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Divina Commedia: Purgatorio, Canto XV

Silvio Bicchi (1878-1949), Dante Alighieri (dettaglio)

 
Dante e Virgilio proseguono la scalata, nello spazio fra una balza e l’altra non incontrando peccatori, ma l’angelo della Misericordia, che si presenta scintillando a tal punto da ostruire il senso visivo, ciò nonostante riuscendo ad avvicinare i due poeti ed a cancellare la seconda penitenza dalla fronte del pellegrino, quindi alleggerendone corpo ed anima.

Di scalino in scalino, L’Alighieri cogli l’occasione di chiedere alla savia guida chiarimenti riguardo ad un’ostica dichiarazione di Guido del Luca, ricevendo in risposta un dettagliato discorso sulla nocività dell’invidia e sull’importanza di comprendere come sfuggire alle sue lusinghe, in caritatevole sfumatura di spirito.

Sulla scia di codesta conversazione, durante la quale terzo accenno al futuro incontro con Beatrice rende compiacimento a colui che in vita infinitamente l’amò, il maestro ed il suo discepolo posano finalmente piede e sguardo sulla terza Cornice, sull’istante Dante sbalordendosi e venendo completamente attratto da tre estatiche visioni che si susseguono in esempi di perdono, rappresentati rispettivamente da Maria, Pisistrato e santo Stefano, contrapposti al vizio da cui purificarsi.

Le apparizioni provocano nell’Alighieri una profonda spossatezza che gli si riversa nelle gambe, rendendogli particolarmente greve il cammino, condizione che all’occhio attento di Virgilio non passa inosservata e conseguendone risoluto sprone che ne incalza la celere ripresa, calando un nebbioso strato fu nero fumo come sipario sulle ultime terzine.

Il Canto si svolge pacatamente, ben distante da diatribe politiche o commoventi incontri con tormentate anime, fungendo come una sorta di tregua riflessiva durante la quale Dante si concede attimi d’estasi ed inerzia, durante i quali porsi a confronto con il suo fidato conduttore, colui che, con l’eleganza d’animo che lo contraddistingue, miscelando fermezza, comprensione ed incoraggiamento in perfetto equilibrio, con estremo garbo lo conduce ad altezze sempre più elevate.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto XV • La Comedia di Dante Alighieri con la noua espositione di Alessandro Vellutello, 1544 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
La Comedia di Dante Alighieri
con la noua espositione di Alessandro Vellutello, 1544

 

Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera
3 che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
6 vespero là, e qui mezza notte era.

Il medesimo intervallo compreso tra la fine della terza ora diurna (Quanto tra l’ultimar de l’ora terza) e l’alba (’l principio del dì), ch’appare (par) in cielo percorso dalla sfera solare (de la spera), nel suo moto paragonabile ad un giocoso infante (che sempre a guisa di fanciullo scherza), parrebbe esser il medesimo tratto ancor mancante al sole (tanto pareva esser al sol del suo corso rimaso) per raggiungere il tramonto (inver’ la sera); in Purgatorio (là) è l’orario del vespro, e in Italia (qui) mezzanotte (mezza notte).

Partendo dall’assunto per cui il sole sorga verso le 6.00, la terza ora diurna corrisponderebbe alle 9.00 del mattino e se eguale arco temporale deve trascorrere perché giunga il tramonto, in consapevolezza d’ipotesi immaginato intorno alle 18.00, è concepibile presupporre che Dante abbia fissato il momento alle ore 15.00, riagganciando così riflessioni esposte nel Convivio, inerenti la tendenza della Chiesa, ritenendo «la sesta ora, cioè lo mezzo die, la più nobile», d’avvicinar alle dodici la celebrazione delle funzioni, in tal modo officiando il vespero — a cader d’equinozio compreso tra le quindici e le diciotto — in prossimità delle 15.00.

Peraltro, come già esposto in precedenti Canti, secondo planisfero di dantesca concezione, quando nell’italica penisola è mezzanotte, a Gerusalemme sono le 3:00, indi in Purgatorio le 15:00

E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
perché per noi girato era sì ’l monte,
9 che già dritti andavamo inver’ l’occaso,
quand’io senti’ a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
12 e stupor m’eran le cose non conte;

E i raggi urtano Dante e Virgilio in pieno volto (E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso), essendo che i poeti stanno girando intorno al (perché per noi girato era sì ’l) monte, in maniera d’esser perfettamente orientati verso occidente (che già dritti andavamo inver’ l’occaso), quando il pellegrino percepisce una pressione sulle palpebre (quand’io senti’ a me gravar la fronte) a causa d’uno (a lo) splendore maggiormente deciso rispetto a (assai più che di) prima, provocando in lui sbigottimento fenomeni sconosciuti (e stupor m’eran le cose non conte);

ond’io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
15 che del soverchio visibile lima.

pertanto egli solleva (ond’io levai) le mani verso le sopracciglia (inver’ la cima de le mie ciglia), al fin di moderar luminosità solare (e fecimi ’l solecchio), per quanto oltrepassa la capacità visiva di riceverla (che del soverchio visibile lima).

Proteggendosi dal sole con le mani, Dante spera di riuscire a riattivare la sua capacità visiva, oltraggiata dall’abbagliante luce.

Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
18 salendo sù per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
21 sì come mostra esperïenza e arte;

Come quando, da una superficie che sia dell’(l’)acqua o d’uno (lo)specchio, il raggio solare si riflette (salta lo raggio a l’opposita parte) nella parte opposta (a l’opposita) alla sorgente luminosa, salendo e riscendendo con la medesima angolazione (salendo sù per lo modo parecchio a quel che scende), quindi distaccandosi dalla verticale linea, ch’è perpendicolare al piano (e tanto si diparte dal cader de la pietra), per identica distanza (in igual tratta), così (sì) come dimostrato (mostra) dall’esperienza e dalla scienza fisica (esperïenza e arte);

La spiegazione data rimanda alla legge ottica secondo le cui enunciazioni l’angolo di riflessione e d’incidenza di un raggio di luce sono corrispondenti, come inoltre confermato da discipline fisiche e geometriche.

così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
24 per che a fuggir la mia vista fu ratta.

similmente all’Alighieri sembra (così mi parve a me) d’esser stato colpito (percosso) da una luce riflessa (rifratta) proveniente dalla zona lui innanzi (quivi dinanzi); manifestazione a seguito della quale il suo sguardo è celere nel discostarsene (per che a fuggir la mia vista fu ratta).

«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
27 diss’io, «e pare inver’ noi esser mosso?»

Perplesso, il discepolo si rivolge (diss’io) al suo dolce e paterna guida (padre) lui chiedendo cosa sia ciò che non gli permette di (Che è quel a che non posso) schermar la vista (lo viso) per quanto gli concederebbe d’utilizzarla (tanto che mi vaglia) e che paia giungere verso di loro (pare inver’ noi esser mosso)?”

«Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
30 «messo è che viene ad invitar ch’om saglia.

Virgilio gli risponde (a me rispuose) di non doversi stupire se di nuovo dovesse capitargli d’esser abbagliato (Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia) dagli angeli celesti (la famiglia del cielo), poi rivelandogli esser quella luce un inviato (messo) da Dio, arrivato per (è che viene ad) invitar chiunque debba risalire (ch’om saglia) il promontorio.

Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
33 quanto natura a sentir ti dispuose».

E presto avverrà (Tosta sarà) che il (ch’a) veder queste cose non gli causerà più patimento, (ti fia grave), ma gli procurerà tanto piacere (fieti diletto) in misura di quanto la natura ha disposto ch’egli riceva (a sentir ti dispuose).

Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
36 ad un scaleo vie men che li altri eretto».

Una volta appresso all’angelo (Poi giunti fummo a l’angel) benedetto, con lieta voce lo stesso dice (disse): “Accedete da qui (Intrate quinci), per una scala (ad un scaleo) ch’è meno erta rispetto alle altre (vie men che li altri eretto)”.

Non solo ascendendo la scalata diventa meno impegnativa, ma i peccatori divengono più leggeri, compreso Dante, a cui l’angelo è sottinteso abbia cancellato la seconda P dalla fronte, delle sette incise restandogliene dunque cinque.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto XV • Guglielmo Giraldi, Divina Commedia, XV secolo, Biblioteca Apostolica Vaticana MS. Urb. Lat 365 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Guglielmo Giraldi, Divina Commedia, XV secolo
Biblioteca Apostolica Vaticana MS. Urb. Lat 365

 

Noi montavam, già partiti di linci,
e ‘Beati misericordes!’ fue
39 cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.

Mentre i due viandanti (Noi), già partiti dal punto in cui si trovavano (di linci), salgono (montavam), da dietro di loro s’ode cantare (due cantato retro), sia ‘Beati i misericordiosi’ (e ‘Beati misericordes!’) che (e) ‘Godi tu che vinci!’

‘Beati misericordes!’ è l’inizio della quinta delle otto beatitudini evangeliche, contenute nel ‘Discorso di Gesù della Montagna’, sermone rivolto ai suoi discepoli e ad una moltitudine di persone in ascolto, il cui testo, riportato dal Vangelo secondo Matteo, dichiara: «Beati i poveri in spirito, perché il loro è il regno dei cieli. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati i mansueti, poiché erediteranno la terra.
Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, poiché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché mostreranno misericordia. Beati i puri di cuore, poiché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati coloro che sono perseguitati a causa della giustizia, poiché il loro è il regno dei cieli».

Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
42 prode acquistar ne le parole sue;

Il maestro ed il suo protetto (Lo mio maestro e io), soli ambedue (amendue), continuano a salire (suso andavamo); e Dante (e io), nel procedere (andando), riflette (pensai) sulla possibilità di trarre vantaggio (acquistar prode) dall’oratoria di Virgilio (ne le parole sue);

Con “amendue” una solitudine di pensiero parrebbe inserirsi fra i due affiatati viaggiatori, accanto fisicamente, ma isolandosi l’Alighieri nel groviglio delle sue personali riflessioni.

e dirizza’ mi a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
45 e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».

indi a lui si rivolge (e dirizza’ mi) al fin di chiedergli (sì dimandando) cosa intendesse dire Guido del Duca (Che volse dir lo spirto di Romagna) nell’accennare (menzionando) a (e) ‘divieto’ (e) ‘consorte’?

I due vocaboli rimbalzano a ritroso ove, alla ventinovesima terzina del precedente Canto, Guido del Duca s’era espresso in maniera enigmatica: “Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perché poni ’l core là ’v’è mestier di consorte divieto?”

Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri
48 se ne riprende perché men si piagna.

Pertanto il vate al suo allievo (Per ch’elli a me): “Del suo peccato più grave (Di sua maggior magagna) Guido del Duca conosce la conseguenza (il danno); perciò (e però) non ci si meravigli (non s’ammiri) del fatto che lui lo commiseri (se ne riprende) affinché siano meno persone a doverne pagar fio (perché men si piagna).

Il recusar l’invidia da parte di Guido del Duca dovrebbe quindi servir d’esempio per non cedere alle sue lusinghe e non doverne di conseguenza subire penitenza.

Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
51 invidia move il mantaco a’ sospiri.

È proprio perché le vostre brame (i vostri disiri) si fissano (s’appuntano) dove il possedere beni ripartiti fra molti (per compagnia) ne riduce (si scema) la parte spettante ad ognuno, che l’invidia muove il mantice al sospirare (move il mantaco a’ sospiri).

Va da sé che i beni materiali diminuiscano all’aumentare delle persone con cui ripartirli, basilare miccia sulla quale l’invidia esplode in tutta la sua potenza e la metafora del mantice, uno strumento meccanico che origina un soffio d’aria, utilizzato per alimentare il fuoco in vari ambiti, rende lo sfiatar della stessa in maniera sublime.

Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
54 non vi sarebbe al petto quella tema;

Ma se l’aspirare al supremo regno celeste (l’amor de la spera supprema) volgesse in alto i vostri desideri (torcesse in suso il disiderio vostro), non avreste quel tipo d’oppressione (non vi sarebbe al petto quella tema) al petto;

ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
57 e più di caritate arde in quel chiostro».

poiché (ché), più sono coloro che (per quanti), nel regno dei cieli (lì), parlano (si dice) di ‘nostro’, maggiore è la quantità di bene (tanto più di ben) che ciascuno possiede, come maggior carità scintilla in quella sacra confraternita (e più di caritate arde in quel chiostro)”.

Nel regno celeste, all’aumentar della condivisione del bene, lo stesso aumenta nel cuore d’ognuno, al contrario di quanto avviene nella materialità, ove il rapporto è al contrario inversamente proporzionale; il termine ‘nostro’ è aggettivo che, nell’orazione per eccellenza dedicata al divino, percepito come comune ‘padre’, instilla in ognuno il valore dell’avere in comune la percezione di Dio.

«Io son d’esser contento più digiuno»,
diss’io, «che se mi fosse pria taciuto,
60 e più di dubbio ne la mente aduno.

Dante esclama (diss’io) di sentirsi più distante dall’esser appagato (Io son d’esser contento più digiuno) rispetto a quanto lo sarebbe stato se poco prima non avesse posto domande (che se mi fosse pria taciuto), ora convogliando nella sua mente maggiori perplessità (più di dubbio ne la mente aduno) a riguardo.

Com’esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
63 di sé che se da pochi è posseduto?»

Egli si chiede infatti come possa essere che un bene (Com’esser puote ch’un ben), distribuito fra più persone (posseditor), arricchisca più di quanto si verificherebbe se venisse suddiviso fra pochi (faccia più ricchi di sé che se da pochi è posseduto).

L’incomprensione espressa dall’Alighieri si fa mezzo attraverso cui porre maggior accento sul vizio dell’invidia, cogliendo l’occasione, attraverso la voce di Virgilio, di rimarcarne la portata deleteria, quasi a voler suggerire ai propri lettori quale sia la retta via da seguire, tuttavia esponendosi con l’umiltà del personaggio-peregrino che si manifesta nella difficoltà d’intendimento, di tipica sfumatura terrena ed umana, che la redenzione purgatoriale lava via dall’anima.

Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
66 di vera luce tenebre dispicchi.

E Virgilio (Ed elli) in ulterior delucidazione a Dante (me): “Dato (Però) che tu t’incaponisci nel pensar (Però che tu rificchi la mente) esclusivamente (pur) a beni materiali (le cose terrene), dalla luce della verità (di vera) trai (dispicchi) le tenebre.

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
69 com’a lucido corpo raggio vene.

Quel bene infinito ed inspiegabile (e ineffabil) bene che si trova nei cieli (là sù è), s’elargisce nell’immediato ad animi caritatevoli (così corre ad amore) come i raggi di luce parrebbero preferire oggetti riflettenti (com’a lucido corpo raggio vene).

Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
72 cresce sovr’essa l’etterno valore.

Maggiormente (Tanto) si concede (dà) in base a quanto fervore riscontra (quanto trova d’ardore), per modo (sì) che, ancorché (quantunque) più amore distribuisce (carità si stende) ogni anima, più in essa s’intensifica l’indulgenza divina (cresce sovr’essa l’etterno valore).

E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
75 e come specchio l’uno a l’altro rende.

E più son le creature che lassù si amano (E quanta gente più là sù s’intende), più aumenta l’amore e la facoltà d’amare (v’è da bene amare), e più ci s’(vi s’)ama, e come uno specchio ogni spirito ne riflette l’un sull’altro (l’uno a l’altro rende).

E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
78 ti torrà questa e ciascun’altra brama.

E qualora (se) il mio ragionamento non ti soddisfasse appieno (la mia ragion non ti disfama), incontrerai (vedrai) Beatrice, ed ella esaurientemente (pienamente) ti sazierà questo e qualsiasi altro desiderio di sapere (ti torrà questa e ciascun’altra brama).

Beatrice, nel suo ruolo di somma inviata celeste che con estrema grazia prenderà per mano Dante, illuminandone la ragione, già venne sussurrata dalla virgiliana voce sia fra il centoventisettesimo ed il centotrentaduesimo versetto del decimo Canto infernale («La mente tua conservi quel ch’udito hai contra te», mi comandò quel saggio; «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell’occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio»), che fra il quarantatreesimo ed il quarantottesimo di sesto Canto del Purgatorio («Veramente a così alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice»).

Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
81 che si richiudon per esser dolente».

Adoperati (Procaccia) pertanto affinché celermente (pur che tosto) ti vengan cancellate (spente), come già lo son state due di esse, le cinque piaghe, che si rimarginano (richiudon) al tuo pentimento (per esser dolente)”.

Le “piaghe” sono P incise sulla fronte dell’Alighieri; le prime due rimosse, corrispondono alla superbia ed all’invidia, le rimanenti verranno invece levate ad ogni passaggio di Cornice.

Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
vidimi giunto in su l’altro girone,
84 sì che tacer mi fer le luci vaghe.

Su punto in cui Dante sta per riferire a Virgilio d’esser soddisfatto delle sue spiegazioni (Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’), si vede (vidimi) giunto alla nuova Cornice (in su l’altro girone), così che i suoi occhi smaniosi (le luci vaghe) lo silenziano (tacer mi fece).

L’Alighieri rivolge talmente tanto interesse nello scrutare ciò che gli si presenta davanti agli occhi, da non rimanergliene per parlare; gli a lui compariranno tre ‘visioni estatiche’, le più flebili, rispetto a quelle di maggior grado che a lui si mostreranno in Paradiso.

Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
87 e vedere in un tempio più persone;

In quel luogo (Ivi) gli par (mi parve) d’esser immediatamente (di sùbito) rapito (tratto) da una visïone estatica, nell’osservare (e vedere) molte (più) persone all’interno (in) d’un tempio;

e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
90 perché hai tu così verso noi fatto?

E una donna, sulla soglia (in su l’entrar), con amorevole (dolce) atteggiamento (atto) materno (di madre), dire (dicer): “Figliuol mio, perché ti sei comportato in questo modo (hai tu così fatto) con (verso) noi?

Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
93 ciò che pareva prima, dispario.

Ecco, angosciati (dolenti), io e tuo padre ti cercavamo”. E non appena (come qui) si tacque, l’apparizione precedentemente manifestatasi (ciò che pareva prima), scompare (dispario).

Nella prima visione, ricalcando narrazione evangelica secondo Luca, si concretizzano Giuseppe e Maria, sull’ingresso del tempio di Gerusalemme, trafelati nel riprendere un Gesù dodicenne, in dissidio con alcuni dottori, dopo sua assenza di tre giorni e riportando esempio di perdono, in antitesi al vizio dell’iracondia, espiata in terza Cornice.

Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ’l dolor distilla
96 quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
99 e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
102 E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
105 se quei che ci ama è per noi condannato?».

Indi a Dante appare (m’apparve) un’altra donna sulle cui gote scendono (giù per) quelle lacrime (con quell’acque) che il dolore estrae (’l dolor distilla) quando a causarlo è il rancore verso qualcuno (di gran dispetto in altrui nacque), affermare (e dir): “Se tu sei il signore (se’ sire) città (villa) il (del) cui nome fu causa d’infinite diatribe (tanta lite) fra gli (ne’) dèi, dalla quale (e onde) s’irraggia (disfavilla) ogni (ogni) scïenza, castiga tu (vendica te) quelle braccia sfacciate (ardite) che abbracciarono (ch’abbracciar) nostra figlia, o Pisistràto”. E il signore (’l segnor), benevolo e pacato (benigno e mite), a Dante sembra (mi parea) risponderle (risponder lei) con volto bonario (viso temperato): “Cosa faremo (Che farem) noi a chi desidera il nostro male (mal ne disira), se noi stessi condanniamo coloro che ci amano (quei che ci ama è per noi condannato)?”.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto XV • Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867), Testa di Pisistrato e mano sinistra di Alcibiade, 1824:1834 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867)
Testa di Pisistrato e mano sinistra di Alcibiade, 1824:1834

 
La città menzionata è Atene, ritenuta per antonomasia propagatrice sul mondo della grandiosità di tutte le scienze, la scelta del cui nome fu causa di controversie fra Poseidone e Pallade, come custodito fra le pagine delle metamorfosi di Ovidio.

Nella tal cittadina, la consorte di Pisìstrato (600 a.C. – 528/527 a.C.), despota ateniese la cui nomea passò alla storia per mitezza d’animo, gli chiese di punire colui che, innamorato della figlia, secondo la donna ne ha oltraggiato l’immagine, baciandola pubblicamente – bacio che nella Commedia viene tramutato in abbraccio – ma la reazione del marito si dimostra estremamente bonaria, non ritenendo di dover infliggere nessuna punizione nei confronti di chi dimostra amore ed indi distillando esemplare mansuetudine.

Il fatto di cui sopra, fu raccontato dallo storico e retore latino Valerio Massimo, vissuto nel primo secolo a.C., in Factorum te dictorum memorabilium libri IX, un’enciclopedia a carattere morale, costituita di nove tomi che raccoglievano in essi fatti storici e detti indimenticabili; l’Alighieri ne venne plausibilmente a conoscenza attraverso parafrasi ad opera del filosofo, scrittore, e vescovo inglese Giovanni di Salisbury (1120-1180).

Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
108 gridando a sé pur: «Martira, martira!».

Poi l’Alighieri vede (vidi) persone infiammate del fuoco della collera (genti accese in foco d’ira) lapidare (con pietre ancider) un giovane (giovinetto), urlandosi acutamente (gridando forte) l’un con l’altro in continuazione (a sé pur): “Ammazza, ammazza!” (Martira, martira!)”.

E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
111 ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
114 con quello aspetto che pietà diserra.

E Dante lo vede inginocchiarsi a (chinarsi inver’ la) terra, ormai gravato dalla (che l’aggravava già per la) morte, ma con occhi comunque fissi al cielo (de li occhi facea sempre al ciel porte), pregando l’Altissimo (orando a l’alto Sire), nel mentre annientato da cotanta ferocia (in tanta guerra), lui chiedendo perdono (che perdonasse) per i (a’) suoi persecutori, con quell’atteggiamento (quello aspetto) che suscita compassione (pietà diserra) in chi lo guardi.

Riguardo alla lapidazione di santo Stefano, all’epoca dei fatti diacono, attestano gli Atti degli Apostoli e l’Alighieri ne carpisce informazioni, pur non accennando alla visione divina del religioso ed al suo divulgarne notizia, ma ergendolo a sacro e terzo esempio di clemenza.

Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
117 io riconobbi i miei non falsi errori.

Quando l’anima di Dante (mia) ritorna all’esterno (tornò di fori) di nuovo volgendosi alla realtà oggettiva (a le cose che son fuor di lei vere), egli riconosce (io riconobbi) l’immaterialità di quanto appena visto (i miei non falsi errori).

A Dante sopraggiunge consapevolezza riguardo al carattere estatico di quanto appena visto.

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
120 disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
123 a guisa di cui vino o sonno piega?».

Il suo duca (Lo duca mio), che lo osserva percependolo come colui che sia in procinto di svegliarsi (mi potea vedere far sì com’om che dal sonno si slega), gli chiede (disse): “Che hai che non ti reggi in piedi (non ti puoi tenere), camminando per più di mezzo miglio (ma se’ venuto più che mezza lega) con sguardo oscurato (velando li occhi) e con le gambe impedite (avvolte), come se fossi imbambolato da (a guisa di cui piega) da vino o sonno?

«O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò», diss’io, «ciò che m’apparve
126 quando le gambe mi furon sì tolte.»

“O dolce padre mio”, gli risponde Dante (diss’io), “se tu mi concederai ascolto (m’ascolte), io ti dirò cosa (ciò che) m’apparve quando restai quasi privo dell’uso delle (mi furon sì tolte le) gambe.

Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
129 le tue cogitazion, quantunque parve.

E Virgilio: “se tu avessi cento maschere (larve) sul viso (sovra la faccia), non mi rimarrebbero comunque celati i tuoi pensieri (non mi sarian chiuse le tue cogitazion), benché (quantunque) minimi (parve).

Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
132 che da l’etterno fonte son diffuse.

Ciò che hai visto (vedesti) è avvenuto per far sì che tu non t’opponga (fu perché non scuse) all’(d)aprir il (lo) cuore alle acque della (a l’acque de la) pace che s’effondono (son diffuse) dall’eterna sorgente (da l’etterno fonte) della carità.

Le acque della pace corrispondono al ristoro che deriva dall’atto del perdono, come da biblici versetti: «Gesù rispose: Chiunque beve di quest’acqua, avrà ancora sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna». Giovanni 4,13-14
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto XV • Annibale Carracci (1560-1609), Pala del Perdono: San Francesco d’Assisi presentato da un angelo a Gesù e alla Vergine Maria, XVI sec. • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Annibale Carracci (1560-1609), Pala del Perdono:
San Francesco d’Assisi presentato da un angelo a Gesù e alla Vergine Maria, XVI sec.

 

Non dimandai ‘Che hai?’ per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
135 quando disanimato il corpo giace;

Non ti chiesi cos’avessi (dimandai ‘Che hai?’) come farebbe (per quel che face) chi guardando esclusivamente (guarda pur) con appannati occhi corporei (l’occhio che non vede), si trovi di fronte ad un fisico che s’adagia spossato (quando disanimato il corpo giace);

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
138 ad usar lor vigilia quando riede».

ma posi quesito per rigenerarti il passo (dimandai per darti forza al piede): in tal maniera vanno spronati (così frugar conviensi) i pigri, indolenti nel ben utilizzare la loro veglia (ad usar lor vigilia) una volta destati (quando riede)”.

Virgilio s’adoperano per far comprendere all’Alighieri quanto le sue domande non siano mai fini a se stesse, ma lui rivolte allo scopo di condurlo con saggezza verso la grazia.

Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
141 contra i raggi serotini e lucenti.

Dante e Virgilio proseguono per il vespro (Noi andavam per lo vespero), accorti fin al punto in cui possa allungar lo sguardo (attenti oltre quanto poetanti allungarsi li occhi) contro (contra) i raggi del sole, serali e luminosi (serotini e lucenti).

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
144 né da quello era loco da cansarsi.

Ed ecco lentamente (a poco a poco) arrivar (farsi) verso Dante e Virgilio (noi) un fumo (fummo) scuro (oscuro) come la notte; tantomeno v’è luogo in cui posizionarsi che permetta di scansarlo (né da quello era loco da cansarsi).

Non avendo spazio i in cui potersi rifugiare per proteggersi da quella fosca nebbia, se ne deduce che la stessa si sia diramata sul-l’intero dorsale.

145 Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.

Codesto (questo) fumo leva loro (ne tolse) la vista e la purezza dell’aria (li occhi e l’aere puro).

È dunque marciando attraverso un abbacinante e soffocante miasma che in apertura di successivo Canto i due poetanti piomberanno in un “Buio d’inferno e di notte privata d’ogne pianeto, sotto pover cielo, quant’esser può di nuvol tenebrata…”
 
 
 
 

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