagna santa) ove ti trovi (dove tu se’), è ricolma (piena) d’ogni tipologia di semi (d’ogne semenza), ma non tutti i frutti che custodisce in essa si possono cogliere sulla sfera terrestre (e frutto ha in sé che di là non si schianta).
L’acqua che vedi non surge di vena | |
che ristori vapor che gel converta, | |
123 | come fiume ch’acquista e perde lena; |
L’acqua che osservi (vedi) non origina (surge) da una fonte (di vena) alimentata da vapori acquei che il freddo possa tramutare in pioggia (che ristori vapor che gel converta), come un fiume che rinvigorisca o fiacchi la sua portata (ch’acquista e perde lena);
ma esce di fontana salda e certa, | |
che tanto dal voler di Dio riprende, | |
126 | quant’ella versa da due parti aperta. |
ma sgorga da una sorgente (ma esce di fontana salda e certa), continua e inesauribile (costante e certa), che tanta acqua (acqua) riguadagna (riprende) per volere divino (dal voler di Dio), quant’ella poi ne riversa (versa) nelle due diramazioni in cui è suddivisa (da due parti aperta).
Matelda spiega che anche il corso d’acqua ai piedi dell’Alighieri, insieme ad un secondo ancor no visionato, sgorgano esclusivamente per matrice divina.
Da questa parte con virtù discende | |
che toglie altrui memoria del peccato; | |
129 | da l’altra d’ogne ben fatto la rende. |
In questa zona del Purgatorio (Da questa parte) discende con la virtù che cancella (toglie) l’altrui memoria del peccato; nell’(da l’)altra riconsegna (rende) tutto il bene operato (d’ogne ben fatto) sulla terra.
Quinci Letè; così da l’altro lato | |
Eünoè si chiama, e non adopra | |
132 | se quinci e quindi pria non è gustato: |
Di qui (quinci) il fiume prende il nome di Lete; così, dall’altra parte (da l’altro lato), si chiama Eünoè, e l’acqua non esercita i suoi effetti (non adopra) qualora non degustata da entrambe le propaggini (se quinci e quindi pria non è gustato):
La donna poi illustra come il primo fiume, ossia il Lete, abbia poteri oblianti sui peccati commessi, mentre il secondo, vale a dire l’Eunoè, renda alle anime il ricordo del bene esercitato durante il proprio arco vitale, tuttavia realizzandosi lo straordinario portento solo dopo averne sorseggiato entrambe le acque.
a tutti altri sapori esto è di sopra. | |
E avvegna ch’assai possa esser sazia | |
135 | la sete tua perch’io più non ti scuopra, |
darotti un corollario ancor per grazia; | |
né credo che ’l mio dir ti sia men caro, | |
138 | se oltre promession teco si spazia. |
il sapore dell’Eünoè (esto) surclassa (è di sopra) tutti gli altri. E nonostante possa esser che il tuo desiderio di sapere sia alquanto appagato (avvegna ch’assai possa esser sazia la sete tua) senza ch’io sia a rivelarti altro (perch’io più non ti scuopra), ti fornirò (darotti) ancor un corollario per mia grazia; tantomeno (né) credo che le mie parole ti saranno meno piacevoli (’l mio dir ti sia men caro), benché oltrepassino quanto t’avevo promesso e quando da te richiesto (se oltre promession teco si spazia).
Quelli ch’anticamente poetaro | |
l’età de l’oro e suo stato felice, | |
141 | forse in Parnaso esto loco sognaro. |
Coloro che in tempi remoti decantarono in versi (Quelli ch’anticamente poetaro) l’età dell’oro e la sua gioiosa condizione (felice stato), verosimilmente (forse) nel (Parnaso) sognarono (sognarono) codesto luogo (esto loco).
Il Parnaso, come precedentemente accennato al sessantacinquesimo versetto del ventiduesimo Canto purgatoriale (verso Parnaso a ber ne le sue grotte), è montagna ellenica durante l’antichità idolatrata e consacrata al culto delle Muse, nonché ritenuta loro dimora, quindi luogo d’ispirazione poetica per antonomasia nel quale, come s’evince nell’ipotesi di Matelda, coloro che poetarono dell’età dell’oro e della gioia di chi la visse, può esser sognassero il Paradiso Terrestre.
Qui fu innocente l’umana radice; | |
qui primavera sempre e ogne frutto; | |
144 | nettare è questo di che ciascun dice». |
Nell’eden (Qui), l’originaria umanità (l’umana radice) era incontaminata (fu innocente); qui è sovrana eterna (regna sempre) primavera e ogni (ogne) frutto; nettare son le acque di codesto fiume di cui tutti parlano (questo di che ciascun dice)”.
Matelda, avendo presumibilmente riconosciuto Stazio e Virgilio, proferisce riguardo a poeti classici che decantarono l’età dell’oro, quel tempo mitico, anche detto ‘età aurea’, che leggenda vuole caratterizzato da floridezza e copiosità, un’era in cui gli uomini avrebbero vissuto in piena e pacifica armonia, senza che battaglie o sentimenti d’odio appartenessero agli stessi, con terre autonome nel produrre flora d’ogni genere e condizioni climatiche perennemente ottimali.
Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto | |
a’ miei poeti, e vidi che con riso | |
147 | udito avëan l’ultimo costrutto; |
Dante si gira indi completamente indietro (rivolsi ’n dietro allora tutto) verso i suoi (a’ miei) poeti, notandone il sorridere (e vidi che con riso) con cui avevano ascoltato (udito avëan) l’ultima supposizione (l’ultimo costrutto);
Alle sue parole, Dante volge sguardo a suoi due stimati poeti, constatandone la compiaciuta e sorridente espressione derivata dall’ascolto di quanto, fra le righe, carpito come un elogio.
148 | poi a la bella donna torna’ il viso. |
poi riportai lo sguardo alla (torna’ il viso a la) bella donna.
Matelda ricalcherà successivo palco “Cantando come donna innamorata, continüò col fin di sue parole: ‘Beati quorum tecta sunt peccata!’…”
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