Divina Commedia: Purgatorio, Canto XXII
Raffaello Sanzio (1483-1520), Parnaso, ca.1511
Dopo essersi alleggerito della quinta P, lui rimossa dall’angelo celeste, Dante s’avvia con la sua fidata guida e Stazio verso la sesta Cornice, restando in piacevole ascolto delle informazioni che i due celebri autori si scambiano fra un gradino e l’altro, dapprima lo spirito in ascesa spiegando d’aver peccato di prodigalità, con tale confessione sciogliendo qualsiasi dubbio a Virgilio che, erroneamente, lo riteneva penitente per avarizia, indi rivelandogli come avvenne la sua adesione al Cristianesimo, in terra, e com’egli iniziò a destreggiarsi in poetici versetti, confessando al vate quanto lo stesso sia stato per lui sprone spirituale e mentore scrittorio.
In seguito, a domanda di Stazio su dove siano collocati alcuni antichi poeti latini, Virgilio risponde svelando che gli stessi, insieme lui, sono stati destinati al Limbo, lì ove si possono incontrare anche ragguardevoli autori greci ed alcuni protagonisti della Tebaide.
I tre poetanti, di parola in parola, giungono alla nuova balza ove, dopo la visione di uno strano albero, dalle sue fronde fuoriesce una voce che elenca cinque esempi edificanti di temperanza, rispettivamente rappresentati da Maria Santissima; dalle donne romane dell’antichità; dal profeta Daniele; dall’età dell’oro; infine da Giovanni Battista.
Un ispirato e riconoscente Alighieri dedica secondo Canto a Stazio, per mezzo della sua voce onorandolo e facendo sì che, tramite il suo tessere elogi a Virgilio, iniziato nelle precedenti terzine, anche il suo rispettato maestro venga lodato come merita, inoltre cogliendo occasione per addentrarsi nella sfaccettatura del vizio che, secondo dantesca concezione dell’aldilà, in alcuni livelli può venire espiato insieme al suo opposto, racchiudendo la quinta Cornice avari e prodighi, tanto quanto medesima penitenza spetta a coloro che purgano avarizia e prodigalità nel quarto Cerchio dell’Inferno, come sempre addentrando il lettore in un intreccio di cui il verseggiatore toscano ha sagacemente tirato ogni filo in maniera certosina, magistralmente intrecciando storia, spiritualità e letteratura con quel far poetico a lui consono, ebbro di passione per le sue rime, profondo riguardo per il suo paziente conduttore ed estrema venerazione per il regno celeste, di passo in passo, sermone su sermone e per pietrosi pioli, sempre meno lontano.
Già era l’angel dietro a noi rimaso, | |
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro, | |
3 | avendomi dal viso un colpo raso; |
L’angelo è ormai alle spalle dei tre poeti (Già era l’angel dietro a noi rimaso), lo stesso angelo che ha direzionato il trio alla sesta Cornice (l’angel che n’avea vòlti al sesto giro), dopo aver levato dalla fronte di Dante la quinta P (avendomi dal viso un colpo raso);
e quei c’hanno a giustizia lor disiro | |
detto n’avea beati, e le sue voci | |
6 | con ‘sitiunt’, sanz’altro, ciò forniro. |
oltre all’aver dichiarato (e detto n’avea) beati coloro che ambiscono alla (quei c’hanno lor disiro a) giustizia, e le sue parole (voci) chiudono il discorso (ciò forniro) con ‘sitiunt’, senza aggiungere (sanz’) altro.
La beatitudine pronunciata dal messo celeste, di riferimento evangelico secondo Matto, recita: “Beati qui esuriunt et sitiunt uistitiam, quoniam ipsi saturabuntur” – “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” e rimando aggancia il pensiero acquigiano secondo cui, nell’ordine politico, all’avarizia sia antitetica la giustizia; verosimilmente questo il motivo dell’accennarne, in auspicio ai peccatori, da parte dell’angelica figura posizionata in passaggio di balza.
E io più lieve che per l’altre foci | |
m’andava, sì che sanz’alcun labore | |
9 | seguiva in sù li spiriti veloci; |
E l’Alighieri marcia (io m’andava) più leggero rispetto ai precedenti varchi (E io più lieve che per l’altre foci), per modo da seguire (sì che seguiva) i (li) due celeri (veloci) spiriti nella risalita (in sù), senza il minimo affaticamento (sanz’alcun labore);
quando Virgilio incominciò: «Amore, | |
acceso di virtù, sempre altro accese, | |
12 | pur che la fiamma sua paresse fore; |
quando Virgilio inizia a parlare (incominciò): “L’amore smosso dalla (acceso di) virtù, ne stimola (accese) sempre un altro, salvo che il suo ardore sia manifesto (pur che la fiamma sua paresse fore);
Egli intende che il sentimento, sottintesa la sua purezza, possa venire corrisposto qualora si renda palese.
onde da l’ora che tra noi discese | |
nel limbo de lo ’nferno Giovenale, | |
15 | che la tua affezion mi fé palese, |
mia benvoglienza inverso te fu quale | |
più strinse mai di non vista persona, | |
18 | sì ch’or mi parran corte queste scale. |
di conseguenza (onde), dal momento (l’ora) che tra noi discese nel Limbo dell’Inferno (de lo ’nferno) Giovenale, riportandomi il tuo affetto nei miei confronti (che la tua affezion mi fé palese), la mia benevolenza verso di te (benvoglienza inverso) fu tale da non esser mai stata provata per nessun altro (quale più strinse mai di non vista persona), al punto che adesso (sì ch’or) questa scalinata (queste scale) mi pare breve (corte).
Decimo Giunio Giovenale (55 circa d.C. – fra il 127 e il 140 d.C.) fu il famoso poeta satirico e retore romano che, da grande amico di Stazio qual era, si premurò di far presente al virgilian vate l’immane stima e devozione di quest’ultimo nei suoi confronti.
Ma dimmi, e come amico mi perdona | |
se troppa sicurtà m’allarga il freno, | |
21 | e come amico omai meco ragiona: |
Ma dimmi, e in qualità di (come) amico perdonami (mi perdona) s’eccessiva sicurezza mi leva filtri (troppa sicurtà m’allarga il freno), e parla (ragiona) con me (meco) ormai (omai) in amicizia:
come poté trovar dentro al tuo seno | |
loco avarizia, tra cotanto senno | |
24 | di quanto per tua cura fosti pieno?». |
com’è stato possibile (come poté) che l’avarizia si sia annidata nel (trovar loco dentro al) tuo cuore (seno), in mezzo a cotanta saggezza (tra cotanto senno) della quale (di quanto) per tua dedizione (cura) fosti pieno?”.
L’espressione “cotanto senno” venne precedentmente trascritta dall’autore della Commedia al centoduesimo versetto del quarto Canto infernale quando, passeggiando nel primo cerchio in compagnia dei sommi poeti Orazio, Ovidio, Lucano ed Omero, gli stessi gli resero onore, facendolo sentir parte di un’insigne compagine poetica, considerando anche il suo adorato Virgilio: “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno”.
Queste parole Stazio mover fenno | |
un poco a riso pria; poscia rispuose: | |
27 | «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno. |
Queste parole, inizialmente (pria), suscitano (mover fanno) in Stazio un lieve sorriso (un poco a riso); poi (poscia) lo stesso risponde (rispuose): “Ogni tua parola (Ogne tuo dir) m’è caro segno d’affetto (amor).
Veramente più volte appaion cose | |
che danno a dubitar falsa matera | |
30 | per le vere ragion che son nascose. |
In verità (Veramente) più volte l’apparenza (appaion) delle cose procura motivi erronei di dubbiosità (danno a dubitar falsa matera) poiché (per) le reali ragioni (vere ragion) son celate (nascose).
La tua dimanda tuo creder m’avvera | |
esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita, | |
33 | forse per quella cerchia dov’io era. |
La tua domanda (dimanda) mi conferma (m’avvera) che tu possa aver creduto (tuo creder esser) ch’io (i’) sia stato (fossi) avaro durante (in) la vita terrestre (l’altra), probabilmente (forse) per quella Cornice (cerchia) dov’io mi trovavo (era).
Or sappi ch’avarizia fu partita | |
troppo da me, e questa dismisura | |
36 | migliaia di lunari hanno punita. |
Or sappi che (ch’) l’avarizia mi fu fin troppo discosta (partita da me), e questa sregolatezza (dismisura) venne castigata (hanno punita) per migliaia di mesi (lunari).
L’elegiaca anima intuisce nell’immediato il suo esser, da parte del maestro, considerata penitente per avarizia e subitamente si premura di fornirgli adeguate precisazioni, informandolo di quanto l’avarizia gli sia stata totalmente estranea, in corso d’esistenza, contemporaneamente introducendo il peccato della prodigalità, viceversa a lui propria, vizio alla base degli almeno seimila mesi (lunari) da lui passati nella quinta Cornice.
E se non fosse ch’io drizzai mia cura, | |
quand’io intesi là dove tu chiame, | |
39 | crucciato quasi a l’umana natura: |
E se non mi fossi ravveduto (drizzai mia cura), quando lessi (intesi) i versi in cui (là) tu, corrucciato (crucciato) contro la (quasi a l’) natura umana, dichiarasti (chiame):
‘Per che non reggi tu, o sacra fame | |
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’, | |
42 | voltando sentirei le giostre grame. |
‘Perché (Per che) tu, o sacrosanta fame dell’(de l’)oro, non governi (reggi) l’ingordigia degli uomini (appetito de’ mortali)?’ – sarei dannato e ruoterei (voltando) massi sentendo i miserabili scontri degli avari e prodighi (le giostre grame).
Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali | |
potean le mani a spendere, e pente’ mi | |
45 | così di quel come de li altri mali. |
Allor mi resi conto (m’accorsi) che esagerata apertura (troppo aprir) d’(l’)ali conduce le mani a sperperare denaro (spendere), quindi pentendomi (e pente’ mi) tanto (così) di quello (quel) quanto degli (come de li altri mali) altri vizi (mali).
Stazio si dichiara oltretutto convinto del fatto che se taluni versi dell’Eneide non l’avessero reso consapevole del proprio atteggiamento, rettificandolo, ora starebbe nel quarto Cerchio dell’Inferno a rotolar massi insieme ai prodighi; nel suo poema, difatti, Virgilio narrava di un Enea profondamente addolorato nel raccontare a Didone dell’assassinio di Polidoro, a mero fine di profitto, da parte di Polimnestore e interrogandosi appunto sulla cieca ed insensibile avidità degli uomini, pronunciando la frase: “Quid non mortalità pectora cogis, auri sacra fames?”, quesito tradotto, in terzina e per voce di Stazio, in: “Per che non reggi tu, o sacra fame de l’oro, l’appetito de’mortali?”.
La metafora alare si riferisce all’atteggiamento dissipatore tipico degli scialacquatori, in un’espressione che perfettamente ricalca l’odierno e popolare epiteto di “mani bucate”.
Quanti risurgeran coi crini scemi | |
per ignoranza, che di questa pecca | |
48 | toglie ’l penter vivendo e ne li stremi! |
Quanti risorgeranno con i capelli rasati (coi crini scemi) per l’ignoranza, che dissuade dal pentirsi (toglie ’l penter) da (di) questo peccato (pecca) sia in corso d’esistenza (vivendo) che in punto di morte (e ne li stremi)!
Come descritto in diciannovesima terzina del settimo Canto dell’Inferno, il giorno del Giudizio universale i prodighi risorgeranno calvi, in merito a valutazioni di Contrappasso: “In etterno verranno a li due cozzi questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi”.
E sappie che la colpa che rimbecca | |
per dritta opposizione alcun peccato, | |
51 | con esso insieme qui suo verde secca; |
E sappi (sappie) che la colpa che contrasta (rimbecca) in maniera diametralmente contrapposta (per dritta opposizione) un dato (alcun) peccato, insieme ad (con) esso qui viene espiato (suo verde secca);
però, s’io son tra quella gente stato | |
che piange l’avarizia, per purgarmi, | |
54 | per lo contrario suo m’è incontrato». |
perciò (però), s’io son stato fra quelle anime (tra quella gente) che patiscono pena (piange) per l’avarizia, questo m’è capitato (incontrato) al fin di purificarmi (per purgarmi) per il (lo) suo opposto (contrario)”.
Sebben non sia ben chiaro se quel “qui” si riferisca all’intero Purgatorio o limitatamente alla quinta Cornice, anche se parrebbe più probabile la seconda ipotesi, viene chiaramente riportata la punizione, in medesimo loco, di due vizi opposti, ovvero avarizia e prodigalità, come diametralmente avviene nel quarto Cerchio dell’Alto Inferno ed a questa circostanza Stazio circoscrive il suo esser lì relegato.
«Or quando tu cantasti le crude armi | |
de la doppia trestizia di Giocasta», | |
57 | disse ’l cantor de’ buccolici carmi, |
«per quello che Clïò teco lì tasta, | |
non par che ti facesse ancor fedele | |
60 | la fede, sanza qual ben far non basta. |
“Ora (Or), quando tu cantasti delle crudeli (le crude) armi che furono causa d’un doppio lutto (de la doppia trestizia) per Giocasta” – disse lo scrittore (’l cantor) delle Bucoliche (buccolici carmi) – per quello che Clïò in quel poema (lì) tenta, non parrebbe (par) che la fede, senza la quale (qual) le operare di bene non bastano (sanza qual ben far) ti avesse già fatto cristiano (facesse ancor fedele).
Il “cantor de’ buccolici carmi” è ovviamente Virgilio e la sua opera in versi le “Bucoliche”, la cui stesura partì dal 42 a.C. e successiva divulgazione circa tre anni più tardi.
La “doppia trestizia” è invece il doppio lutto, cantato nella Tebaide, che colpì la mitologica regina tebana Giocasta, moglie di re Laio, per la morte d’entrambi i figli, Paolinice ed Eteocle, ammazzatisi l’un con l’altro per la conquista del regno di Tebe; Clio fu la musa della Storia più volte invocata da Stazio in assistenza al suo verseggiare.
Se così è, qual sole o quai candele | |
ti stenebraron sì, che tu drizzasti | |
63 | poscia di retro al pescator le vele?» |
Se è così, quale (qual) sole o quali (quai) candele t’estrassero dalle tenebre (stenebraron) a tal punto (sì), da farti issare poi (che tu drizzasti poscia) le vele a seguito del pescatore (di retro al pescator)?
Il “sole” allegorizza la grazia divina, al pari di quanto le “candele” simbolizzino il sostegno dell’intelletto, mentre il “pescator” a cui s’accenna rappresenta – in meravigliosa metafora nautican pian volte scelta in codesto poema – San Pietro, il primo apostolo il cui ruolo, in fede a Dio, era quello di ‘pescare’ anime da condurre sulla vita della spiritualità cristiana.
Ed elli a lui: «Tu prima m’invïasti | |
verso Parnaso a ber ne le sue grotte, | |
66 | e prima appresso Dio m’alluminasti. |
Ed egli (elli) a lui: “Tu per primo (prima) m’indirizzasti (invïasti) verso il Parnaso a ber nelle (ne le) sue grotte, e tu per primo (prima) m’illuminasti (alluminasti) il cammino verso (appresso) Dio.
Il Parnaso, anche detto ‘Parnasso’, è montagna ellenica, dominante sulla cittadina di Delfi, da sempre ritenuta dimora delle Muse, da cui narra sìorigini l’acqua della fonte Castalia, sacra alle stesse e ispirazione poetica per antonomasia.
Facesti come quei che va di notte, | |
che porta il lume dietro e sé non giova, | |
69 | ma dopo sé fa le persone dotte, |
quando dicesti: ‘Secol si rinova; | |
torna giustizia e primo tempo umano, | |
72 | e progenïe scende da ciel nova’. |
Ti comportasti (Facesti) come colui (quei) che avanza (va) di notte, portando (che porta) la lanterna (il lume) dietro la schiena e quindi non giovando della luce per se stesso (sé non giova), ma rischiarando il percorso a coloro che si trovano alle sue spalle (dopo sé fa le persone dotte), quando dicesti: ‘Il tempo (Secol) si rinnova (rinova); ritorna (torna) la giustizia e la prima età degli uomini (primo tempo umano), e nuova (nova) stirpe (progenïe) scende dai cieli (da ciel)’.
“Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenïe scende da ciel nova” è parafrasi di virgiliani versetti, per l’esattezza il quinto, il sesto e il settimo della quarta Ecloga, la cui stesura avvenne nel 40 a.C. in omaggio alla nascita di Gaio Asinio Gallo (40 a.C. – 33 d.C.), figlio del politico, console e oratore romano Gaio Asinio Pollione (76 a.C.? – 5 d.C.) e poi ripreso come salmo, in epoca medievale, in riferimento alla venuta del Cristo: “Magnus ab integro saeculorum nascituro ordo. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna. Iam nova progenies caelo demittitur alto” – “Il grande ciclo dei secoli nasce da capo. Ecco ritorna la Vergine, ritornano i segni di Saturno. Ecco una stirpe nuova, scenderà dalla sommità dei cieli”.
La Vergine in questione è Astrea, mitologica dea e vergine stellare rappresentante la giustizia ed è plausibile che Dante abbia sostituito, nelle sue rime, proprio il termine “giustizia” a “Virgo”.
Per te poeta fui, per te cristiano: | |
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno, | |
75 | a colorare stenderò la mano. |
Grazie a (Per) te divenni (fui) poeta, grazie a (per) te cristiano: ma affinché ti sia maggiormente chiaro (perché veggi mei) ciò che andrò disegnandoti (ch’io disegno) sulla mia conversione, farò il possibile per aggiungere, con le mie mani, più colori possibili (a colorare stenderò la mano).
Il desiderio di chiarezza di Stazio viene meravigliosamente descritto come un disegno da completare con più sfumature di colore possibili, al fin di maggior comprensione.
Già era ’l mondo tutto quanto pregno | |
de la vera credenza, seminata | |
78 | per li messaggi de l’etterno regno; |
Il mondo (’l) era già completamente (tutto quanto) intriso (pregno) della (de la) vera fede (credenza), seminata dai (per li) messaggeri divini (messaggi de l’etterno regno);
I “messaggi de l’etterno regno” sono gli apostoli divulgatori della parola di Dio.
e la parola tua sopra toccata | |
si consonava a’ nuovi predicanti; | |
81 | ond’io a visitarli presi usata. |
e i tuoi versi (la parola tua) succitati (sopra toccata) si conciliavano (consonava) ai (a’) nuovi predicatori (predicanti); ragion per la quale (ond’) io presi l’abitudine (usata) di frequentarli (a visitarli).
Vennermi poi parendo tanto santi, | |
che, quando Domizian li perseguette, | |
84 | sanza mio lagrimar non fur lor pianti; |
In seguito (poi) mi convinsi talmente della loro santità (Vennermi parendo tanto santi), che, quando Domiziano (Domizian) li perseguitò (perseguette), il loro dolore (lor pianti) mai fu scevro (non fur sanza) della mia commozione (mio lagrimar);
Tito Flavio Domiziano (51 d.C. – 96 d.C.) fu imperatore romano al nome di ‘Cesare Domiziano Augusto Germanico’ considerato, forse in maniera storicamente spropositata, acerrimo persecutore dei cristiani e fratello minore del virtuoso e magnanimo Tito Flavio Cesare Vespasiano Augusto (39 d.C. – 81 d.C.), anch’esso a capo dell’Impero come decimo della dinastia flavia.
e mentre che di là per me si stette, | |
io li sovvenni, e i lor dritti costumi | |
87 | fer dispregiare a me tutte altre sette. |
e fintantoché vissi sulla terra (mentre che di là per me si stette), io li spalleggiai (sovvenni), e la loro integrità morale (i lor dritti costumi) mi fece disdegnare qualsiasi altro credo (fer dispregiare a me tutte altre sette).
E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi | |
di Tebe poetando, ebb’io battesmo; | |
90 | ma per paura chiuso cristian fu’ mi, |
lungamente mostrando paganesmo; | |
e questa tepidezza il quarto cerchio | |
93 | cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo. |
E prima ch’io conducessi i Greci ai (a’) fiumi di Tebe attraverso la poesia (poetando), ricevetti il battesimo (ebb’io battesmo); ma, per timore (paura), fui un cristiano segreto (chiuso cristian fu’ mi), per lungo tempo (lungamente) dichiarandomi pagano (mostrando paganesmo); e codesto distacco (questa tepidezza) nei confronti dell’Altissimo, mi fece soggiornar nella quarta Cornice (cerchiar mi fé il quarto cerchio) per quattro secoli abbondanti (più che ’l quarto centesmo).
“E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi di Tebe poetando” sta a significare prima d’iniziare la stesura della Tebaide.
Tu dunque, che levato hai il coperchio | |
che m’ascondeva quanto bene io dico, | |
96 | mentre che del salire avem soverchio, |
dimmi dov’è Terrenzio nostro antico, | |
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: | |
99 | dimmi se son dannati, e in qual vico». |
Tu dunque, che hai tolto (levato) il coperchio che m’impediva di vedere (che m’ascondeva) quella fede di cui t’ho parlato (quanto bene io dico), dimmi, durante la parte di risalita che ci rimane da fare (mentre che del salire avem soverchio), se lo sai, dov’è il nostro antico Terenzio (Terrenzio), dove sono Cecilio e Plauto e Varro: dimmi se son dannati, e in qual sezione (vico)”.
Precisa lista di tre commediografi romani, e un poeta, viene stilata da Stazio nella brama di sapere in che regno dell’oltretomba si trovino:
Publio Terenzio Afro (190/185 a.C. circa – 159 a.C.), pioniere nell’introduzione del concetto etico, definito ‘humanitas’, nelle sue opere, a sostegno della benevolenza fra uomini;
Cecilio Stazio (220 a.C. – 167 a.C.), specializzato in commedie a greca ambientazione, le cosiddette ‘palliate’;
Tito Maccio Plauto (225/250 a.C. -184 a.C.), uno degli autori teatrali più influenti dell’antichità latina;
“Varro”, quasi certamente Lucio Vario Rufo (74 a.C. – 14 a.C.), poeta romano dell’epoca augustea amico di Virgilio.
«Costoro e Persio e io e altri assai», | |
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco | |
102 | che le Muse lattar più ch’altri mai, |
nel primo cinghio del carcere cieco; | |
spesse fïate ragioniam del monte | |
105 | che sempre ha le nutrice nostre seco. |
Il duca risponde (rispuose) che costoro e Persio, oltre a lui ed a tanti (e io e assai) altri autori greci, stanno (siam) insieme a (con) quel Greco che le Muse allattarono (lattar) più di chiunque altro (ch’altri mai), nel primo cerchio (cinghio) del carcere (oscuro) cieco; tante volte (spesse fiate) gli stessi discorrono (ragioniam) del Parnaso (monte) che ha sempre con sé (seco) le loro nutrici (nutrice).
Aulo Persio Flacco (34 d.C. – 62 d.C.) fu poeta satirico romano, mentre il “greco che le Muse lattar più ch’altri mai” sarebbe il poeta Omero e “le nutrice” è vocabolo atto a definir le Muse poetiche.
Euripide v’è nosco e Antifonte, | |
Simonide, Agatone e altri piùe | |
108 | Greci che già di lauro ornar la fronte. |
Con loro vi sono (v’è nosco) anche Euripide e Antifonte, Simonide, Agatone e tanti (piùe) altri Greci che d’alloro (di lauro) già s’ornarono (ornar) la fronte.
Euripide (485 a.C. – 406 a.C.), Antifonte (479 a.C. – 411 a.C.), oltre che tragediografo anche filosofo, e Agatone (448 a.C. -400 a.C.) furono drammaturghi greci; in ultimo Simonide (556 a.C. – 468 a.C.) un poeta lirico.
Quivi si veggion de le genti tue | |
Antigone, Deïfile e Argia, | |
111 | e Ismene sì trista come fue. |
Qui (Quivi), dei tuoi personaggi (de le genti tue), si vedono (veggion) Antigone, Deifile e Argia, inoltre (e) Ismene tanto (sì) triste come fu (due).
Dalle pagine della Tebaide:
Antigone, sorella di Polinice, Eteocle e Ismene – figlia dell’incesto tra il re tebano Edipo e sua madre Giocasta – venne murata viva dal despota Creonte, per aver disubbidito al di lui ordine di non dar degna sepoltura ai due fratelli, Polinice ed Eteocle, che si erano assassinati fra di loro;
Deifile ed Argia, figlie del re d’Argo Adrasto, la prima sposa di Polinice, la seconda ovviamente cognata dello stesso;
Ismene, sventurata sorella minore di Amtegone, crudelmente ed ingiustamente ammazzata da Creonte.
Védeisi quella che mostrò Langia; | |
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, | |
114 | e con le suore sue Deïdamia.» |
Si vede (Védeisi) colei (quella) che additò (mostrò) la fonte Langia; vi è (èvvi) la figlia di Teresa (Tiresia), e ancora Teti e Deidamia con le sue sorelle (suore)”.
Si designa con “quella” Ipsipile, o Isifile, che indicò alle milizie assetate ove si trovava la fonte “Langia”; della donna già venne scritto nel diciottesimo Canto infernale, fra l’ottantottesino ed il novantaquattresimo rigo, come colei che venne sedotta ed in seguito abbandonata da Giasone: “Ello passò per l’isola di Lenno poi che l’ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta”.
L’unica figlia di Teresa fu Manto, entrambe precedentemente citate: “Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante” (Inferno, XX, vv. 40-42) – “Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu’ io; onde un poco mi piace che m’ascolte” (Inferno, XX, vv. 55-57).
Non è tuttavia chiaro come Manto, se davvero sia la medesima in entrambi i Canti, possa essere vista nel Limbo e contemporaneamente condannata come maga fra gli indovini della quarta Bolgia infernale.
Teti la madre d’Achille, apparsa nel nono Canto di codesta Cantica: “Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo là dove si fosse, quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, là onde poi li Greci il dipartiro” (vv. 34-39) e Deidamia la sua sfortunata amante, anch’essa già nominata: “Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta” (Inferno, XXVI, vv. 61-63).
Tacevansi ambedue già li poeti, | |
di novo attenti a riguardar dintorno, | |
117 | liberi da saliri e da pareti; |
Ambedue i (li) poeti si sono ormai (già) silenziati (Tacevansi), nuovamente (di novo) attenti nel guardarsi intorno (a riguardar dintorno), ormai liberatisi da scale (salir) e pareti;
I due viandanti han finalmente messo piede sul suolo della sesta Cornice.
e già le quattro ancelle eran del giorno | |
rimase a dietro, e la quinta era al temo, | |
120 | drizzando pur in sù l’ardente corno, |
quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo | |
le destre spalle volger ne convegna, | |
123 | girando il monte come far solemo». |
e già le prime quattro ore diurne (ancelle del giorno) sono trascorse (eran rimase a dietro), in più (e) la quinta ha preso il timone (era al temo), rizzando sempre più verso l’alto (drizzando pur in sù) la rovente spranga (l’ardente corno) del carro solare, quando il duca afferma che sarebbe opportuno loro tre volgessero la spalla destra (io credo ne convegna le destre spalle volger) verso il margine ( ch’a lo stremo) della Cornice, come son soliti fare (far solemo) lui e Dante.
Tenendo conto delle quattro ore passate dall’alba e della quinta in corso saranno le dieci di mattina.
Virgilio sprona i suoi due compagni ad andare avanti come di solito, ovvero girando in senso antiorario.
Così l’usanza fu lì nostra insegna, | |
e prendemmo la via con men sospetto | |
126 | per l’assentir di quell’anima degna. |
Così, in quel frangente (lì), l’abitudine (usanza) fa loro da indicazione di percorso (insegna), pertanto Dante e Virgilio proseguendo senza alcun tentennamento (e prendemmo la via con men sospetto), grazie al muto benestare di Stazio, quell’anima degna alla risalita dei cieli.
Elli givan dinanzi, e io soletto | |
di retro, e ascoltava i lor sermoni, | |
129 | ch’a poetar mi davano intelletto. |
Virgilio e Stazio procedono davanti (givan dinanzi), mentre il pellegrino rimane in solitudine dietro (e io soletto di retro), ascoltando (e ascoltava) i loro discorsi (lor sermoni), che lo educano all’arte poetica (ch’a poetar mi davano intelletto).
Ma tosto ruppe le dolci ragioni | |
un alber che trovammo in mezza strada, | |
132 | con pomi a odorar soavi e buoni; |
Ma, poco dopo (tosto), interrompe il dolce ragionar (le dolci ragioni) un albero (alber) che gli stessi trovano in mezzo alla (trovammo in mezza) strada, con frutti (pomi) dal soave e buon profumo (odorar soavi e buoni);
e come abete in alto si digrada | |
di ramo in ramo, così quello in giuso, | |
135 | cred’io, perché persona sù non vada. |
e come l’abete, di ramo in ramo, si rimpicciolisce (digrada) verso (in) l’alto, così quello si restringe verso il basso (in giusto), secondo parer del discepolo (cred’io) allo scopo di non essere scalato da nessuno (perché persona sù non vada).
Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso, | |
cadea de l’alta roccia un liquor chiaro | |
138 | e si spandeva per le foglie suso. |
Dalla parte in cui il loro cammino è sbarrato (Dal lato onde il ’l cammin nostro era chiuso) dal roccioso versante, dall’alto delle rocce (de l’alta roccia) piove (cadea) un chiaro liquido (liquor), che si spande (spandeva) dalle (per le) foglie in su (Suso).
L’acqua sembra risalire al contrario, seguendo l’invertito senso della pianta.
Li due poeti a l’alber s’appressaro; | |
e una voce per entro le fronde | |
141 | gridò: «Di questo cibo avrete caro». |
Stazio e Virgilio s’appressano all’albero (Li due poeti a l’alber s’appressaro); e una voce, proveniente dalle frasche (per entro le fronde), grida (gridò): “Di questo cibo avrete carenza (caro)”.
La frase è parafrasi di quanto riportato nella ‘Genesi’, vale a dire il divieto, imposto da parte dell’Altissimo ad Adamo, d’addentare la celeberrima mela, nel paradiso terrestre: “De ligno autem scientiae boni et mali ne comedas” – “Dall’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare”.
Poi disse: «Più pensava Maria onde | |
fosser le nozze orrevoli e intere, | |
144 | ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde. |
Poi dice (disse): “Maria pensava maggiormente (più) a render dignitosa ed esauriente il banchetto nuziale (onde fosser le nozze orrevoli e intere), che (ch’)a rimpinzarsi la bocca, che ora intercede (risponde) ore voi.
Parte il primo di cinque esempi educativi di moderazione, in opposizione al vizio, che narra della Beata Vergine quando, in occasione delle nozze di Cana, s’adoperò maggiormente affinché il pranzo fosse dignitoso e completo, più che di mangiare lei stessa, ora pregando per i peccatori con la stessa bocca.
E le Romane antiche, per lor bere, | |
contente furon d’acqua; e Danïello | |
147 | dispregiò cibo e acquistò savere. |
E le Romane antiche, per dissetarsi (lor bere) s’accontentavano (contente fuor) dell’(d’)acqua; e Daniele (Danïello) disprezzò (dispregiò) il cibo, acquistando in sapienza (e acquistò savere).
Antiche donne romane vengono descritte come coloro che, per dissetarsi, s’accontentavano semplicemente d’acqua, non bevendo null’altro; il giovane profeta Daniele, come da bibliche scritture, disdegnò, insieme ad altri tre giovani ebrei, i lauti pasti offerti alla gioventù d’Israele dal re di Babilonia, Nabucodonosor, nutrendosi per un triennio con acqua e legumi e venendo ricompensato dal Signore per la sua sapienza.
Lo secol primo, quant’oro fu bello, | |
fé savorose con fame le ghiande, | |
150 | e nettare con sete ogne ruscello. |
Durante il primo e dorato periodo dell’esistenza umana (Lo secol primo, quant’oro fu bello), la (con) fame rendeva saporite (fé savorose) le ghiande e con la sete ogni (ogne) ruscello diveniva nettare.
Si riporta a galla l’età dell’oro, durante la quale fame e sete resero allettanti ghiande ed acqua di ruscelli.
Mele e locuste furon le vivande | |
che nodriro il Batista nel diserto; | |
153 | per ch’elli è glorïoso e tanto grande |
154 | quanto per lo Vangelio v’è aperto». |
Miele selvatico (Mele) e cavallette (locuste) furono gli alimenti (le vivande) che nutrirono (nodriro) il Battista (Batista) nel deserto (diserto); motivo per cui egli (per ch’elli) è glorioso e tanto grande come viene riportato nel Vangelo (quanto per lo Vangelio v’è aperto)”.
L’alimentarsi di sol miele selvatico e cavallette, durante la sua permanenza nel deserto della Giudea gli valsela gloria di cui parlarono gli evangelisti Luca e Matteo.
In attento ascolto, Dante posa penna per riprenderla al seguente Canto, “Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava ïo sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde…”
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