Divina Commedia: Purgatorio, Canto XXVI
Francesco Scaramuzza (1803-1886), 1870
I tre poeti continuano il loro pellegrinaggio sull’orlo della settima Cornice, Virgilio raccomandandosi che il suo protetto mantenga alta l’attenzione su dove posar i passi, nel frattempo i lussuriosi sconcertandosi nel notare che il corpo di Dante proietta un’ombra, indi deducendone lo stato vivente ed interpellandolo, in tal modo avviando una prima conversazione che si sviluppa fra l’Alighieri e il poeta Guido Guinizelli, fra i due verificandosi uno scambio di vicendevoli informazioni che permetto tanto all’anima di comprendere le modalità di visita dell’Oltretomba, da parte del discepolo, quanto allo stesso di venire a conoscenza di due differenti sezioni di lussuriosi, ovvero quelli che peccarono per eccesso di passione ed altri che s’abbandonarono al vizio della sodomia.
Le due schiere di spiriti proseguono in direzione opposta, pur condividendo penitenza, ambedue difatti soggette ad ardere nel fuoco, marciando al suo interno.
Fra la sua compagine, la prima, Guido indicherà a Dante coloro che in vita furono due massimi esponenti della poesia provenzale, ossia Arnaut Daniel e Giraut de Bornelh e proprio con Arnaut l’Alighieri — una volta defilatosi lo stimato Guido tra le fiamme, ma non prima d’aver supplicato il poeta diintercedere per lui nel regno celeste, tramite preghiera — avvierà conversazione, calando il sipario sull’ultime terzine una garbatezza d’espressione linguistica, da parte di Daniel, che lascia assaporare tutta la bellezza della cortesia portata a rima con vero pathos.
Il Canto rinforza e perfeziona argomentazione, riguardo agli stili poetici, principiata nel precedente per bocca di Bonagiunta Orbicciani, da una parte tessendo encomi alla soavità poetica del Guinizelli, ricamante inchiostro in lingua volgare, dall’altra prolungandoli sulle novità apportate nella struttura e nei contenuti poetici da parte d’Arnaut, plausibilmente l’autore della Commedia decidendo di relegare codesti personaggi fra i lussuriosi, non tanto per eccesso d’attività pratica, come peraltro non risulterebbe dalle scarse notizie biografiche a disposizione degli stessi, bensì in riferimento al loro proporre letteratura fortemente amorosa, la medesima che a Paolo e Francesca procurò la dannazione nel corrispettivo girone infernale, ad ogni modo arieggiando, sull’inestimabile palco del sommo poema, l’eco della poesia nelle sue forme linguistico-stilistiche, mai mancando il magnanimo e riconoscente Alighieri di riconoscere peculiari virtù a chiunque meriti di riceverne esaltazione.
Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro, | |
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro | |
3 | diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»; |
Mentre Stazio, Virgilio e Dante procedono in quella maniera (ce n’andavamo sì), uno davanti (innanzi) all’altro, sul bordo (per l’orlo) della Cornice, il buon maestro frequentemente (e spesso) raccomanda al suo protetto (diceami) di ben guardare (Guarda) dove posa i piedi e di compiacersi del fatto ch’egli lo sproni a stare all’erta (giovi ch’io ti scaltro);
feriami il sole in su l’omero destro, | |
che già, raggiando, tutto l’occidente | |
6 | mutava in bianco aspetto di cilestro; |
il sole, che già, tramite i suoi raggi (raggiando), muta in candida nuances (mutava in bianco) la celeste sembianza (aspetto di cilestro) di tutta la parte occidentale (tutto l’occidente) del cielo, picchia sulla spalla destra dell’Alighieri (feriami in su l’omero destro);
Quando il sole sbianca la zona occidentale del cielo, significa ch’è in procinto di tramontare e che, di conseguenza, saranno passate le quattro pomeridiane.
e io facea con l’ombra più rovente | |
parer la fiamma; e pur a tanto indizio | |
9 | vidi molt’ombre, andando, poner mente. |
e Dante, sull’ombra da lui proiettata, fa sembrar (parer) la fiamma ancor più rovente; e di fronte a così palese circostanza (e a tanto indizio) egli nota tante anime (vidi molt’ombre) le quali, senza mai fermarsi (andando), perseverano nel rivolgere su di lui l’attenzione (pur poner mente).
È ormai prassi che i penitenti si sbalordiscano alla visione dell’ombra dell’Alighieri, evento inedito ed incomprensibile a coloro che lo vedano per la prima volta.
Questa fu la cagion che diede inizio | |
loro a parlar di me; e cominciarsi | |
12 | a dir: «Colui non par corpo fittizio»; |
Questo è il motivo per cui le stesse iniziano a parlare (Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar) di lui (me), cominciando col dire (e cominciarsi a dir) ch’egli (Colui) non par aver corpo etereo (fittizio);
poi verso me, quanto potëan farsi, | |
certi si fero, sempre con riguardo | |
15 | di non uscir dove non fosser arsi. |
poi taluni spiriti (certi), per quanto lor concesso (quanto potëan farsi), s’appressano a Dante (verso me si fero), avendo l’accortezza (con riguardo) di non fuoriuscir al di fuori del fuoco che li arde (dove non fosser arsi).
I peccatori, nonostante la smania d’osservar più da vicino il corpo in carne ed ossa dell’Alighieri, si spingono a fil di fiamma, tuttavia zelantemente accorte nel non oltrepassarla, per assoluta devozione nel rispettar la penitenza prevista da decreto divino.
«O tu che vai, non per esser più tardo, | |
ma forse reverente, a li altri dopo, | |
18 | rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo. |
“O tu che cammini (vai) dietro agli (dopo a li) altri, non tanto per malavoglia (non per esser più tardo), ma probabilmente per referenza (forse reverente), rispondi a me che ardo nella (’n) sete e nel fuoco (’n foco).
Una fra le anime inizia a parlare, da subito notando quanto la scelta del discepolo di stare alle spalle dei due sommi poeti, non sia frutto di pigrizia, quanto d’estremo riguardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo; | |
ché tutti questi n’ hanno maggior sete | |
21 | che d’acqua fredda Indo o Etïopo. |
E la tua risposta non sarà di conforto (è uopo) solamente (Né solo) a me; dato che (ché) tutti questi penitenti n’hanno maggior sete di quanta (che) se ne avrebbe d’acqua fredda in India o in Etiopia (Indo o Etïopo).
La spiegazione di come sia possibile entrare da vivi nei meandri dell’Oltretomba è impazientemente e generalmente attesa, come fosse un’insopportabile arsura d’appagare al più presto.
Dinne com’è che fai di te parete | |
al sol, pur come tu non fossi ancora | |
24 | di morte intrato dentro da la rete.» |
Spiegaci come sia possibile il tuo esser ostacolo ai raggi solari (Dinne com’è che fai di te parete al sol), proprio (pur) come se tu non fossi ancora finito nella (intrato dentro da la) rete della (di) morte.
Gli spiriti sanno bene che su di loro i raggi del sole non si fermerebbero, ma ne oltrepasserebbero l’immaterialità corporea.
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora | |
già manifesto, s’io non fossi atteso | |
27 | ad altra novità ch’apparve allora; |
Così parla a Dante un peccatore (Sì mi parlava un d’essi); e il pellegrino si sarebbe (e io mi fora) già palesato (manifesto), se nell’istante non fosse stato rapito da ulteriore (s’io non fossi atteso ad altra) apparizione (ch’apparve allora);
ché per lo mezzo del cammino acceso | |
venne gente col viso incontro a questa, | |
30 | la qual mi fece a rimirar sospeso. |
essendo che (ché), al centro del sentiero infuocato (per lo mezzo del cammino acceso), sopraggiungono anime in direzione opposta a quelle già presenti (venne gente col viso incontro a questa), nei confronti delle quali l’Alighieri si fissa in sbalordita osservazione (la qual mi fece a rimirar sospeso).
Lì veggio d’ogne parte farsi presta | |
ciascun’ombra e basciarsi una con una | |
33 | sanza restar, contente a brieve festa; |
Lì Dante vede (veggio) ciascun penitente (ombra) affrettarsi (farsi presta), ognuno nel proprio senso di marcia (d’ogne parte), poi l’uno baciarsi con l’altro senza arrestarsi (e basciarsi una con una sanza restar), appagandosi di quella fugace effusione (contente a brieve festa);
così per entro loro schiera bruna | |
s’ammusa l’una con l’altra formica, | |
36 | forse a spïar lor via e lor fortuna. |
similmente (così), all’interno del loro drappello bruno (per entro loro schiera bruna), si sfiorano reciprocamente il muso le formiche (s’ammusa l’una con l’altra formica), può esser (forse) al fin di scambiarsi informazioni di tragitto ed augurarsi vicendevole (a spïar lor via e lor) fortuna.
Tosto che parton l’accoglienza amica, | |
prima che ’l primo passo lì trascorra, | |
39 | sopragridar ciascuna s’affatica: |
Non appena terminato l’amorevole dimostrazione d’affetto (Tosto che parton l’accoglienza amica), ancor prima d’aver compiuto il (prima che ’l) primo passo per dislocare (lì trascorra), ogni spirito si sforza di gridare nel tentar di sovrastare l’altro (sopragridar ciascuna s’affatica):
la nova gente: «Soddoma e Gomorra»; | |
e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife, | |
42 | perché ‘l torello a sua lussuria corra». |
i nuovi peccatori (la nova gente) gridano: “Sodoma (Sodomma) e Gomorra”; mentre gli altri (e l’altra): “Nella (Ne la) vacca entra Pasifae (Pasife), affinché il toro appaghi la (perché ‘l torello corra a) sua lussuria”.
Si delineano due categorie di lussuriosi: la “nova gente” sono le anime apparse in un secondo momento le quali, gridando “Sodomma e Gomorra”, lasciano comprendere d’essersi, nella loro esistenza terrena, macchiate del vizio di sodomia, peraltro la città di Sodoma già citata nella diciassettesima terzina dell’undicesimo Canto infernale, ove si descrive il sostar tra le fiamme dei penitenti che scontano l’essersi abbandonati a lussuria: “e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella”; gli spiriti che viceversa hanno interpellato per primi l’Alighieri, peccarono abbandonandosi eccessivamente ad eterosessuali lusinghe carnali, ragion per la quale, ad alta voce, accennano al mito, narrato nelle Metamorfosi d’Ovidio, della ninfomane dea Pasifae, nascosta in una “vacca” di legno per soddisfare la sua vogliosa libidine nell’accoppiarsi con un toro, dalla cui unione nacque il Minotauro e la qual nascita già citata, con relativa spiegazione a riguardo, fra la quarta e la quinta terzina del dodicesimo Canto dell’Inferno: “l’infamïa di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca”.
Poi, come grue ch’a le montagne Rife | |
volasser parte, e parte inver’ l’arene, | |
45 | queste del gel, quelle del sole schife, |
l’una gente sen va, l’altra sen vene; | |
e tornan, lagrimando, a’ primi canti | |
48 | e al gridar che più lor si convene; |
Poi, come gru (grue) che (ch’), in parte, volino verso i monti Ripei (volassero a le montagne Rife), e parte verso il deserto (inver’ l’arene), queste per fuggire dal gelo (queste del gel), quelle per schivare la calura solare (del sole schife), un gruppo di peccatori se ne (l’una gente sen) va, l’altro se ne viene (l’altra sen vene) in direzione opposta; e, piangendo (lagrimando), ritornano (tornan) a cantar i loro (a’) primi canti ed alle grida maggiormente appropriate a loro (e al gridar che più lor si convene);
In verità, le gru non si separano mai, in natura volando unite sulla stessa rotta; i monti Ripei fu leggendaria catena montuosa che si credeva cingesse l’Europa.
I “primi canti” sono quelli penitenziali, vocalizzati in coro nel Canto precedente, alternati ad esempi di castità, più confacenti alle anime dei lussuriosi.
e raccostansi a me, come davanti, | |
essi medesmi che m’avean pregato, | |
51 | attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti. |
quindi si riaccostano all’Alighieri (e raccostansi a me), come poco prima (davanti), gli stessi penitenti (essi medesmi) che l’avevan (m’avean) pregato di parlare, nell’atteggiamento (ne’ lor sembianti) intensamente concentrati nell’atto dell’ascolto (attenti ad scoltar).
Gli spiriti che si riavvicinano a Dante sono i primi incontrati, quelli marcianti nella stessa direzione dei tre poeti.
Io, che due volte avea visto lor grato, | |
incominciai: «O anime sicure | |
54 | d’aver, quando che sia, di pace stato, |
non son rimase acerbe né mature | |
le membra mie di là, ma son qui meco | |
57 | col sangue suo e con le sue giunture. |
L’Alighieri (io), percependo il loro compiacimento (che avea visto lor grato) per la seconda volta (due volte), inizia a parlare (incominciai): “O anime certe (sicure) di conquistare (d’aver), quando sarà (che sia), uno stato di beatitudine (pace), il mio corpo (le membra mie), né giovane (acerbe), tantomeno anziano (mature), non è rimasto sulla terra (non son rimase di là) sulla terra, ma è (son) qui con me (meco) con tanto di (col) sangue e con le sue articolazioni (giunture).
Quinci sù vo per non esser più cieco; | |
donna è di sopra che m’acquista grazia, | |
60 | per che ’l mortal per vostro mondo reco. |
Da qui risalgo (Quinci sù vo) per affrancarmi dalla cecità del peccato per (non esser più cieco); più in alto (di sopra) v’è una donna che mi pregerà della (m’acquista) grazia divina, grazie alla quale m’è concesso d’attraversare il vostro regno con il mio corpo mortale (per che ’l mortal per vostro mondo reco).
La donna menzionata è Beatrice, che intercederà per Dante in Paradiso.
Ma se la vostra maggior voglia sazia | |
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi | |
63 | ch’è pien d’amore e più ampio si spazia, |
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi, | |
chi siete voi, e chi è quella turba | |
66 | che se ne va di retro a’ vostri terghi». |
Ma, augurandovi che (se) la vostra maggior aspirazione (voglia) venga presto realizzata (sazia tosto divegna), per modo (sì) che il (’l) cielo, ch’è colmo (pien) d’amore e d’infinita estensione (più ampio si spazia), sia vostra dimora (v’alberghi), ditemi, perch’io ne possa riportar nel mio libro (acciò ch’ancor carte ne verghi), chi siete voi, e chi è quella schiera (turba) che se ne va alle vostre spalle (di retro a’ vostri terghi).
Non altrimenti stupido si turba | |
lo montanaro, e rimirando ammuta, | |
69 | quando rozzo e salvatico s’inurba, |
che ciascun’ombra fece in sua paruta; | |
ma poi che furon di stupore scarche, | |
72 | lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta, |
«Beato te, che de le nostre marche», | |
ricominciò colei che pria m’inchiese, | |
75 | «per morir meglio, esperïenza imbarche! |
Non diversamente (altrimenti) rimase turbato dallo stupore il (stupido si turba lo) montanaro, silenziandosi nel guardarsi attorno (e rimirando ammuta) quando, grossolano e selvaggio (rozzo e salvatico), fa il suo ingresso in città (s’inurba), rispetto a quanto si mostrano stupefatti, uno per uno, tutti quei peccatori (che ciascun’ombra fece in sua paruta); ma, dopo essersi liberati dallo sbigottimento (poi che furon di stupore scarche), che nei cuori di nobile animo celermente s’attutisce (lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta), colei che precedentemente aveva posto quesito all’Alighieri (pria m’inchiese), ricomincia (ricominciò) a discorrere: “Beato te che, allo scopo d’arrivar a fine vita in maniera maggiormente degna (per morir meglio), interiorizzi (imbarche) conoscenza (esperïenza) del nostro mondo (de le nostre marche).
La gente che non vien con noi, offese | |
di ciò per che già Cesar, trïunfando, | |
78 | ‘Regina’ contra sé chiamar s’intese: |
Le anime che non incedono (vien) insieme a noi, sono marchiate del vizio per cui Giulio Cesare (offese di ciò per che già Cesar), nel pieno del suo trionfo (trïunfando), si sentì apostrofar con l’epiteto ‘Regina’.
Antichi autori narrarono d’un Giulio Cesare e di una sua ipotetica relazione, quando ventenne, intrapresa con il re di Bitinia, Nicomede III di Evergete (? – 94 a.C. circa), sulla base della quale, quando il console entrò trionfante nell’Urbe, venne apostrofato come ‘regina di Britinia’.
però si parton ‘Soddoma’ gridando, | |
rimproverando a sé com’ hai udito, | |
81 | e aiutan l’arsura vergognando. |
per questo motivo s’avviano urlando (però si parton gridando) ‘Sodoma (Soddoma)’, rimproverandosi (rimproverando), per come (com’) ne hai udito, e acuendo il supplizio con la vergogna (e aiutan l’arsura vergognando).
Ancora una volta viene sottolineata la tendenza omosessuale d’una parte di penitenti.
Nostro peccato fu ermafrodito; | |
ma perché non servammo umana legge, | |
84 | seguendo come bestie l’appetito, |
in obbrobrio di noi, per noi si legge, | |
quando partinci, il nome di colei | |
87 | che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge. |
Il nostro peccato fu eterosessuale (ermafrodito); ma dato che non osservammo (servammo) l’umana legge, assecondando come animali la passional brama (seguendo come bestie l’appetito), ogniqualvolta (quando) incontriamo e ci separiamo ci separiamo (partinci) dall’altra compagine di spiriti, a nostro disonore (in obbrobrio di noi) proclamando (per noi si legge) il nome di colei che s’imbestialì nella bestia di legno (s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge).
Trattasi delle succitata Pasifae.
Or sai nostri atti e di che fummo rei: | |
se forse a nome vuo’ saper chi semo, | |
90 | tempo non è di dire, e non saprei. |
Adesso puoi comprendere il nostro comportamento (Or sai nostri atti) e di che vizio peccammo (fummo rei): qualora inoltre tu desiderassi venir a conoscenza delle generalità d’ognuno di noi (se forse a nome vuo’ saper chi semo), non v’è sufficiente tempo per farne elenco (dire), non sarei dunque in grado di farlo (non saprei).
Farotti ben di me volere scemo: | |
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo | |
93 | per ben dolermi prima ch’a lo stremo.» |
Ma ti renderò alquanto privo della smania di saper chi sono io (Farotti ben di me volere scemo): son Guido Guinizelli, e mi trovo già qui ove mi sto purificando (purgo) per essermi sinceramente pentito (per ben dolermi) prima d’arrivare ad esalare l’ultimo respiro (ch’a lo stremo)”.
Guido Guinizelli, fu giudice e poeta considerato il padre del Dolce Stil Novo, come esplicato nel ventiquattresimo Canto di codesta Cantica, e nei confronti del quale Dante provò smisurata stima, al punto da citarlo, con tanto d’elogio, nelle sue sue opere; diffuso fu l’apprezzamento delle sue liriche da parte di scrittori contemporanei, nonostante l’esigua quantità delle stesse.
Da sinistra: Guido Cavalcanti in atto di recitare poesie di Guido Guinizzelli; Dante mentre Giotto ne compie il ritratto presente a Palazzo del Bargello; Cimabue e tra le donne in processione, Beatrice.
Quali ne la tristizia di Ligurgo | |
si fer due figli a riveder la madre, | |
96 | tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, |
quand’io odo nomar sé stesso il padre | |
mio e de li altri miei miglior che mai | |
99 | rime d’amor usar dolci e leggiadre; |
Alla vista del Guinizelli, l’Alighieri si ritrova nello stesso stato (tal mi fec’io) in cui si trovarono (Quali si fer), ai tempi del lutto (ne la tristizia) di Ligurgo, i due figli al (a) riveder la madre, sebben Dante non si spinga fino a dove si spinsero gli stessi (ma non a tanto insurgo), quand’ode nominarsi (io odo nomar sé stesso) il suo (mio) padre poetico e di (de li) quanti altri, migliori di lui (miei miglior), che scrissero (che mai usar) versi d’amore soavi ed elevati (rime d’amor dolci e leggiadre);
La “madre” della quale si parla è la mitologica Ipsipile della quale il diciottesimo Canto infernale, fra i versetti 88 e 93, riporta la triste storia d’abbandono, da parte di Giasone, dopo averla ingravidata di due gemelli: “Ello passò per l’isola di Lenno poi che l’ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate”.
In Purgatorio della donna si traccia il periodo in cui, schiava del re di Nemea, Licurgo, si rende indirettamente colpevole della morte del di lui figlio, a lei affidato, ucciso da una serpe durante un attimo di distrazione da parte sua; il sovrano, nel pieno dell’ira, la fa condurre al patibolo ove, improvvisamente, per clemenza degli dèi, riappaiono i suoi due figli gemelli, anni prima rapiti dai pirati, i quali, riconoscendola, affrontando i soldati si gettano fra le sua braccia, in piena commozione, la stessa provata da Dante nel vedere Guido.
Poi l’Alighieri, nel confronto da lui delineato a fine terzina, ritiene che l’insieme dei poeti elencati siano migliori di se stesso, nonché riferimenti eccelsi per la sua pratica scrittoria.
e sanza udire e dir pensoso andai | |
lunga fïata rimirando lui, | |
102 | né, per lo foco, in là più m’appressai. |
e Dante prosegue tragitto (andai) con far riflessivo (pensoso), rimirando Guinizelli senza null’altro ascoltare ed in assoluto silenzio (sanza udire e dir), tantomeno osando appressarsi maggiormente a lui (né in là più m’appressai), a causa del fuoco.
A differenza dei due gemelli, l’Alighieri si trattiene dall’impeto d’abbracciare Guido, date le fiamme a barriera dei due.
Poi che di riguardar pasciuto fui, | |
tutto m’offersi pronto al suo servigio | |
105 | con l’affermar che fa credere altrui. |
Dopo essersi completamente saturato del rimirarlo (Poi che di riguardar pasciuto fui), Dante s’offre interamente al suo servizio (tutto m’offersi pronto al suo servigio), con quella tipologia d’affermazione che reclama d’esser creduta (l’affermar che fa credere altrui).
L’Alighieri mette tutto se stesso nel rendersi a completa disposizione, facendo in modo che la sua sincerità ed il suo trasporto traspaiano dalle sue parole, in codesto caso indirettamente nominate e lasciate immaginare al lettore, coinvolgendolo ancor più nella vicenda.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, | |
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, | |
108 | che Letè nol può tòrre né far bigio. |
E Guinizelli a lui (Ed elli a me): “Tu lasci dentro di (in) me un tal segno (vestigio), per quanto ascolto (quel ch’i’ odo), e talmente cristallino (tanto chiaro), da non poter essere cancellato o sbiadito dalle acque del Lete (che nol può tòrre né far bigio Leté).
Il Lete è il celeberrimo fiume dell’Eden che, quando i peccatori s’immergono nelle sue acque, cancella dalla loro memoria il ricordo dei rispettivi peccati; nella mitologia greco-romana è associato all’oblio, potenzialità che gli riconosce anche lo stesso Virgilio nell’Eneide, fra le cui pagine egli cantò delle anime peccatrici, purificatesi ed in fase di reincarnazione, tuffarsi in esso e riemergere senza più nulla rimembrare della precedente esistenza.
Il fatto che Guido si dichiari certo di non scordare mai, neppur per effetto del Lete, l’affetto lui dimostrato dalle parole di Dante, rende l’idea dell’intenso impatto delle stesse sulla sua mente, oltre che sul suo cuore.
Ma se le tue parole or ver giuraro, | |
dimmi che è cagion per che dimostri | |
111 | nel dire e nel guardar d’avermi caro». |
Ma se le tue parole di poco fa han giurato verità (or ver giuraro), dimmi qual è la ragione (dimmi che è cagion) per cui mi stai dimostrando (che dimostri), attraverso parole e sguardi (nel dire e nel guardar), d’avermi tanto a cuore (caro)”.
E io a lui: «Li dolci detti vostri, | |
che, quanto durerà l’uso moderno, | |
114 | faranno cari ancora i loro incostri». |
E l’Alighieri (io) rivelandogli (a lui) il motivo di cotanta ammirazione: “I (Li) vostri dolci componimenti poetici, i quali, fintantoché perdurerà l’utilizzo della lingua moderna (quanto durerà l’uso moderno), renderanno valore all’inchiostro con il quale sono stati scritti (faranno cari ancora i loro incostri)”.
Con “uso moderno” s’intende la lingua italiana, più precisamente nella forma volgare, qui considerata nella sua forma scritta.
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno | |
col dito», e additò un spirto innanzi, | |
117 | «fu miglior fabbro del parlar materno. |
“O fratello”, riprende (disse) Guinizelli, “costui che ti sto indicando (questi ch’io ti cerno) col dito”, e addita un penitente lì davanti (additò un spirto innanzi), “fu il miglior maestro (fabbro) della sua lingua natia (del parlar materno).
Lo spirito mostrato in vita fu il ragguardevole poeta provenzale, nato da una famiglia di modesta nobiltà, Arnaut Daniel (1150 circa -1210 circa), che parrebbe essersi dedicato dapprima allo studio della lingua latina in previsione di carriera ecclesiastica, poi deviando percorso verso la composizione di rime molto raffinate, dotte, spesso ostiche, ma considerate fortemente influenti su un’ampia fascia di poeti catalani.
Versi d’amore e prose di romanzi | |
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti | |
120 | che quel di Lemosì credon ch’avanzi. |
Egli surclassò (soverchiò) tutti quanti sia nella poesia amorosa (Versi d’amore) che nella prosa romanzata (prose di romanzi); e lascia che gli (li) stolti parlino (dir), ritenendo gli stessi l’uomo di Lemosino superiore agli altri.
Colui che viene soprannominato “quel di Lemosì” fu il verseggiatore Giraut de Bornelh (1138-1215), nato appunto a Perigord, confinante con il Limosino, quest’ultima storica regione situata nella zona centro-meridionale della Francia, che lasciò un’immane eredità di opere scritte in lingua occitana antica, la cosiddetta lingua d’oc, in una forma poetica, definita ‘trobar leu’, ovvero semplice, fluente e delicata, della quale il poeta venne ritenuto l’iniziatore, in contrapposizione al ‘trobar clus’, una maniera di comporre com maggior cripticità, durezza di suoni ed abbondanza d’allegorie.
Dello stile ‘trobadorico’, vale a dire quello racchiudente — nei secoli centrali del Basso Medioevo in gran parte del territorio francese — le composizioni liriche occitane, caratterizzate da testi di poesia melodica, ad opera dei ‘trovatori’, innovativi nell’utilizzo del volgare in sostituzione al latino, due massimi esponenti furono Arnaut Daniel, e Giraut de Bornelh.
A voce più ch’al ver drizzan li volti, | |
e così ferman sua oppinïone | |
123 | prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. |
Codesti stolti, danno maggior credito al successo corrente (A voce più ch’al ver drizzan li volti), in tal modo inchiodando il loro parere (e così ferman sua oppinïone) prima di porsi in ascolto (per lor s’ascolti) dell’(ch’)arte o della ragione (ragion).
Così fer molti antichi di Guittone, | |
di grido in grido pur lui dando pregio, | |
126 | fin che l’ha vinto il ver con più persone. |
Così fanno (fer) molti appartenenti all’antica generazione (antichi) di Guittone d’Arezzo, per passaparola (di grido in grido) continuando con caparbietà a sovrastimarlo (pur lui dando pregio), fino al sopraffarlo la verità (fin che l’ha vinto il ver), grazie alla dimostrazione ad opera di vari poeti (con più persone).
Guido sostiene l’erronea sopravvalutazione, secondo lui frutto d’ignoranza e scarso approfondimento, di Giraut de Bornelh rispetto ad Arnaud Daniel — sebben in vita Dante avesse decantato lodi allo stesso de Bornelh nel De Vulgari Eloquentia — ed altrettanto accadde nel caso di Guittone d’Arezzo, da molti, sulla scia dell’opinione comune, ritenuto migliore di quanto fosse, in seguito venuta a galla la verità grazie all’affermarsi degli stilnovisti.
La poetica del Guinizelli, nel genere lirico amoroso, si contrappose in maniera rivoluzionaria rispetto a quella, ai tempi predominante, del rimatore Guittone d’Arezzo, anch’esso citato nel Canto XXIV, semplificandone lo stile attraverso un linguaggio caratterizzato da maggiore dolcezza e cortesia, allo stesso tempo raffinandone ed arricchendone i contenuti dal punto di vista dottrinario, indi restringendo in maniera selettiva il proprio pubblico di ricezione ad una contenuta cerchia di poeti delle nascente élite intellettuale, che lo sostenne, preferendolo a Guittone, il religioso peraltro venne citato da Bonagiunta Orbicciani, nel conversar con Dante di Dolce Stil Novo: “O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!” (Purgatorio, Canto XXIV, 55-57).
Or se tu hai sì ampio privilegio, | |
che licito ti sia l’andare al chiostro | |
129 | nel quale è Cristo abate del collegio, |
falli per me un dir d’un paternostro, | |
quanto bisogna a noi di questo mondo, | |
132 | dove poter peccar non è più nostro.» |
Ora (Or), se tu benefici (hai) di un così ampio privilegio, che ti consente d’accedere (che licito ti sia l’andare) al chiostro in cui (nel quale) Cristo è priore dell’ordine (abate del collegio), fa il possibile per recitargli a mio beneficio un (falli per me un dir d’) paternostro, perlomeno per quanto sia di giovamento (bisogna) a noi del Purgatorio (di questo mondo), dove la possibilità di peccare ci è ormai estranea (dove poter peccar non è più nostro).
Il “chiostro nel quale è Cristo abate del collegio” è il Paradiso.
Poi, forse per dar luogo altrui secondo | |
che presso avea, disparve per lo foco, | |
135 | come per l’acqua il pesce andando al fondo. |
Poi, forse per conceder spazio ad una secondo peccatore a lui affiancato (dar luogo altrui secondo che presso avea), Guido si dilegua nel fuoco (disparve per lo foco), come fa il pesce inabissandosi (andando al fondo) nell’(per l’)acqua.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco, | |
e dissi ch’al suo nome il mio disire | |
138 | apparecchiava grazïoso loco. |
L’Alighieri s’avvicina leggermente all’anima indicata poco prima (Io mi fei al mostrato innanzi un poco), dicendole che (e dissi ch’), al suo nome, il suo desiderio (il mio desire) di venirne a conoscenza riserva garbata accoglienza (apparecchiava grazïoso loco).
El cominciò liberamente a dire: | |
«Tan m’abellis vostre cortes deman, | |
141 | qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. |
Il penitente inizia (El cominciò) liberamente a parlare (dire): “Tanto m’è gradevole la vostra cortese richiesta (Tan m’abellis vostre cortes deman), ch’io non posso, tantomeno voglio, celarmi a voi (qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire).
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; | |
consiros vei la passada folor, | |
144 | e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. |
Io sono (Ieu sui) Arnaut, che piango e vado cantando (que plor e vau cantan); compunto contemplo la passata follia (consiros vei la passada folor), e vedo, con gaiezza, la gioia alla quale ambisco, davanti a me (e vei jausen lo joi qu’ esper, denan).
Ara vos prec, per aquella valor | |
que vos guida al som de l’escalina, | |
147 | sovenha vos a temps de ma dolor!». |
Ora vi prego (Ara vos prec), in fede a quella virtù (per aquella valor) che vi conduce alla sommità della scalinata (que vos guida al som de l’escalina), di rimembrarvi, al tempo opportuno, della mia pena (sovenha vos a temps de ma dolor)!”.
La fine e traboccante gentilezza di linguaggio di Arnaut traspare dalle terzine fin quasi ad udirsi; a lui, come a Giraut, nella medesima opera Dante dedicò elogi, a Daniel in riferimento all’argomentar d’amore, a de Bornelh riguardo alla rettitudine; il Dante riteneva infatti esser i due, insieme a Bertrand de Born, inserito fra le sue pagine in merito alle armi, i più elevati rappresentanti della lingua provenzale, ciascuno in base alla tematica loro correlata.
148 | Poi s’ascose nel foco che li affina. |
Detto questo, Arnaut si nasconde nel fuoco espiatorio (Poi s’ascose nel foco che li affina).
Tramonta la sfera solare fra chiusura e riapertura di Canto, “Sì come quando i primi raggi vibra là dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l’alta Libra…”
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