Divina Commedia: Purgatorio, Canto XXIV
Yan Dargent (1824-1899), La Divine Comédie, traduction de Artaud de Montor, 1925
Dante, Stazio e Virgilio procedono attraverso la sesta Cornice, mentre l’Alighieri continua la sua piacevole conversazione con Forese, all’amico chiedendo notizie riguardo alla di lui sorella Piccarda e ricevendo esaurienti delucidazioni, apprendendone dimora nel regno celeste, poi scivolando il discorso sull’elencare, da parte di Donati, i nomi di alcuni spiriti nelle adiacenze, condizione fondamentale al riconoscimento, dato l’eccessivo logorio del loro magrissimo e consunto aspetto.
Fra questi, Bonagiunta Orbicciani, il pontefice Martino IV di Tours, Ubaldino degli Ubaldini della Pila, Bonifacio Fieschi e Messer Marchese degli Argugliosi, penitenti le cui esistenze furono caratterizzate da ingorda sregolatezza nei confronti di cibo e bevande.
Il pellegrino si trattiene in colloquio con Bonagiunta, con lo stesso aprendosi propizia occasione di argomentare sull’approccio stilnovista di Dante, rapportato agli stili delle scuole siculo-toscane, a tal proposito nominando influenti personalità poetiche quali Jacopo da Lentini e Guittone d’Arezzo, inoltre l’Orbicciani pronunciando profezia riguardo ad una donna che in futuro ospiterà l’Alighieri durante il suo esilio, pronostico alquanto oscuro al discepolo, che saranno gli eventi futuri a rendere comprensibile.
Ripreso dialogo con Forese, quest’ultimo chiede a Dante quando potranno rivedersi ed il vate ribatte di non saper quanti giorni gli restano, manifestando al contempo desiderio di trascorrerli con distacco dalle vicende terrene e lontano dalla natia Firenze, in graduale declino morale, al che Donati, imputando tal decadenza al proprio fratello Corso, prima di gentilmente congedarsi, ne preannuncia circostanze di morte.
L’Alighieri, nuovamente affiancando Stazio e Virgilio, con sorpresa si trova di fronte ad un secondo albero, sussultando quando dallo stesso fuoriesce una voce che, in un secondo momento, narra esempi di gola punita, sull’ascolto dei quali il trio procede, incontrando, in prossimità della risalita alla settima Cornice, un angelo estremamente luminoso, dalle roventi sembianze, che toglie la sesta P dalla fronte di Dante, con il suo gesto effondendo primaverili essenze nell’aria, calando il sipario sull’ultima terzina un’esclamazione che rende merito a quanti sappiano mantener costante desiderio di giustizia, poiché ne saranno appagati.
Per l’intero Canto l’Alighieri rimane protagonista, variando interlocutore e, tramite le voci delle anime parlanti, trattando di argomenti, di vario genere, a lui cari e rimanendo il saggio maestro sullo sfondo, senza mai interferire nei sermoni del suo protetto, tuttavia pronto a ridonarsi in presenza durante l’ultimo tratto del percorso, in prossimità dell’ultimo livello che li separa dal traguardo tanto ambito, ormai prossimo.
Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento | |
facea, ma ragionando andavam forte, | |
3 | sì come nave pinta da buon vento; |
Il parlare di Forese non rallenta il suo passo, tantomeno il fatto di camminare svigorisce la conversazione (Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento facea), ma, continuando a discorrere, i tre poeti procedono velocemente (ragionando andavam forte), al pari d’una (sì come) nave sospinta (pinta) da vento favorevole (buon);
e l’ombre, che parean cose rimorte, | |
per le fosse de li occhi ammirazione | |
6 | traean di me, di mio vivere accorte. |
e le anime (l’ombre), che paiono doppiamente morte (rimorte), attraverso gli occhi infossati si sbalordiscono all’osservar Dante (per le fosse de li occhi ammirazione traean di me), essendosi accorte del suo essere ancor vivente (di mio vivere).
Il logorante deturpamento che consuma la sembianze di golosi è come un ulteriore dipartita, oltre a quella terrena.
E io, continüando al mio sermone, | |
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda | |
9 | che non farebbe, per altrui cagione. |
E Dante (io), proseguendo il suo discorso (continüando al mio sermone) con Forese, afferma (dissi) che, a suo parere, l’anima di Stazio (Ella) risale (sen va sù) forse lentamente di quanto (più tarda che) non farebbe, a causa d’altri (per altrui cagione).
La “cagione” immaginata dall’Alighieri è Virgilio in quanto Stazio, pur di conversar con lui più a lungo, rallenta il suo cammino verso la toltale espiazione.
Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda; | |
dimmi s’io veggio da notar persona | |
12 | tra questa gente che sì mi riguarda». |
Poi egli chiede all’amico di rivelargli (Ma dimmi), qualor ne sia al corrente (se tu sai), dove (dov’è) si trovi la di lui sorella Piccarda; inoltre di dirgli (dimmi) se, fra i penitenti osservati (tra questa gente s’io veggio), che non smettono di scrutarlo (sì mi riguarda), vi sia qualche persona degna di nota (da notar).
«La mia sorella, che tra bella e buona | |
non so qual fosse più, trïunfa lieta | |
15 | ne l’alto Olimpo già di sua corona.» |
Forese risponde spiegando che sua (La mia) sorella, ch’egli non sa se (non so qual) fosse più buona o bella, s’appaga di gioiosa beatitudine (trïunfa lieta), nel paradiso celeste (ne l’alto Olimpo), quanto si era già meritata (già di sua corona).
Piccarda Donati, vissuta fra la metà e la fine del tredicesimo secolo, fu nobildonna e sorella di Forese, estremamente devota e infatti relegatasi, per sua volontà, nell’Ordine delle monache Clarisse, tuttavia contro il suo volere dovendo abbandonare il convento per maritarsi, obbligata dal fratello Corso, con l’abbiente Rossellino della Tosa, appartenente all’antica ed aristocratica famiglia fiorentina dei Tosinghi, con i Donati alleata nel sostenere la fazione politica dei guelfi neri.
Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta | |
di nominar ciascun, da ch’è sì munta | |
18 | nostra sembianza via per la dïeta. |
Queste le iniziali parole di Stazio (Sì disse prima); e poi: “Qui non è proibito (non si vieta) il nominar ciascuno (ciascun) spirito, essendo il nostro aspetto tanto usurato (da ch’è sì munta nostra sembianza) per via del digiuno (la dïeta).
Il far riconoscere ogni spirito tramite le sue generalità è fondamentale, nel caso dei golosi, il cui eccessivo deterioramento non concede altra possibilità d’individuazione.
Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, | |
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia | |
21 | di là da lui più che l’altre trapunta |
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: | |
dal Torso fu, e purga per digiuno | |
24 | l’anguille di Bolsena e la vernaccia». |
Costui (Questi)” – dice additandolo (e mostrò col dito) – è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia che, più sdrucita di tutte (più che l’altre trapunta), sta alle sue spalle (di là da lui), abbracciò (ebbe in le sue braccia) la Santa Chiesa: fu nativo di Tours (dal Torso), e paga fio (purga) per l’anguille di Bolsena e la vernaccia”.
Bonagiunta Orbicciani (1220-1285), o ‘da Lucca’, fu notaio e poeta esponente della scuola toscana guittoniana, in polemica antitesi alla nascente poesia guinizelliana e stilnovistica, mentre il peccatore che sta dietro la sua schiena fu il papa cattolico Martino IV (ca.1210-1285), nato Simon de Brion, precedentemente canonico e tesoriere della Chiesa del comune francese di Tours, del quale si narra si sia senza misura più volte rimpinzato di ‘anguille alla vernaccia’, durante sua prolungata sosta a Montefiascone.
Molti altri mi nomò ad uno ad uno; | |
e del nomar parean tutti contenti, | |
27 | sì ch’io però non vidi un atto bruno. |
Stazio nomina al pellegrino (mi nomò) molti altri peccatori, singolarmente elencandoli (ad uno ad uno); e dell’esser nominati (del nomar) paiono (parean) tutti contenti, al punto che Dante, pertanto, non vede uno soli di essi aver atteggiamenti ombrosi (sì ch’io però non vidi un atto bruno).
I penitenti non s’incupiscono poich’è motivo di gaiezza l’esser nominati ed eventualmente identificati da colui ch’è ancora in vita, in virtù del fatto che l’Alighieri potrà intercedere, una volta ritornato sulla terra, con i parenti d’ognuno in richiesta d’orazioni .
Vidi per fame a vòto usar li denti | |
Ubaldin da la Pila e Bonifazio | |
30 | che pasturò col rocco molte genti. |
Dante vede (Vidi) masticare a vuoto (a vòto usar li denti), per la fame, Ubaldino della (Ubaldin da la) Pila e Bonifacio (Bonifazio) che, con il pastorale (col rocco), fece da guida a molti fedeli (pasturò molte genti).
Ubaldino degli Ubaldini della Pila, vissuto su per giù fra il 1205 e il 1289, condusse esistenza fra bordelli e taverne, senz’alcun ritegno e con smisurata impertinenza abbandonandosi alla seduzione di donne, gioco, cibo e bevande, contraendo numerosi debiti e con la sua condotta infangando sia la nomea della nobile famiglia – di fede ghibellina – degli Ubaldini che quella dello zio cardinale Ottaviano degli Ubaldini, anche detto ‘Attaviano’(ca.1214-1273); di lui si racconta, senza assoluta conferma storica ai fatti, l’esser passato a miglior vita in conseguenza ad insufficienza respiratoria causata dall’adiposità fisica accumulata.
Bonifacio Fieschi, nato nella prima metà del tredicesimo secolo, fece parte della famiglia dei conti di Lavagna e fu arcivescovo di Ravenna, proveniente dall’Ordine domenicano, con munifica amministrazione del proprio ruolo, ciò nondimeno cavalcando popolarità per la sua incontenibile ingordigia.
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio | |
già di bere a Forlì con men secchezza, | |
33 | e sì fu tal, che non si sentì sazio. |
Vede Messer Marchese, ch’ebbe agio (spazio), a Forlì, già di bere con minor arsura (men secchezza), e così (sì) fu tal, da non sentirsi (che non si sentì) mai sazio.
Messer Marchese degli Orgogliosi (metà XIII secolo – 1316/1320), o ‘Argugliosi’, discendente della blasonata famiglia forlivese omonima, fu podestà di Faenza e attivo protagonista ghibellino fra lotte di fazione, annoverando fra le sue abitudini una smodata inclinazione al bere.
Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza | |
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca, | |
36 | che più parea di me aver contezza. |
Ma come fa chi guarda e poi predilige notare più una persona rispetto ad un’altra (s’apprezza più d’un che d’altro), l’Alighieri fa con (fei a) quel di (da) Lucca, che è colui che appare come chi ne sappia maggiormente sul suo conto (più parea di me aver contezza).
El mormorava; e non so che «Gentucca» | |
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga | |
39 | de la giustizia che sì li pilucca. |
Egli mormora (mormorava); e il discepolo sente (sentiv’io) pronunciare un qualcosa di simile a (non so che) “Gentucca”, provenire dal punto in cui (là) l’anima percepisce il contrassegno della (ov’el sentita la piaga de la) giustizia divina che in quella maniera (sì) li scarnifica (pilucca).
“Gentucca” era nome femminile ampiamente utilizzato, nel periodo storico di riferimento, in territorio lucchese, ma l’autore della Commedia non fornisce spiegazioni aggiuntive, rimanendo irrisolto l’arcano sull’identità della tal donna, fra le varie interpretazioni comunque ipotizzate da più commentatori.
Con “ov’el sentia la piaga de la giustizia” si rimanda alla bocca, ovvero al mezzo primo con il quale venne commesso peccato, ora la parte che più risente della penitenza.
«O anima», diss’io, «che par sì vaga | |
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda, | |
42 | e te e me col tuo parlare appaga.» |
“O anima”, le dice Dante (diss’io), “che appari tanto bramosa (par sì vaga) di parlar con me (meco), fai in modo ch’io ti possa comprendere (sì ch’io t’intenda), appagando (appaga) entrambi (e te e me) col tuo argomentare (parlare)”
Il reciproco appagamento deriva dalla soddisfazione dell’uno di parlare, dell’altro di udire.
«Femmina è nata, e non porta ancor benda», | |
cominciò el, «che ti farà piacere | |
45 | la mia città, come ch’om la riprenda. |
Lo spirito inizia (cominciò el) col rispondere esser (è) nata una donna (Femmina), che ancor non indossa (porta) turbante (benda), che renderà piacevole (farà piacere) all’Alighieri la sua città, nonostante le maldicenze sulla stessa (come ch’om la riprenda).
La “benda” era un piccolo copricapo, di velo nero, che veniva indossato dalle donne sposate e l’espressione “non porta ancor benda” sta dunque a significare che la figura femminile di cui sopra, era ancora nubile; veli bianchi venivano viceversa portati in osservanza del lutto, come accennato in venticinquesima terzina dell’ottavo Canto purgatoriale, parlando della vedova di Nino Visconti, che le levò in vista di seconde nozze: “non credo che la sua madre più m’ami, poscia che trasmutò le bianche bende, le quai convien che, misera!, ancor brami”.
Delle maldicenze sulla cittadina di Lucca (Zita) s’è anticipato nel XXI Canto dell’Inferno, fra il trentasettesimo ed il quarantaduesimo versetto: “O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche a quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita”.
Tu te n’andrai con questo antivedere: | |
se nel mio mormorar prendesti errore, | |
48 | dichiareranti ancor le cose vere. |
Il peccatore dice all’Alighieri che al suo andarsene porterà con sé questa predizione (Tu te n’andrai con questo antivedere): poi, nell’eventualità in cui il nome da lui precedentemente mormorato lo disorienti (se nel mio mormorar prendesti errore), sarà in seguito la realtà degli eventi a chiarirgli ogni perplessità (dichiareranti ancor le cose vere).
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore | |
trasse le nove rime, cominciando | |
51 | ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’.» |
Bonagiunta chiede poi a Dante di confermargli d’aver davanti agli occhi (Ma dì s’i’ veggio qui) colui che ha ideato un nuovo modo di fare poesia (fore trasse le nove rime), attraverso la stesura di (cominciando) ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’.
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’ è la prima canzone della ‘Vita Nova’, notoriamente considerata a tipica rappresentanza del ‘Dolce Stil Novo’, ossia il ragguardevole movimento poetico italiano originatosi a Bologna, tra il 1280 ed il 1310, poi traslatosi a Firenze, il cui artefice fu il giudice e poeta bolognese Guido Guinizelli (1237-1276), innovando tematiche e stile rispetto alla scuola poetica siciliana e a quella toscana.
E io a lui: «I’ mi son un che, quando | |
Amor mi spira, noto, e a quel modo | |
54 | ch’e’ ditta dentro vo significando». |
E l’Alighieri (io) a lui in riposta: “Io sono uno (I’ mi son un) che, quando ispirato dall’Amore (Amor mi spira), annoto (noto), e scrivo (vo significando) secondo quanto lo stesso mi suscita (a quel modo ch’e’ ditta (dentro)”.
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo | |
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne | |
57 | di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! |
Risponde Bonagiunta (diss’elli): “O fratello (frate), ora io vedo (issa vegg’io) l’impedimento (il nodo) che trattenne (ritenne) il Notaio, Guittone e me al di qua del (dal) dolce sti novo di cui ti sento (ch’i’ odo) parlare!
L’ “Amore” è il perno dello Stilnovismo, sul tal sentimento delineandosi, come dettate dall’interiorità, rime auliche e rappresentative di quella nobiltà d’animo che, oltre alla sofferenza provata dall’amante, tratta delle doti spirituali dell’amata, esulando dalla mera corrispondenza amorosa, indi elevandosi rispetto alle tendenze in voga fino ad allora, in particolar modo affrancandosi dalla poetica del notaio Jacopo da Lentini (ca.1210-ca.1260), uno dei principali rappresentanti della scuola siciliana, nonché colui ch’è ritenuto il creatore del sonetto, inoltre da quella del religioso Guittone d’Arezzo (1230/1235 – 1294), che fu il verseggiatore duecentesco più influente in terra toscana, al quale inizialmente lo stesso Dante s’ispirò, seppur poi deviando verso uno stile più vicino al provenzale, più vicino al nascente Stilnovo.
Io veggio ben come le vostre penne | |
di retro al dittator sen vanno strette, | |
60 | che de le nostre certo non avvenne; |
Io vedo bene (veglio ben) come le vostre penne si fanno fedeli seguaci (sen vanno strette di retro) a quanto dettato (al dittator) dall’Amore, circostanza che certamente (certo) per le nostre non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette, | |
non vede più da l’uno a l’altro stilo»; | |
63 | e, quasi contentato, si tacette. |
e chi desideri approfondire addentrandosi più a fondo nel tema (qual più a gradire si mette oltre), non vedrà altra discrepanza fra i due stili (non vede più da l’uno a l’altro stilo)”; e, come pienamente soddisfatto (quasi contentato), Bonagiunta si tace (tacente).
È su questo “Amor” che “spira” e “ditta dentro” che Bonagiunta comprende appieno l’unica differenza fra i due stili, silenziandosi sul filo dell’esauriente spiegazione dantesca.
Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, | |
alcuna volta in aere fanno schiera, | |
66 | poi volan più a fretta e vanno in filo, |
così tutta la gente che lì era, | |
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, | |
69 | e per magrezza e per voler leggera. |
Come gli uccelli (li augei) che, svernando (vernan) lungo il (’l) Nilo, talvolta nell’aria si raggruppano (alcuna volta in aere fanno schiera), poi volando (volan) più velocemente (a fretta) allineandosi (e vanno in filo), così tutte i penitenti (tutta la gente) che si trovavan (era) lì, distogliendo (volgendo) lo sguardo (’l viso) dall’Alighieri, affrettano (raffrettò) il loro passo, leggeri (leggera) sia (e) per magrezza che (e) per bramosia (voler) di redenzione.
I volatili descritti sono le gru.
E come l’uom che di trottare è lasso, | |
lascia andar li compagni, e sì passeggia | |
72 | fin che si sfoghi l’affollar del casso, |
sì lasciò trapassar la santa greggia | |
Forese, e dietro meco sen veniva, | |
75 | dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?». |
E come quell’uomo che sia spossato dal marciare (l’uom che di trottare è lasso), lascia proseguire (andar) i (li) compagni, procedendo in modo da lasciar sfiatare l’affaticamento toracico (e sì passeggia fin che si sfoghi l’affollar del casso), Forese si lascia oltrepassare dal santo drappello (sì lasciò trapassar la santa greggia), camminando (sen veniva) dietro Dante (meco), dicendo: “Quando sarà che ti rivedrò (fia ch’io ti riveggia)?”.
«Non so», rispuos’io lui, «quant’io mi viva; | |
ma già non fïa il tornar mio tantosto, | |
78 | ch’io non sia col voler prima a la riva; |
“Non so” gli risponde l’Alighieri ( rispuos’io lui), “quant’io ancora vivrò (mi viva); ma comunque (già) non sarà (fïa) il mio tornar tanto lesto (tantosto), ch’io non l’abbia accelerato col desiderio di ritornar prima alla spiaggia del Purgatorio (non sia col voler prima a la riva);
però che ’l loco u’ fui a viver posto, | |
di giorno in giorno più di ben si spolpa, | |
81 | e a trista ruina par disposto.» |
essendo che il luogo ove fui designato (però che ’l loco u’ fui posto) a condurre esistenza (viver), di giorni in giorno sempre più smarrisce virtù (di ben si spolpa), ad una triste decadenza parendo destinato (e a trista ruina par disposto)”.
La città alla quale si riferisce Dante è ovviamente Firenze.
«Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa, | |
vegg’ïo a coda d’una bestia tratto | |
84 | inver’ la valle ove mai non si scolpa. |
“Ora vai (Or va)”, dice Forese (diss’el), “in quanto io vedo (che vegg’ïo) colui che ne han maggior responsabilità (che quei che più n’ha colpa), trascinato (tratto) dalla coda d’una bestia verso (inver’) la valle nella quale non è possibile espiare i propri peccati (ove mai non si scolpa).
La bestia ad ogne passo va più ratto, | |
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, | |
87 | e lascia il corpo vilmente disfatto. |
La bestia ad ogni (ogne) passo va più lesta (ratto), aumentando gradualmente rapidità (crescendo sempre), fin ch’ella lo scalcia (il percuote), lasciandone (e lascia) il corpo ignobilmente sfigurato (vilmente disfatto).
L’uomo che Bonagiunta anticipa esser trainato a morte è il fratello di Forese e della benevola Piccarda, perendo in tali circostanze il politico Corso Donati (ca.1250-1308) il quale, durante un’improvvisa fuga, dopo essere stato condannato a morte per tradimento e ribellione, cadendo da cavallo rimase impigliato in una staffa, venendo trascinato ed infine raggiunto dai nemici, che colpo di grazia gli infierirono.
Immagine popolare, caratteristica di quei tempi e collegata alle procedure previste per l’esecuzione capitale dei traditori, voleva gli stessi trainati da un cavallo verso il regno infernale (inver’ la valle ove mai non si scolpa).
Non hanno molto a volger quelle ruote», | |
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro | |
90 | ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote. |
“Le sfere celesti (quelle ruote) non dovranno ruotare (non hanno a volger) molto”, continua Forese rivolgendo (e drizzò) lo sguardo (li occhi) al cielo (ciel), “perché (che) ti sia (fia) chiaro ciò che le mie parole (’l mio dir) non hanno potere d’esplicarti in misura maggiore (più dichiarar non puote).
Dalla breve rotazione degli astri, s’evince non abbia a trascorrer molto tempo prima che le parole di Forese trovino senso e conferma nel corrispettivo verificarsi dei fatti.
Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro | |
in questo regno, sì ch’io perdo troppo | |
93 | venendo teco sì a paro a paro.» |
Tu resta pure fedele al tuo marciare (ti rimani omai); in quanto il (ché ’l) tempo è prezioso in Purgatorio (questo regno), cosicché io ne sto sprecando (sì ch’io perdo) troppo, affiancandoti di pari passo (venendo teco sì a paro a paro)”.
Qual esce alcuna volta di gualoppo | |
lo cavalier di schiera che cavalchi, | |
96 | e va per farsi onor del primo intoppo, |
tal si partì da noi con maggior valchi; | |
e io rimasi in via con esso i due | |
99 | che fuor del mondo sì gran marescalchi. |
Come, talune volte (alcuna volta), il (lo) cavaliere sortisce galoppando (esce di gualoppo) da un gruppo (di schiera) di soldati a cavallo (che cavalchi), andando avanti (e va) per conquistar la gloria del primo attacco (farsi onor del primo intoppo), tale e quale (tal) Forese si separa dai due viandanti (si partì da noi) con maggior falcata (valchi); e l’Alighieri rimane sul sentiero (io rimasi in via) solamente (esso) con i due che furono (fuor), per tutti gli uomini, così eminenti maestri (sì gran marescalchi).
I “due che fuor del mondo sì gran marescalchi” sono Virgilio e Stazio, ai quali Dante non manca di rivolger sincero elogio.
E quando innanzi a noi intrato fue, | |
che li occhi miei si fero a lui seguaci, | |
102 | come la mente a le parole sue, |
parvermi i rami gravidi e vivaci | |
d’un altro pomo, e non molto lontani | |
105 | per esser pur allora vòlto in laci. |
E quando, davanti a loro tre, Forese s’inserisce (innanzi a noi inoltrato fue) di nuovo nella sua schiera, lo sguardo dell’Alighieri seguendolo (che li occhi miei si fero a lui seguaci), tanto quanto la sua mente nei confronti delle suo presagio (come la mente a le parole sue), gli appaiono (parvermi) dei (i) rami, carichi e vivaci, d’un altro albero da frutto (pomo), e, non molto lontani, considerando il fatto d’aver appena direzionato lo sguardo in quel punto (per esser pur allora vòlto in laci).
Vidi gente sott’esso alzar le mani | |
e gridar non so che verso le fronde, | |
108 | quasi bramosi fantolini e vani |
che pregano, e ’l pregato non risponde, | |
ma, per fare esser ben la voglia acuta, | |
111 | tien alto lor disio e nol nasconde. |
Dante vede delle anime (gente) che, sotto la pianta (sott’esso), alzano (alzar) le mani e gridano (gridar) qualcosa d’ incomprensibile (non so che) verso le fronde, similmente a fanciulli (quasi fantolini) famelici e avventati (bramosi e vani) che pregano, e colui al quale è rivolta la preghiera (’l pregato) non risponde, ma, per esasperarne la voracità (fare esser ben la voglia acuta), mantiene (tien) in alto l’oggetto del loro desiderio (lor disio), pur non celandolo (e non nasconde).
Poi si partì sì come ricreduta; | |
e noi venimmo al grande arbore adesso, | |
114 | che tanti prieghi e lagrime rifiuta. |
Poi i penitenti se ne vanno alquanto disincantati (si partì sì come ricreduta); e i tre poetanti giungono istantaneamente (noi venimmo adesso) al grande albero (arbore), che tante orazioni e lacrime disdegna (tanti prieghi e lagrime rifiuta).
Decreto divino, ignorando suppliche, ha previsto per gli spiriti della sesta Cornice che la loro golosità venga continuamente stimolata dalla visione di succulenti ed aromatici frutti, posti ad un’altezza proibitiva, per modo di portare ad elevata potenza il patire, per contrappasso in contrasto.
«Trapassate oltre sanza farvi presso: | |
legno è più sù che fu morso da Eva, | |
117 | e questa pianta si levò da esso.» |
“Passate (Trapassate) oltre senza appressarvi (senza farvi presso): più in alto (sù) vi è un albero (legno) il cui frutto venne (fu) morso da Eva, e questa dallo stesso (da esso) pianta ha avuto origine (si levò)”.
Sì tra le frasche non so chi diceva; | |
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, | |
120 | oltre andavam dal lato che si leva. |
Così (Sì) parla (dicea) dalle (tra le) frasche qualcuno di cui l’Alighieri è all’oscuro (no so chi); pertanto (per che) lui (io), Virgilio e Stazio si dirigono più avanti (oltre andavam), addossandosi al roccioso versante (calcati dal lato che si leva).
«Ricordivi», dicea, «d’i maladetti | |
nei nuvoli formati, che, satolli, | |
123 | Tesëo combatter co’ doppi petti; |
Questa voce misteriosa, dice (dicea): “Ricordatevi dei (Ricordivi d’i) maledetti formatisi nelle nuvole (nei nuvoli formati), i quali (che), completamente sazi (satolli), combatterono (combatter) contro Teseo con il loro doppio busto (co’ doppi petti);
Aprono gli esempi di colpa i centauri – nipoti della mitologica ninfa delle nubi, Nefele, e di Issione, re dei Lapiti, la più antica tribù della Tessaglia – i quali, stracolmi di vino e vivande, come da narrazione secondo ovidiane ‘Metamorfosi’, infransero le regole della ‘xenia’, vale a dire la concezione greca dell’ospitalità, e per questo lottarono contro il re ateniese Teseo, che li massacrò, dopo che gli stessi ebbero assalito le donne del clan, nel corso del banchetto nuziale celebrante le nozze tra Piritoo, carissimo amico di Teseo, oltre che figlio di Issione, e Ippodamia, figlia del re Argo.
e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, | |
per che no i volle Gedeon compagni, | |
126 | quando inver’ Madïan discese i colli.» |
e degli (de li) Ebrei ch’al bere (ber) si dimostrarono (mostrar) cedevoli (molli), ragion per la quale Gedeone non (per che Gedeon no i) li volle come militanti (compagni), quando discese i colli per fronteggiare i Madianiti (inver’ Madïan).
A seguito l’episodio, di biblica divulgazione, degli ebrei rifiutati dallo stesso Gedeone come combattenti, perché abbeveratisi da un torrente aiutandosi con le mani, gesto a cui venne attribuita debolezza e cupidigia, ai quali il giudice d’Israele, che aveva organizzato il comune abbeveraggio a scopo selettivi, preferì coloro che leccarono l’acqua come fossero degli animali.
Sì accostati a l’un d’i due vivagni | |
passammo, udendo colpe de la gola | |
129 | seguite già da miseri guadagni. |
Così (Sì), il terzetto procede accostandosi (passammo accostati) ad uno dei (a l’un d’i) due bordi (vivagni) della Cornice, ascoltando (udendo) due esempi del vizio della (colpe de la) gola, con annesse e miserevoli conseguenze (seguite già da miseri guadagni).
Poi, rallargati per la strada sola, | |
ben mille passi e più ci portar oltre, | |
132 | contemplando ciascun sanza parola. |
Poi, i tre nuovamente distanziatisi sul tragitto spopolatosi (rallargati per la strada sola), avanzano (ci portar oltre) percorrendo ben più d’un migliaio (mille) di passi, ciascuno in silenzioso raccoglimento (contemplando ciascun sanza parola).
«Che andate pensando sì voi sol tre?», | |
sùbita voce disse; ond’io mi scossi | |
135 | come fan bestie spaventate e poltre. |
“Che andate pensando così (sì), voi tre da soli (sol)?”, esclama (disse) una voce estemporanea (sùbita); perciò Dante trasalisce (ond’io mi scossi) come capita (fan) alle bestie quando vengono spaventate mentre indugiano indolenti (e poltre) — benché interpretazione del verso sia controversa in quanto per taluni dantisti di varie epoche, attribuiscono a «poltre» il significato di puledre, dal latino «pŭllĭter», dunque restituendo «bestie giovani e spaventate».
Drizzai la testa per veder chi fossi; | |
e già mai non si videro in fornace | |
138 | vetri o metalli sì lucenti e rossi, |
com’io vidi un che dicea: «S’a voi piace | |
montare in sù, qui si convien dar volta; | |
141 | quinci si va chi vuole andar per pace.» |
L’Alighieri solleva il capo (Drizzai la testa) per veder chi sia (chi fossi); e giammai (già mai) si videro, in una fornace, vetri o metalli tanto incandescenti (sì lucenti e rossi), com’egli vede (com’io vidi) una figura che a loro si rivolge dicendo (dicea): “Se a voi garba risalire (S’a voi piace montare in sù, è opportuno (si convien) svoltare (dar volta) di qui; in questa direzione (quinci) si dirige (va) chi aspira alla beatitudine (vuole andar per pace)”.
L’aspetto suo m’avea la vista tolta; | |
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori, | |
144 | com’om che va secondo ch’elli ascolta. |
Il (L’) suo aspetto ha accecato Dante (m’avea la vista tolta); ragion per la quale egli si gira indietro, verso Stazio e Virgilio (per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori), come colui che si muova in base a sensazione uditiva (com’om che va secondo ch’elli ascolta).
Non è la prima volta che la vista dell’Alighieri viene offuscata dall’angelo, stavolta d’un rosso fiammante, all’apparenza rovente.
E quale, annunziatrice de li albori, | |
l’aura di maggio movesi e olezza, | |
147 | tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; |
tal mi senti’ un vento dar per mezza | |
la fronte, e ben senti’ mover la piuma, | |
150 | che fé sentir d’ambrosïa l’orezza. |
E come (quale) l’aria (aura) di maggio, annunciando l’alba (annunziatrice de li albori), si muove e profuma (movesi e olezza), completamente intrisa (tutta impregnata) dell’aroma d’(da l’)erba e di (da’) fiori, Dante percepisce una folata del tutto simile in mezzo alla (tal mi senti’ un vento dar per mezza) fronte, e sente perfettamente muoversi (ben senti’ mover) la piuma che dona effluvio d’ambrosia all’aria (che fé sentir d’ambrosïa l’orezza).
Il soffio di vento che passa sulla fronte dall’Alighieri gli toglie la penultima P, frattanto effondendosi nell’etere un sentore primaverile di “ambrosïa”, il celeberrimo cibo degli dèi, che preannunzia la loro presenza.
E senti’ dir: «Beati cui alluma | |
tanto di grazia, che l’amor del gusto | |
153 | nel petto lor troppo disir non fuma, |
154 | esurïendo sempre quanto è giusto!». |
E Dante sente pronunciare (senti’ dir): “Beati coloro che vengono tanto illuminati dalla (cui alluma tanti di) grazia, al punto da evitare all’istinto della gola emani (che l’amor del gusto non fuma) nel loro (lor) petto eccessiva smania (troppo disir), attivando in loro costante fame di giustizia (esurïendo sempre quanto è giusto!)”.
Il rimando è alla quarta beatitudine secondo Matteo: “Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur” – “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”.
Traversata di Canto condurrà alla settima Cornice sull’incessante scorrere del tempo, in quanto “Ora era onde ’l salir non volea storpio; ché ’l sole avëa il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio…”
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