Divina Commedia: Purgatorio, Canto XX
Francesco Scaramuzza (1803-1886), 1870
Sul suolo della quinta Cornice, la savia guida ed il suo allievo, appena terminato colloquio con Adriano V, proseguono affiancando la rocciosa parete del monte, essendo che le anime di avari e prodighi stanno dalla parte opposta, impegnate nell’espiare il peccar d’avarizia che in vita ne condusse le gesta.
Dalle voci delle stesse Dante sente espletare lodevoli esempi in opposizione al vizio suddetto, rappresentati nelle persone della Beata Vergine e del virtuoso ed onesto console romano Caio Fabrizio Luscinio, frattanto l’Alighieri cercando di comprendere di chi sia la voce predominante e scoprendola appartenere a colui che si manifesta come Ugo Capeto, sovrano della dinastia dei Carolingi a cui l’autore della Commedia dona possibilità di raccontare quelle che furono le vicissitudini politiche sue e dei regnanti che lo posticiparono.
Il lungo colloquio è occasione di rispolverare remote peripezie condotte in avara brama d’espugnazione, inoltre portando a modello ben sette casi d’avarizia punita, con relative delucidazioni sulle modalità con le quali gli spiriti son a manifestarle, a seconda che sia giorno o notte, ovvero lascando al primo le pratiche lodevoli, al secondo quelle condannabili.
Una sorta di scossa tellurica conclude il Canto, provocando nel pellegrino un raggelante timore nell’immediato accolto da un rassicurante e protettivo Virgilio, colui al quale il discepolo vorrebbe porre un’infinità di quesiti, tuttavia desistendo in preda alla titubanza, indi procedendo in maniera riflessiva e taciturna.
Il Canto si presta generosamente a srotolare fra le sue rime un tema tutto politico, incentrandosi sulla condanna alla casata di Francia, intersecata al vizio in quella balza castigato, alternandosi ad invettive contro la cupidigia ad invocazioni all’Altissimo affinché la stessa venga presto annientata.
Dante appare stranamente compassionevole nei confronti di Bonifacio VIII, a lui solitamente avverso, come più volte trapelato fra versetti, ciò nonostante in questo caso vissuto come un vicario del Cristo nuovamente oltraggiato dal potere imperiale a danno dell’ecclesiastico, tema carissimo ad un Alighieri da sempre intimamente sostenitore della divisione necessaria fra le due autorità, affinché le stesse possano aspirare a governare in maniera retta e ben distinta l’uomo e lo spirito, mai sovrapponendosi.
Indubbia capacità letteraria dantesca, unita a peculiare fantasia, fa da sfondo attraverso un linguaggio metaforico e splendidamente espressivo, come si conviene ad uno scrittore il cui poema risuona attuale oltre secolo, donando piacer di lettura e parallelamente elargendosi alle menti come acuto e profondo stimolo riflessivo.
Contra miglior voler voler mal pugna; | |
onde contra ’l piacer mio, per piacerli, | |
3 | trassi de l’acqua non sazia la spugna. |
Contro una volontà più potente (Contra miglior voler), la volontà ha poco da guerreggiare (voler mal pugna); di conseguenza contro il suo stesso piacere (onde contra ’l piacer mio), al fin di compiacer Adriano V (per piacerli), Dante trae dall’(trassi de l’)acqua la spugna non ancor sazia:
La metafora della spugna sta ad indicare il parziale appagamento dell’Alighieri il quale, dopo aver il papa interrotto la conversazione, avrebbe desiderato porgli ulteriori domande, ma il suo proposito s’adegua rassegnatamente al voler del Fieschi.
Mossimi; e ’l duca mio si mosse per li | |
luoghi spediti pur lungo la roccia, | |
6 | come si va per muro stretto a’ merli; |
E s’incammina (Mossimi); ad anche il suo duca prosegue (e ’l duca mio si mosse), attraverso zone (per li luoghi) di Cornice spopolate (spediti), completamente in adiacenza al roccioso versante (pur lungo la roccia), similmente a come si procede sui muri (come si va per muro) perimetrali stando a ridosso dei rialzi (stretto a’ merli);
ché la gente che fonde a goccia a goccia | |
per li occhi il mal che tutto ’l mondo occupa, | |
9 | da l’altra parte in fuor troppo s’approccia. |
poiché i peccatori (ché la gente) che scontano, tramite lacrime su lacrime dagli (fonde a goccia a goccia per li) occhi, il vizio (mal) che irretisce (occupa) tutto il (’l) mondo, s’appostano (appiccia) dal lato opposto (da l’altra parte) sporgendosi eccessivamente (in fuor troppo) sull’orlo del precipizio.
Nonostante lo spazio della balza sia ristretto, vi sono zone libere in quanto i penitenti, in questo caso avari e prodighi, stanno addossati sul bordo, al contrario i due poeti accostandosi alla parete del promontorio come chi stia effettuando un cammino di ronda, su un muro di cinta, presso i suoi merli, ovvero i tradizionali elementi dell’architettura militare di periodo medievale, eretti come rialzi ad intervalli regolari, come ad esempio nelle torri difensive delle fortezze.
Maladetta sie tu, antica lupa, | |
che più che tutte l’altre bestie hai preda | |
12 | per la tua fame sanza fine cupa! |
Tu sia (sie) maledetta, antica lupa, che accalappi prede (hai preda) più d’ogni altra bestia (più che tutte l’altre bestie), a causa della (per la) tua vorace (stanza fine) e tenebrosa (cupa) ingordigia (fame)!
L’ “antica lupa” è ovviamente l’avarizia, della quale primissima personificazione venne descritta nel proemio alla Commedia: “Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza” (Inferno, Canto I, 49-54).
O ciel, nel cui girar par che si creda | |
le condizion di qua giù trasmutarsi, | |
15 | quando verrà per cui questa disceda? |
O cielo (cielo), le cui rotazioni (nel cui girar) taluni credono (par che si creda) possano influenzare (trasmutarsi) gli avvenimenti terrestri (le condizion di qua giù), quando verrà qualcuno grazie al quale la stessa si dilegui (per cui questa disceda)?
Il rapporto fra le rotazioni celesti e le azioni terrene è stato ampiamente proposto ed affrontato fra il sessantasettesimo ed il settantaduesimo versetto del sedicesimo Canto di codesta Cantica: “Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto”.
Arcano di fondo su chi dovrebbe giungere sconfiggendo l’avarizia/lupa che ancor rimanda al primo Canto infernale, ove se n’accenna ermeticamente in trentaquattresima terzina: “Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l veltro verrà, che la farà morir con doglia”.
Noi andavam con passi lenti e scarsi, | |
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia | |
18 | pietosamente piangere e lagnarsi; |
I due viandanti marciano (Noi andavam) con passo lento e breve (passi lenti e scarsi), e il pellegrino facendo attenzione a non calpestare quelle anime (io attento a l’ombre), ch’egli ode (ch’i’ sentia) pietosamente piangere e lamentarsi (lagnarsi);
e per ventura udi’ «Dolce Maria!» | |
dinanzi a noi chiamar così nel pianto | |
21 | come fa donna che in parturir sia; |
e casualmente sente (per ventura udi’) pronunciare (chiamar) – davanti a sé ed a Virgilio (dinanzi a noi) – ‘Dolce Maria!’, con un gemito tale (così nel pianto) da sembrar quello di (come) una donna in fase di parto (che in parturir sia);
e seguitar: «Povera fosti tanto, | |
quanto veder si può per quello ospizio | |
24 | dove sponesti il tuo portato santo». |
e a seguire: “Fosti talmente (tanto) povera, da confermarlo alla vista di quella stalla (quanto veder si può per quello ospizio) all’interno della quale posasti (dove sponesti) il tuo santo frutto del concepimento (portato)”.
L’invocazione alla Vergine alza il sipario sugli esempi di virtù contrapposto alla corrispettiva colpa, in questo caso Maria tollerando di partorire il frutto del proprio grembo in una modesta capanna a Betlemme.
Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, | |
con povertà volesti anzi virtute | |
27 | che gran ricchezza posseder con vizio». |
Poi Dante sente (Seguentemente intesi): “O buon Fabrizio, che preferisti custodire povertà e virtù anziché (anzi che) assicurarsi (posseder) una gran ricchezza per mezzo di slealtà (con vizio).
Il secondo esempio narra del disdegno nei confronti di averi materiali da parte del politico romano Caio, o Gaio, Fabrizio Luscino, console nel terzo secolo a.C. e ricordato per la smisurata rettitudine in fede alla quale per più volte rifiutò regni in dono che, dapprima i Sanniti, poi Pirro (318 a.C. – 271 a.C.), re dell’Epiro, gli offrirono nel tentativo di corromperlo.
Queste parole m’eran sì piaciute, | |
ch’io mi trassi oltre per aver contezza | |
30 | di quello spirto onde parean venute. |
Queste parole piacciono così tanto all’Alighieri (m’eran sì piaciute), da condurlo avanti (ch’io mi trassi oltre) per comprendere (aver contezza) chi sia lo spirito (di quello spirto) che le ha pronunciate (onde parean venute).
Esso parlava ancor de la larghezza | |
che fece Niccolò a le pulcelle, | |
33 | per condurre ad onor lor giovinezza. |
Lo stesso (Esso) seguita a parlare (parlava ancor) della generosità (de la larghezza) ad opera di (che fece) Niccolò verso le ragazze (a le pulcelle) per guidare (condurre) la loro gioventù (lor giovinezza) alla rispettabilità (ad onor).
Conclude esemplare triade il gesto del santo Nicola di Bari (270 d.C. – 343 d.C.), anche noto come Niccolò vescovo di Myra, antica città ellenica della Licia, in Asia minore il quale, per salvaguardare dalla prostituzione tre fanciulle – spinte dal padre come unica soluzione possibile per garantirsi una dote – fece loro dono di monete d’oro così preservandone illibatezza ed onore.
«O anima che tanto ben favelle, | |
dimmi chi fosti”, dissi, «e perché sola | |
36 | tu queste degne lode rinovelle. |
“O anima che racconti cose talmente belle (che tanto ben favelle), dimmi chi fosti”, chiede Dante (dissi), “e perché tu sola riporti alla luce (rinovelle) queste rispettabili attestazioni (degne lode).
Non fia sanza mercé la tua parola, | |
s’io ritorno a compiér lo cammin corto | |
39 | di quella vita ch’al termine vola.» |
Il tuo parlare (la tua parola) non sarà (fia) senza ricompensa (stanza mercé), al mio ritornare (s’io ritorno) a percorrer il breve tragitto (compiér lo cammin corto) di quella vita che sta giungendo al termine (ch’al termine vola).”
“Lo cammin corto di quella vita ch’al termine vola” è locuzione utilizzata dall’autore per definire quella parte di vita terrena che ancor gli rimane da vivere, durante la quale egli si offre di pregare per quel peccatore, tanto amabile nel suo discorrere, in cambio del suo farsi riconoscere.
Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto | |
ch’io attenda di là, ma perché tanta | |
42 | grazia in te luce prima che sie morto. |
E il penitente: “Io te ne parlerò (ti dirò), ma non perchè m’aspetti (ch’io attenda) sostegno (non per conforto) dalla dimensione terrestre (di là), ma perché ispirato dalla mole di (tanta) grazia a te intrinseca nonostante tu sia ancor vivente (prima che sie morto).
Io fui radice de la mala pianta | |
che la terra cristiana tutta aduggia, | |
45 | sì che buon frutto rado se ne schianta. |
Io fui il capostipite (radice) della funesta stirpe (de la mala pianta) ch’estenua (aduggia) l’intera cristianità (la terra cristiana tutta), per modo (sì) che raramente (rado) buon frutto se ne colga (schianta).
Colui che si definisce “radice” della “mala pianta” dei Capetingi, è ipotizzabile identifichi Hugues o Huon II Capet (940 circa – 996), italianizzato dal fiorentin verseggiatore in “Ugo Ciappetta”, alias Ugo Capeto, conte di Parigi e duca dei Franchi.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia | |
potesser, tosto ne saria vendetta; | |
48 | e io la cheggio a lui che tutto giuggia. |
Ma se Douai, Lille, Gand e Bruges (Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia) riusciranno (potesser), presto vi sarà (tosto ne saria) vendetta; e io la supplico (cheggio) a colui (lui) che tutto giudica (giuggia).
Le quattro località menzionate, attuali comuni della Fiandra, nel 1302 s’allearono portando a casa vittoria contro il re di Francia Filippo VI “il Bello” (1268-1314), vendetta che Capeto, la cui conversazione con l’Alighieri in Purgatorio porta data 1300, s’augura arrivi presto sui suoi sciagurati discendenti.
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; | |
di me son nati i Filippi e i Luigi | |
51 | per cui novellamente è Francia retta. |
In vita (di là) fui chiamato Ugo Capeto (Ciappetta); da (di) me discesero (son nati) i Filippi e i Luigi dai quali (per cui) la Francia è stata recentemente governata (novellamente retta).
Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi: | |
quando li regi antichi venner meno | |
54 | tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, |
trova’ mi stretto ne le mani il freno | |
del governo del regno, e tanta possa | |
57 | di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno, |
ch’a la corona vedova promossa | |
la testa di mio figlio fu, dal quale | |
60 | cominciar di costor le sacrate ossa. |
Io fui figliolo (Figliuol fu’) d’un macellaio (beccaio) di Parigi: quando gli (li) antichi regnanti (regi) s’estinsero completamente (venner meno tutti), eccetto uno che indossò vesti monacali (fuor ch’un renduto in panni bigi), io mi trovai (trova’ mi) stretto fra (ne) le mani le redini (il freno) governative (del governo) del regno, indi cotanta potenza (e tanta possa) derivò dalle nuove acquisizioni (di nuovo acquisto), e d’amici fui talmente circondato (sì pieno), che alla (ch’a la) corona vacante (vedova) fu promossa la testa di mio figlio, dal quale s’è originata (cominciar) la tal consacrata dinastia di sangue (di costor le sacrate ossa).
Il padre di Capeto era il conte di Parigi – e d’altre città – duca di Francia e di Borgogna, Hugues-Huon I le Grand (898 circa – 956), o Ugo I “il Grande”, e considerando il fatto che non vi siano conferme al suo praticare attività di “beccaio”, può essere che Dante abbia erroneamente riportato tale dettaglio storico, forse confondendo i due uomini e attribuendo dei conseguenza paternità di dinastia all’Ugo figlio invece che al padre.
Quando nel 987, morì l’ultimo discendente dei Carolingi, ossia Luigi V di Francia (967 circa – 987), fra i vari epiteti soprannominato “l’Ignavo” o “il Neghittoso”, Capeto subentrò alla sua corona, di conseguenza trovandosi fra le mani innumerevoli possedimenti, circondato da amicizie verosimilmente in frenesia di potere e ritenendosi in diritto d’aggregare al trono, l’anno successivo, prima facendolo consacrare, il figlio Roberto II di Francia (972-1031), dando origine alla casa regnante dei Capetingi, da allora in poi susseguendosi reali estremamente avidi di conquiste.
In realtà, l’unico erede legittimo dei Carolingi sarebbe stato il nobile Carlo di Laon (953-991), o Carlo I di Lorena, appunto duca della Bassa Lorena (Lotaringia) e nipote del deceduto Luigi V di Francia; Carlo venne fortemente osteggiato dallo stesso Ugo Capeto il quale, dopo aspri conflitti e con l’appoggio di Adalberone di Laon (947 circa – 1030), conosciuto come Ascelino oppure Assillino, vescovo dell’omonima diocesi e poeta, lo fece rinchiudere, insieme alla moglie, in una torre d’Orleans, tuttavia per dantesco inchiostro riportandone invece ritiro in convento (fuor ch’un renduto in panni bigi).
Ad ogni modo, numerosi furono i “Filippi” ed i “Luigi” a postumi avvicendatisi sul trono di Francia, rispettivamente, nell’arco di tempo ricoperto dai Capetingi a partir dal 987, se l’inizio si vuol far coincidere con Ugo Capeto, dal di lui figlio – in carica dal 996 al 1031 – ed in seguito, cronologicamente elencando:
Enrico I (dal 1031 al 60);
Filippo I (dal 1060 al 1108);
Luigi VI (dal 1108 al 1137);
Luigi VII (dal 1137 al 80);
Filippo II Augusto (dal 1180 al 1223);
Luigi VIII (dal 1223 al 1226);
Luigi IX “il Santo” (dal 1226 al 1270);
Filippo III (dal 1270 al 85);
Filippo IV “il Bello” (dal 1285 al 1314);
Luigi X (dal 1314 al 1316), il cui figlio Giovanni I, nato postumo, morì a pochi giorni d’ala nascita, lui succedendo i fratelli paterni Filippo V (dal 1316 al 1322) e Carlo IV (dal 1322 al 1328), quest’ultimo senza eredi maschi e dunque scivolando corona sul capo del primo parente prossimo di sesso maschile, Filippo VI, a sua volta figlio di Carlo di Valois e fratello di Filippo “il Bello”, derivando la linea capetingia dei Valois, dal 1328 al 1498, attraverso Luigi XII, quella dei Valois-Orléans, dal 1498 al 1515, infine con Francesco I quella dei Valois-Angoulême, dal 1515 al 1589, per poi deviare al ramo dei Borboni tramite con Enrico IV.
Mentre che la gran dota provenzale | |
al sangue mio non tolse la vergogna, | |
63 | poco valea, ma pur non facea male. |
Fintantoché (Mentre) la contea della Provenza (gran dota provenzale) non levò (tolse) ai miei eredi (al sangue mio) ogni contegno (la vergogna), poco valeva (valea), ma se non altro (pur) non provocava danno alcuno (non facea male).
Lì cominciò con forza e con menzogna | |
la sua rapina; e poscia, per ammenda, | |
66 | Pontì e Normandia prese e Guascogna. |
Da quel momento (Lì) iniziò (cominciò) la sua rapina con prepotenza (forza) e con falsità (menzogna); e in seguito (poscia), per ammenda, s’accaparrò (prese) di Ponthieu (Pontì) e della Normandia, quanto (e) della Guascogna.
Aggiunta della “gran dota provenzale” al dominio dei Capetingi, dato che Beatrice di Provenza (1229-1267), quarta figlia del conte di Provenza e di Forcalquier Raimondo Berengario IV (1198-1245), unica delle quattro non ancor coniugata alla morte del padre, portò in dote la provenzale contea, nel 1246, al futuro marito, sovrano di Sicilia, Napoli e Gerusalemme, Carlo I d’Angiò (1226-1285), quest’ultimo fratello del quarantaquattresimo re francese, e nono della dinastia capetingia, Luigi IX di Francia (1214-1270), soprannominato “il Santo”, fu l’inizio di svariate annessioni territoriali, fra cui le succitate che, perlomeno secondo quanto asserito da Capeto – nonostante datazioni storiche anticipino le varie espugnazioni ad anni addietro, per precedente politica usurpatoria, a cavallo fra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, per mano del settimo sovrano capetingio francese Filippo II Augusto “il Guercio” (1165-1223) – si ritiene l’inizio dell’incessante opera di “rapina”ed a tal proposito l’anima decide di narrare al discepolo le vicende dei tre Carli di cadetta diramazione.
Carlo venne in Italia e, per ammenda, | |
vittima fé di Curradino; e poi | |
69 | ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. |
Carlo giunse (venne) in Italia e, per ammenda, assassinò Corradino (vittima fé di Curradino); e poi rispedì (ripinse) al ciel Tommaso, per ammenda.
Alla venuta di Carlo I d’Angiò in Italia conseguì decapitazione del duca svevo, re di Sicilia e di Gerusalemme Corrado “Corradino” di Svevia (1252-1268), o Hohenstaufen, durante la battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268), combattuta fra i ghibellini svevi ed i guelfi angioini, quest’ultimi vincitori, come riportato in decimo e ventottesimo Canto infernale, oltre che nel terzo e sesto di Purgatorio; non corrisponderebbe viceversa a verità storica il coinvolgimento del re angioino nella morte del teologo, religioso, filosofo, accademico e frate domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274).
Antecedenti accenni al primo Carlo angioino attraversano tanto il decimo e ventottesimo Canto infernale, quanto il terzo e sesto del Purgatorio.
Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi, | |
che tragge un altro Carlo fuor di Francia, | |
72 | per far conoscer meglio e sé e ’ suoi. |
Io vedo che (vegg’io), di qui a non molto (dopo ancoi) tempo, un altro Carlo fuoriuscirà dalla (che tragge fuor di) Francia, per far meglio conoscer sia se stesso che il suo casato (e sé e ’ suoi).
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia | |
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta | |
75 | sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia. |
Se n’esce privo di virtù (Sanz’arme) e solo con l’arma (lancia) del tradimento (con la qual giostrò Giuda), e quella utilizzò in maniera da (ponta sì ch’a) far (fa) scoppiar la pancia a Firenze.
Quindi non terra, ma peccato e onta | |
guadagnerà, per sé tanto più grave, | |
78 | quanto più lieve simil danno conta. |
In conseguenza a ciò (Quindi) non guadagnerà terra, ma peccato e disonore (onta), tanto più grave per lui stesso (sé), nella misura in cui egli ritenga tale colpa (quanto più lieve simil danno conta) lieve.
Trattasi del conte Carlo di Valois (1245-1285) – figlio del re di Francia Filippo II di Borgogna “l’Ardito” (1342-1404) – il quale, come citato nel sesto Canto dell’Inferno, nel 1301 varcò i confini di Firenze travestendo da paciere le proprie volontà di tradimento (Sanz’arme n’esce e solo con la lancia con la qual giostrò Giuda), provocando cacciata dei guelfi di parte bianca ed indirettamente causando il futuro esilio dell’Alighieri, egli stesso morendo senz’aver ottenuto terra ed in completo disonore.
L’altro, che già uscì preso di nave, | |
veggio vender sua figlia e patteggiarne | |
81 | come fanno i corsar de l’altre schiave. |
Vedo (veglio) un’(L’)altro Carlo, che già se ne uscì catturato in mare (preso di nave), vender sua figlia e negoziarne (patteggiarne) come fanno i corsari (corsar) con le (de l’) altre schiave.
A concluder trio dei Carli il re di Sicilia e Napoli Carlo II d’Angiò “lo Zoppo” (1254-1309), figlio dei suddetti Carlo I d’Angiò e Beatrice di Provenza, che si macchiò dell’ignobile cessione, nel 1305, aspramente condannata da Dante tredici Canti fa, della figlia Beatrice (1295-1335) in sposa all’indegno Signore di Ferrara, Modena e Reggio Emilia, Azzo VIII d’Este (1263-1308), mercanteggiandola come una schiava.
O avarizia, che puoi tu più farne, | |
poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto, | |
84 | che non si cura de la propria carne? |
O avarizia, così ancor puoi tu combinarci (che puoi tu più farne), dopo aver stregato a tal punto (poscia c’ha’ a te sì tratto) il mio sangue, da renderlo incurante (che non si cura) nei confronti dei suoi figli (de la propria carne)?
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto, | |
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, | |
87 | e nel vicario suo Cristo esser catto. |
Perché il mal futuro e quello passato (‘l fatto) appaiano meno gravi (men paia), vedo (veggio) entrar ad Agnani (intrar in Alagna) il (lo) fiordaliso, e nel suo vicario esser catturato (catto) Cristo.
Veggiolo un’altra volta esser deriso; | |
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele, | |
90 | e tra vivi ladroni esser anciso. |
Lo vedo (Veggiolo) esser ulteriormente (un’altra volta) deriso; vedo (veggio) reiterarsi (rinnovellar) l’aceto e il (’l) fiele, e tra ladroni ancor vivi essere ucciso (anciso).
Veggio il novo Pilato sì crudele, | |
che ciò nol sazia, ma sanza decreto | |
93 | portar nel Tempio le cupide vele. |
Vedo il nuovo Pilato così (sì) crudele, da non essere appagato (nol sazia) di ciò, ma illecitamente (senza decreto) condurre portar nel Tempio le avide (cupide) vele.
Menzionato di striscio, senz’esser direttamente nominato, in ventottesima terzina del diciannovesimo Canto infernale (Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge) e in trentaseiesima del settimo di Purgatorio (Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, e quindi viene il duol che sì li lanci), il re francese Filippo IV “il Bello” (1268-1314), entrò in Agnani, sotto stemma regale francese del “fiordaliso”, ed ivi rese memoria storica nel risoluto attacco a Bonifacio VIII (1230-1303) che portò, nel 1303, al sequestro del pontefice con il codardo obiettivo d’umiliarlo per convincerlo ad abdicare, metaforicamente suscitando nell’Alighieri la metafora d’un Cristo nuovamente crocifisso, simbolicamente ponendo Filippo IV nelle vesti di Ponzio Pilato.
Seconda similitudine paragona il regnante francese ad un pirata per aver indotto, tramite soprusi, papa Clemente V (1264-1314) a sopprimere l’ordine religioso-clericale dei Templari, costituito da monaci cavalieri medievali protagonisti delle crociate religiose e in attività dal 1099/1119 al 1312, ai cui adepti Filippo IV riservò protratte e brutali persecuzioni.
O Segnor mio, quando sarò io lieto | |
a veder la vendetta che, nascosa, | |
96 | fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? |
O mio Signore (Segnor), quando potrò rallegrarmi (sarò io lieto) nel constatar (a veder) la vendetta che, ancor a noi inabbordabile (nascosa), placa (fa dolce) l’ira nel segreto (segreto) del tuo essere mente?
Di vendetta divina come atto di giustizia ricamano i versetti del ventinovesimo Canto infernale.
Ciò ch’io dicea di quell’unica sposa | |
de lo Spirito Santo e che ti fece | |
99 | verso me volger per alcuna chiosa, |
tanto è risposto a tutte nostre prece | |
quanto ’l dì dura; ma com’el s’annotta, | |
102 | contrario suon prendemo in quella vece. |
Ciò ch’io dicevo (dicea) di quell’unica sposa dello (de lo) Spirito Santo e che ti spronò (fece) a rivolgermi (verso me volger) quesito a scopo di delucidazioni (per alcuna chiosa), s’intervalla in ogni nostra preghiera (è risposto a tutte nostre prece) per l’intera durata del giorno (tanto quanto ’l dì dura); ma non appena scende la notte (com’el s’annotta), enunciamo esempi di senso opposto (contrario suon prendemo in quella vece).
Capeto, rispondendo a quesito postogli da Dante, gli spiega che durante il giorno gli spiriti portano esempi edificanti, mentre al calar della notte vengono rese manifeste alcune esperienze d’avarizia punita, a tal riguardo poi proseguendo elencandone sette.
Noi repetiam Pigmalïon allotta, | |
cui traditore e ladro e paricida | |
105 | fece la voglia sua de l’oro ghiotta; |
Noi ripetiamo il nome di Pigmalione (repetiam Pigmalïon allotta), che (cui) la sua ingorda (ghiotta) brama (voglia) d’oro rese (fece) sia traditore che (e) ladro quanto (e) parricida (paricida);
Il mitologico sovrano di Tiro, Pigmalione, fu fratello di Didone, talmente avido d’oro d’arrivar ad accoltellare il cognato Sicheo per impadronirsi delle sue ricchezze, sulle quali non riuscì comunque ad impadronirsi e considerato anche parricida in quanto lo stesso Sicheo ne era anche zio.
e la miseria de l’avaro Mida, | |
che seguì a la sua dimanda gorda, | |
108 | per la qual sempre convien che si rida. |
e la miseria dell’(de l’)avaro re Mida, che conseguì (seguì) alle (a la sua) richieste voraci (dimanda gorda), delle quali è opportuno che le si ritenga sempre ridicolaggini (per la qual convien che si rida).
La celebre narrazione del re della Frigia, Mida, lo restituisce ai lettori come colui il quale, concessagli da Bacco la facoltà di trasmutare in oro qualsiasi cosa al semplice tatto, non potè più cibarsi, tantomeno dissetarsi, per trasformazione in prezioso metallo di pietanze ed acqua.
Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, | |
come furò le spoglie, sì che l’ira | |
111 | di Iosüè qui par ch’ancor lo morda. |
Del folle Achàn (Acàn) tutti si rammentano (ciascun poi si ricorda), come razziò furò9 oggetti sacri (le spoglie), da suscitar una tal collera in Giosuè (sì che l’ira di Iosüè) da sembrar (par) che (ch’) qui ancor infuri su di lui (lo morda).
Achàn venne condotto a lapidazione da Giosué, dopo aver tradito sue disposizioni ed aver derubato oggetti sacri durante il saccheggio di Gerico.
Indi accusiam col marito Saffira; | |
lodiamo i calci ch’ebbe Elïodoro; | |
114 | e in infamia tutto ’l monte gira |
Quindi (Indi) puntiamo il dito (accusiam) contro Saffira e consorte (col marito); celebriamo (lodiamo) i calci subiti (ch’ebbe) Elïodoro; da cui (e) la sua nomea vaga per l’intero Purgatorio a cavallo d’(in)infamia
Saffira ed il consorte Ananìa muoiono nell’immediato dopo essere stati scoperti da Pietro nell’aver tenuto parte della somma ottenuta dalla vendita d’un appezzamento il cui guadagno avrebbe dovuto essere interamente devoluto alla comunità dei fedeli, secondo precetto apostolico.
Eliodoro, in qualità d’amministratore delle finanze del sovrano di Siria, Seleuco, venne ucciso sotto i calci di un cavallo su cui montava uno sconosciuto cavaliere, dopo essersi recato a Gerusalemme nell’intento di rubare il tesoro del tempio.
Polinestòr ch’ancise Polidoro; | |
ultimamente ci si grida: ‘Crasso, | |
117 | dilci, che ’l sai: di che sapore è l’oro?’. |
Polinestore che uccise (Polinestòr ch’ancise) Polidoro; in ultimo (ultimamente) ci gridiamo (grida): ‘Crasso, diccelo (dilci), sapendolo (che ’l sai): qual è il gusto dell’(di che sapore è l’)oro?’
Polidoro viene assassinato dal cognato Polinestore, essendo quest’ultimo interessato al tesoro di Troia fin al punto d’arrivare ad uccidere.
Dopo aver fatto decapitare il famelico politico e comandante militare romano Marco Licinio Crasso (114-115 a.C. – 53 a.C.), il vittorioso re dei Parti, Orode II (? – 37 a.C), diede ordine di far colare dal suo capo mozzato oro fuso, chiedendo sarcasticamente che sapore avesse.
Talor parla l’uno alto e l’altro basso, | |
secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona | |
120 | ora a maggiore e ora a minor passo: |
Capita che l’un parli più forte (Talor parla l’uno alto) e l’altro meno (basso), a seconda del sentimento che a citare esempi c’incalza (secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona) ora con maggior (a maggiore) e ora con minor slancio (passo):
però al ben che ’l dì ci si ragiona, | |
dianzi non era io sol; ma qui da presso | |
123 | non alzava la voce altra persona». |
perciò (però), prima (dianzi), non ero il solo (non era io sol) ad esaltar le virtù durante il giorno (al ben che ’l dì ci si ragiona); il fatto è che qui vicino nessun altro parlava (non alzava la voce altra persona).”
Ugo spiega inoltre all’Alighieri di non essere il solo a portare esempi virtuosi, ma l’esser possibile aver parlato i peccatori al suo fianco a vince talmente bassa da non esser stati uditi.
Noi eravam partiti già da esso, | |
e brigavam di soverchiar la strada | |
126 | tanto quanto al poder n’era permesso, |
quand’io senti’, come cosa che cada, | |
tremar lo monte; onde mi prese un gelo | |
129 | qual prender suol colui ch’a morte vada. |
I due poetanti gsi sono appena allontanati da Capeto (Noi eravam partiti già da esso), adoperandosi per coprir più tragitto possibile (e brigavam di soverchiar la strada), per quanto concesso alle loro capacità (tanto quanto al poder n’era permesso), quando Dante sente (quand’io senti’) tremare la montagna (lo monte) come se qualcosa (cosa) ne stia crollando (che cada); dunque gli si raggela il sangue (mi prese un gelo) dallo spavento, al pari di colui che sia in procinto d’esser condotto al patibolo (qual prender suol colui ch’a morte vada).
Certo non si scoteo sì forte Delo, | |
pria che Latona in lei facesse ’l nido | |
132 | a parturir li due occhi del cielo. |
Certamente (Certo) non si scosse (scoteo) con cotanta possenza (sì forte) l’isola di Delo, prima che la dea greca Latona vi si adagiasse (in lei facesse ’l nido) per partorire il sole e la luna (a parturir li due occhi del cielo).
D’aggancio letterario ovidiano e virgiliano l’immagine dell’isola di Delo che fluttua sull’onde del mar Egeo poco prima che Latona vi partorisca Apollo e Diana, i due fratelli rispettive personificazioni della sfera solare e lunare; vagando la dea alla ricerca d’un luogo che l’accogliesse per il parto, in Delo trovò giaciglio e l’isola stessa venne in seguito premiata da Giove, padre di Latona, che per gratitudine l’ancorò tra le Cicladi.
Poi cominciò da tutte parti un grido | |
tal, che ’l maestro inverso me si feo, | |
135 | dicendo: «Non dubbiar, mentr’io ti guido». |
Poi da ogni dove provengono delle grida tali (cominciò da tutte parti un grido tal), da indurre il (che ’l) maestro a condursi appresso al proprio protetto (inverso me si feo), dicendo: “Abbandona timori (Non dubbiar), mentr’io ti guido”.
‘Glorïa in excelsis’ tutti ‘Deo’ | |
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi, | |
138 | onde intender lo grido si poteo. |
Tutte i penitenti (Tutti) dicono (dicean) ‘Glorïa in excelsis Deo’, in base a quel che l’Alighieri riesce a comprendere dagli spiriti a lui più vicine (per quel ch’io da’ vicin compresi), dai quali si può carpire il vociferare (onde si potrò intender lo grido).
No’ istavamo immobili e sospesi | |
come i pastor che prima udir quel canto, | |
141 | fin che ’l tremar cessò ed el compiési. |
I due peregrini sostano (No’ istavamo) immobili e sospesi come i pastori (pastor) che per primi (prima) udirono (udir) quel canto, fino al momento in cui la scossa cessa (fin che ’l tremar cessò) e l’inno si conclude (ed el compiési).
I “pastor che prima udir quel canto” si riferisce all’ascolto degli angeli, da parte loro, alla nascita del Cristo.
Poi ripigliammo nostro cammin santo, | |
guardando l’ombre che giacean per terra, | |
144 | tornate già in su l’usato pianto. |
Poi i due scalatori riprendono (ripigliammo nostro) il loro cammin santo, osservando le anime giacenti al suolo (guardando l’ombre che giacean per terra), immediatamente abbandonandosi al loro consueto (tornate già in su l’usato) pianto.
Nulla ignoranza mai con tanta guerra | |
mi fé desideroso di sapere, | |
147 | se la memoria mia in ciò non erra, |
quanta pareami allor, pensando, avere; | |
né per la fretta dimandare er’oso, | |
150 | né per me lì potea cosa vedere: |
Se la memoria di Dante (mia), a tal proposito (in ciò), non lo trae in inganno (non erra), mai fu in lui qualcosa d’ignorato (Nulla ignoranza) a suscitargli, con smodata smania (guerra) tanto desiderio (mi fé desideroso) di sapere, quanto gli è sembrato d’avere, ripensandoci (pensando) in quello stesso momento (quanta pareami allor); né per premura (fretta) osa chiederne (dimandare er’oso) a Virgilio, tantomeno (né) da solo è in grado di giungere a completa comprensione di quanto visto (né per me lì potea cosa vedere):
151 | così m’andava timido e pensoso. |
così l’Alighieri incede schivo e pensieroso (m’andava timido e pensoso).
Il suo celere seguire Virgilio lo conduce a scavalcar Canto assorto in quella “sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia…”
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