Divina Commedia: Purgatorio, Canto XIX
Simeon Solomon (1840-1905), dettaglio, Dante Alighieri Divino Profeta, 1903
Ancor in sosta nella quarta Cornice, Dante leva sipario in fase onirica, alla sua immaginazione dormiente ricamando immagine d’una donna storpia, brutta e tartagliante, la quale tuttavia al Sommo appare maliarda sirena, ma da ella vien bruscamente destato da un insolito gesto della sua adorata guida, atto al simbolico manifestargli le mendaci insidie dell’avarizia, vizio le cui conseguenze in Purgatorio s’aprono alla vista dei due viandanti non appena precorsa la scalinata che conduce alla quinta Cornice, su stimolo dell’angelo assolutore, che, misericordioso, leva dalla fronte del pellegrino la penitenza dell’accidia appena passata.
Il cammino prosegue fra avari in contrappasso per analogia, vale a dire sdraiati in posizione prona, immobilizzati negli arti e con volto infangato, al pari di quanto rivolsero gli occhi alle materialità, in corso d’esistenza, mai degnandosi di levarli al cielo, se non in sopraggiunta consapevolezza ancor in fase di vita.
Così come accadde al pontefice Adriano V, unico spirito parlante del Canto, il cui ruolo è quello d’esplicare la relazione fra peccato e penitenza, come appena sopraelencato.
L’Alighieri lo affianca con estremo riguardo, in maniera quasi caritatevole, nel rispetto del di lui ruolo ecclesiastico, atteggiamento che il penitente gli suggerisce essere errato, non essendovi differenze fra gli uomini al cospetto di Dio, indipendentemente da chi siano stati durante il loro tragitto terreo.
La conversazione fra i due termina su incitamento dell’anima, bramosa di ritornare ad espiare le proprie colpe, ma non prima d’aver accolta richiesta d’orazione in suo favore da parte del discepolo, indicando al poeta, come unica persona ancor vivente, sinceramente affidabile, una nipote.
Il fu pontefice tende parallelismo al collega del corrispondente Canto infernale, il diciannovesimo appunto, rimembrando papa Niccolò III che Dante relegò fra i simoniaci ed al quale riservò trattamento ed accoglienza severe e biasimevoli, diametralmente opposti a quelli lasciati percepire in queste terzine colme di cordiale clemenza.
Il rassicurante Virgilio è sempre al fianco del suo protetto, tra risolutezza e comprensione convogliandolo ad un traguardo sempre più vicino, frattanto facendosi da parte qualora il suo allievo si senta libero d’esprimersi nel saggiare territorio e personalità in esso incontrate, ma non prima d’aver atteso un suo confortante, incalzante ed indulgente, “lieto cenno”, sul filo d’una comprensione venuta da lontano e concretizzatasi ad ogni passo.
Ne l’ora che non può ’l calor dïurno | |
intepidar più ’l freddo de la luna, | |
3 | vinto da terra, e talor da Saturno |
– quando i geomanti lor Maggior Fortuna | |
veggiono in orïente, innanzi a l’alba, | |
6 | surger per via che poco le sta bruna -, |
mi venne in sogno una femmina balba, | |
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, | |
9 | con le man monche, e di colore scialba. |
Durante (Ne) l’ora in cui (che) il (’l) calor del giorno (dïurno), non è più in grado (non può) d’intiepidire il (intepidar ’l) freddo dei raggi lunari (de la luna), in quanto smorzato dal raffreddamento terrestre (vinto da terra), e talvolta (talor) dal gelo di Saturno — quando i geomanti vedono (veggiono) la lor Maggior Fortuna sorgere (surger) in zona orientale (orïente), prima (innanzi) dell’(a l’)alba, in un lembo di cielo ancor per breve tempo abbrunato (per via che poco le sta bruna) -, a Dante appare (mi venne) in sogno una donna balbuziente (femmina balba), strabica nello sguardo (ne li occhi guercia), e storpiata nei piedi (sovra i piè distorta), con le mani (man) monche, e dal cereo incarnato (di colore scialba).
Codesto è il secondo dei tre sogni danteschi all’interno del Purgatorio, il primo verificatosi, in onirica presenza d’aquila, nel nono Canto ed il terzo che si manifesterà nel ventisettesimo, in ciascun caso iniziando le terzine, rispettivamente al tredicesimo, primo e trentaduesimo verso, con l’espressione “Ne l’ora”, atta a temporalmente contestualizzare prima dell’alba gli avvenimenti descritti.
Di tipica concezione medievale è il considerar la sfera lunare come produttrice di freddo.
I “geomanti” furono veggenti devoti a tecnica divinatoria, di remota origine orientale, della geomanzia, praticata delineando figure geometriche sulla sabbia e ponendole in parallelismo alle costellazioni, al fin di trarne previsioni, in tal caso rimandando l’autore della Commedia alla ‘Fortuna Maior’, ovvero la figurazione, di forma trapezoidale e con coda annessa, che l’accomunava alla costellazione dei Pesci.
Io la mirava; e come ’l sol conforta | |
le fredde membra che la notte aggrava, | |
12 | così lo sguardo mio le facea scorta |
la lingua, e poscia tutta la drizzava | |
in poco d’ora, e lo smarrito volto, | |
15 | com’amor vuol, così le colorava. |
Dante (Io) la scruta (mirava); e come il sole rinviene (’l sol conforta) le fredde membra che la notte indolenzisce (aggrava), così il suo (lo mio) sguardo le sbroglia (le faceva scorta) la lingua, in più raddrizzandola (e poscia tutta la drizzava) in poco tempo (d’ora), ed il pallido (smarrito) volto in tal modo colorandole (così le colorava), come per effetto dell’amore (com’amor vuol).
L’espressone “com’amor vuol” è caratteristico rossore del viso in richiamo all’amor gentile di stilnovista accezione.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto, | |
cominciava a cantar sì, che con pena | |
18 | da lei avrei mio intento rivolto. |
Avendo ella acquisito una parlantina tanto sciolta (Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto), inizia (cominciava) a cantar in un maniera tale (sì), che l’Alighieri con difficoltà dalla stessa distoglierebbe la sua attenzione (con pena da lei avrei mio intento rivolto).
«Io son», cantava, «io son dolce serena, | |
che ’ marinari in mezzo mar dismago; | |
21 | tanto son di piacere a sentir piena! |
“Io son”, canta (cantava), “io son una dolce sirena (serena), che in mezzo al mar ammalio (dismago) i marinai (’ marinari), dall’immane compiacimento che suscito all’ascoltarmi (tanto son di piacere a sentir piena)!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago | |
al canto mio; e qual meco s’ausa, | |
24 | rado sen parte; sì tutto l’appago!» |
Io deviai (volsi) Ulisse verso (al) mio canto, per quanto smanioso (vago) di proseguire il suo viaggio (cammin); e chiunque s’avvezzi al mio cantare (qual meco s’ausa), raramente riparte (rado sen parte), dal tanto che completamente (sì tutto) l’appago!
Ancor non era sua bocca richiusa, | |
quand’una donna apparve santa e presta | |
27 | lunghesso me per far colei confusa. |
Ancor la bocca non s’è (era) richiusa quand’accanto al pellegrino (lunghesso me) appare (apparve) una donna santa e solerte (presta), al fin di confondere la sirena (per far colei confusa).
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», | |
fieramente dicea; ed el venìa | |
30 | con li occhi fitti pur in quella onesta. |
E con fierezza (fieramente) chiedendo (dicea): “O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”; e lo stesso a lei s’avvicina (ed el venìa) senza mai staccar lo sguardo dalla santa donna (con li occhi fitti pur in quella onesta).
L’altra prendea, e dinanzi l’apria | |
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre; | |
33 | quel mi svegliò col puzzo che n’uscia. |
Poi afferrando (prendea) l’altra, e tramite strappo di vesti (fendendo i drappi) aprendola sul davanti (dinanzi l’apria), e mostrando a Dante il di lei (mostravami ’l) ventre; e lo stesso (quel), con il fetore che ne proviene (col puzzo che n’uscia), desta Dante (mi svegliò).
La “femmina balba” starebbe ad allegorizzare l’avarizia, uno dei sette peccati capitali che ottenebra gli sguardi degli uomini illudendo gli stessi di trovar assoluta beltà nei beni materiali, dietro l’illusoria parvenza dei quali giace rivoltante ed effimera realtà, ben lontana dal bene spirituale a cui l’umanità dovrebbe tendere e la cui insalubrità è ben metaforizzata dal ventre della donna e dal “puzzo che n’uscia”.
L’Alighieri la rende bella nel corpo per effetto del suo osservarla, inoltre levandole balbuzie, sgravata della quale la donna si manifesta come seducente sirena fra le reti del cui fascino s’impigliarono i marinai, compreso il mitologico eroe acheo Ulisse, ed ora suggestionando il fiorentin poeta sulla scia del suo melodico cantare, onirico incanto disilluso dall’intervento d’una “donna santa e presta” la quale, fra la miriade d’interpretazioni fornite dai commentatori, potrebbe rappresentare la virtù della Temperanza.
Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: «Almen tre | |
voci t’ ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; | |
36 | troviam l’aperta per la qual tu entre». |
Dante apre gli (Io mossi li) occhi, e il (’l) buon maestro gli rimarca (dicea) d’averlo già chiamato almeno tre volte (Almen tre voci t’ ho messe!), poi incalzandolo ad alzarsi ed a raggiungerlo (Surgi e vieni) allo scopo di trovare (troviam) l’apertura (apertura) per la qual egli possa accedere (tu entre), ossia la successiva scalinata.
Sù mi levai, e tutti eran già pieni | |
de l’alto dì i giron del sacro monte, | |
39 | e andavam col sol novo a le reni. |
L’Alighieri si alza (Sù mi levai), e tutte le Cornici (tutti i giron) del sacro monte sono (eran) già avvolte di luminosità diurna (pieni de l’alto dì), e i due viandanti marciano (andavam) con il sole appena sorto (col sol novo) alle spalle (a le reni).
Avendo il sole dietro di loro, i due peregrini sono rivolti ad ovest.
Seguendo lui, portava la mia fronte | |
come colui che l’ha di pensier carca, | |
42 | che fa di sé un mezzo arco di ponte; |
Seguendo Virgilio (lui), il discepolo porta (portava) la sua (mia) fronte come colui che l’abbia (ha) carica di perplessità (di pensier carca), facendo del corpo (che fa di sé) un mezzo arco di ponte;
Dante cammina a capo chino, come sopraffatto da opprimenti perplessità.
quand’io udi’ «Venite; qui si varca» | |
parlare in modo soave e benigno, | |
45 | qual non si sente in questa mortal marca. |
quand’d’egli ode (quand’io udi’ ): “Venite; qui si valica” (Venite; qui si varca), pronunciato con cotanta soavità e benevolenza (parlare in modo soave e benigno), da non aver pari in in questo mondo terrestre (qual non si sente in questa mortal marca).
La “marca” era, nel Sacro Romano Impero, un feudo di confine concesso dall’imperatore a marchesi particolarmente meritevoli, termine ivi utilizzato in similitudine al Purgatorio come zona di passaggio fra la dimensione terranea e la celeste.
Con l’ali aperte, che parean di cigno, | |
volseci in sù colui che sì parlonne | |
48 | tra due pareti del duro macigno. |
Con l’ali aperte, che sembrano (parean) quelle d’un cigno, l’angelo (colui) che così ha parlato ai due viandanti (sì parlonne) li direziona verso l’alto (volseci in sù colui), fra le due pareti del roccioso promontorio (del duro macigno).
Mosse le penne poi e ventilonne, | |
‘Qui lugent’ affermando esser beati, | |
51 | ch’avran di consolar l’anime donne. |
Egli muove poi le ali (penne), facendone vento dinnanzi ai due (e ventilonne), affermando esser beati coloro che piangono (Qui lugent), dato che le loro (ch’avran di consolar l’) anime saranno consolate (donne).
A parlare è l’Angelo della sollecitudine, che con sbatter d’ali cancella dalla fronte dell’Alighieri la quarta P, contemporaneamente parafrasando l’evangelista Matteo: ‘Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur’, «Beati quelli che piangono perché saranno consolati».
«Che hai che pur inver’ la terra guati?», | |
la guida mia incominciò a dirmi, | |
54 | poco amendue da l’angel sormontati. |
La paterna guida chiede poi al suo protetto (la guida mia incominciò a dirmi) che abbia mai da fissar incessantemente il suolo (Che hai che pur inver’ la terra guati?), non appena ambedue sopraelevatisi, rispetto al messo celeste, di pochi scalini (poco amendue da l’angel sormontati).
E io: «Con tanta sospeccion fa irmi | |
novella visïon ch’a sé mi piega, | |
57 | sì ch’io non posso dal pensar partirmi». |
E Dante (io) risponde che a farlo marciare pressato da immane trepidazione (Con tanta sospeccion fa irmi) è il precedente e nuovo sogno (novella visïon) che cattura tutta la sua attenzione (ch’a sé mi piega), per modo ch’egli non riesce a distoglierne pensiero (sì ch’io non posso dal pensar partirmi).
«Vedesti», disse, «quell’antica strega | |
che sola sovr’a noi omai si piagne; | |
60 | vedesti come l’uom da lei si slega. |
Virgilio prende parola spiegandogli ch’egli ha visto (vedesti) quell’antica ammaliatrice (strega) i cui malefici sono gli unici ad esser pianti nella Cornice a loro sovrastante (che sola sovr’a noi omai si piagne) e constatato (vedesti) come l’uomo (uom) s’affranchi (si slega).
Il vate si riferisce ai tre sortilegi riagganciandosi alle tre colpe che verranno castigate nelle successive tre Cornici, ovvero avarizia-prodigalità, golosità e lussuria.
Bastiti, e batti a terra le calcagne; | |
li occhi rivolgi al logoro che gira | |
63 | lo rege etterno con le rote magne.» |
Egli si raccomanda poi che al suo allievo sia sufficiente questa prima spiegazione (Bastiti) e che pertanto muova il passo (batti a terra le calcagne); infine incitandolo a rivolgere gli (li) occhi al richiamo (logoro) che il re eterno (lo rege etterno) professa (gira) attraverso la rotazione del firmamento (le robe magne).
Il sostantivo “logoro” già fece capolino al centoventottesimo versetto del diciassettesimo Canto infernale, riferendosi al piccolo ed artificioso passero costruito dai falconieri per richiamare il falcone: “Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»”
Quale ’l falcon, che prima a’ piè si mira, | |
indi si volge al grido e si protende | |
66 | per lo disio del pasto che là il tira, |
tal mi fec’io; e tal, quanto si fende | |
la roccia per dar via a chi va suso, | |
69 | n’andai infin dove ’l cerchiar si prende. |
Similmente ad un falcone (Quale ’l falcon) che in un primo momento guarda in basso (prima a’ piè si mira), indi si volge al grido del falconiere e si lancia (protende) per la smania (lo disio) del cibo che lo attrae (là il tira), analogamente si comporta Dante (tal mi fec’io); e con simile lestezza (tal), se ne va per la pietrosa fenditura ospitante la scala per chi debba risalire (n’andai quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso), fino a (infin) dove il tragitto riprende ad essere circolare (dove ’l cerchiar si prende).
L’Alighieri effettua lesta scalata finito ad arrivar sul suolo delle seguente balza purgatoriale.
Com’io nel quinto giro fui dischiuso, | |
vidi gente per esso che piangea, | |
72 | giacendo a terra tutta volta in giuso. |
Come Dante si trova nella quinta Cornice (Com’io nel quinto giro fui dischiuso), vede anime (gente) sparse (per) in essa che piangono (piangea), giacendo a terra completamente rivolte al suolo (tutta volta in giuso).
‘Adhaesit pavimento anima mea’ | |
sentia dir lor con sì alti sospiri, | |
75 | che la parola a pena s’intendea. |
L’Alighieri le ode pronunciare (sentia dir lor) ‘Adhaesit pavimento anima mea’ sospirando con tale intensità (con sì alti sospiri), da percepirsi a malapena le parole (che la parola a pena s’intendea).
‘Adhaesit pavimento anima mea’, «È prostrata a terra l’anima mia», incipit di quarta strofa del Salmo numero 118, tuttavia nel biblico passaggio intendendosi la posizione prona simbolica dell’abbandono alla preghiera, dunque ben diversa, nella motivazione, da quella in cui sono obbligati avari e prodighi.
«O eletti di Dio, li cui soffriri | |
e giustizia e speranza fa men duri, | |
78 | drizzate noi verso li alti saliri.» |
“O letti da (di) Dio, i cui tormenti (li cui soffriri) vengono placati (fa men duri) tanto (e) dalla giustizia quanto (e) dalla speranza, indirizzateci verso il punto in cui si può salire verso la vetta (drizzate noi verso li alti saliri) della montagna”.
Nel richiedere informazioni, Dante sottolinea il concetto del supplizio sopportato in virtù della cieca fiducia nella giustizia dell’Altissimo ed in fede alla speranza di prossima redenzione.
«Se voi venite dal giacer sicuri, | |
e volete trovar la via più tosto, | |
81 | le vostre destre sien sempre di fori.» |
“Se voi peregrinate liberi dalla coercizione del dover rimanere carponi (venite dal giacer sicuri), e volete intraprendere il percorso più celere (trovar la via più tosto), proseguite mantenendo lo strapiombo perennemente sulla vostra destra (le vostre destre sien sempre di fori).
Così pregò ’l poeta, e sì risposto | |
poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io | |
84 | nel parlare avvisai l’altro nascosto, |
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: | |
ond’elli m’assentì con lieto cenno | |
87 | ciò che chiedea la vista del disio. |
Questa la preghiera di Virgilio (Così pregò ’l poeta), e questa la riposta giunta da uno spirito poco distante dai due viaggiatori (e sì risposto poco dinanzi a noi ne fu); responso in base a cui l’Alighieri (per ch’io), seguendo il discorso (nel parlare), riesce a discernere (avvisai) la parte nascosta dalla quale provengono le parole (l’altro nascosto), quindi rivolge lo sguardo verso quello del suo signore (e volsi li occhi a li occhi al segnor mio): ond’egli gli concede, con accondiscendente accenno (elli m’assentì con lieto cenno), di poter fare ciò che la sua brama dà a vedere (ciò che chiedea la vista del disio).
Dante è smanioso di poter conversare com quell’anima, ma elevato riguardo nei confronti del suo maestro lo porta ad interrogarne disponibilità tramite scambio d’occhiate, da cui deriva, immediata e rassicurante approvazione.
Poi ch’io potei di me fare a mio senno, | |
trassimi sovra quella creatura | |
90 | le cui parole pria notar mi fenno, |
dicendo: «Spirto in cui pianger matura | |
quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi, | |
93 | sosta un poco per me tua maggior cura. |
Potendo dunque l’Alighieri comportarsi secondo sua volontà (Poi ch’io potei di me fare a mio senno), s’appressa a quel penitente (trassimi sovra quella creatura) che le precedenti (prima) parole avevano dato modo d’individuare (le cui parole pria notar mi fenno), affermando (dicendo): “Spirito nel quale il piangere fa maturare (Spirto in cui pianger matura) il pentimento senza cui (quel sanza ’l quale) sarebbe impossibile riunirsi (tornar non pòssi) a Dio, sospendi un istante (sosta un poco) per me il tuo principale affanno (tua maggior cura).
È ovviamente primario interesse degli spiriti d’ardentemente ed incessantemente adoperarsi per emendare il più in fretta possibile le proprie condotte mondane, giungendo a desiata purificazione.
Chi fosti e perché vòlti avete i dossi | |
al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri | |
96 | cosa di là ond’io vivendo mossi». |
Dimmi (mi dì) chi fosti e perché avete le spalle (i dossi) girate all’insù (vòlti al sù) e se desideri (vuo’) ch’io ottenga qualcosa per te (t’impietri cosa) nel mondo da cui son venuto amor vivente (di là ond’io vivendo mossi).
Per riconoscenza, Dante si propone d’intercedere tramite preghiera, una volta riapprodato sulla terra.
Ed elli a me: «Perché i nostri diretri | |
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima | |
99 | scias quod ego fui successor Petri. |
Ed egli all’Alighieri (elli a me): “Verrai a conoscenza (saprai) del motivo per cui le nostre schiene sono rivolte al (Perché i nostri diretri rivolga il) cielo; ma prima sappi ch’io fui successore di San Pietro (scias quod ego fui successor Petri).
L’anima si dichiara come colui che in vita ricoprì la carica di pontefice.
Intra Sïestri e Chiaveri s’adima | |
una fiumana bella, e del suo nome | |
102 | lo titol del mio sangue fa sua cima. |
Fra Sestri Levante e Chiavari (Intra Sïestri e Chiaveri) scende (s’adima) a mare un bel fiumiciattolo (una fiumana bella), e del suo nome s’adorna in alto (fa sua cima) il blasone del mio casato (lo titol del mio sangue).
Il torrente in questione ha nome d’Entella, appellativo corrispondente a quello che fu posto nella parte superiore dello stemma di casata.
Un mese e poco più prova’ io come | |
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, | |
105 | che piuma sembran tutte l’altre some. |
Per poco più d’un mese sperimentai personalmente (prova’ io) quanto siano grevi (come pesa) gli ornamenti papali (gran manto) a colui ch’ambisca salvaguardarli (a chi il guarda) dal disonore (fango), al punto che qualsiasi altro incarico (tutte l’altre some) appare (sembran) lieve quanto una piuma.
La mia conversïone, omè!, fu tarda; | |
ma, come fatto fui roman pastore, | |
108 | così scopersi la vita bugiarda. |
Tardiva (tarda) fu, ahimè (omè)!, la mia conversione; ma, subito dopo esser stato eletto vescovo di Roma (come fatto fui roman pastore), ebbi modo di scoprire (così scopersi) quant’è menzognera (bugiarda) la vita terrena.
Vidi che lì non s’acquetava il core, | |
né più salir potiesi in quella vita; | |
111 | per che di questa in me s’accese amore. |
Appurai (Vidi) che in quel frangente (lì) il mio cuore (core) non trovava sollievo (non s’acquetava), tantomeno in quella vita mortale m’era concesso d’elevarmi maggiormente (né più salir potiesi); pertanto (per che) m’innamorai sentitamente (in me s’accese amore) di questa vita eterna.
Fino a quel punto misera e partita | |
da Dio anima fui, del tutto avara; | |
114 | or, come vedi, qui ne son punita. |
Fin a quel momento (punto) fui anima miserabile e distante (misera e partita) da Dio, totalmente (del tutto) avara; or, come puoi vedere (vedi), qui ne subisco pena (son punita).
Al nome d’Ottobono di Teodisco Fieschi dei conti di Lavagna (1205-1276), il personaggio descritto fu il papa cattolico Adriano V, in carica per trent’otto-trentanove a partir dall’11 luglio del 1276, plausibilmente non passibile d’avarizia, intesa nel senso letterale del termine, in quanto smisuratamente benestante e ricordato come discretamente generoso, può esser dunque sia stato relegato fra gli avari per la sua ambizione, a lui propria fin dall’infanzia, ad indossare vesti papali, tuttavia rimarcando il poema il suo pentimento ante mortem.
Giovanissimo esordio carrieristico in ambito teologico e susseguente posizione d’estremo prestigio negli ambienti ecclesiastici, ove ricoprì più cariche, data l’influenza dello zio Sinibaldo Fieschi (1195-1254), noto come papa Innocenzo IV, egli seppe ben miscelare interesse nei confronti della Chiesa a quello familiare e delle diocesi della Liguria, essendo lo stesso genovese di nascita, inoltre di sotterfugio mantenendo saldi contatti con gli Asburgo nella speranza di riavvicinarli ai d’Angiò, senza tuttavia riuscire nei suoi intenti, perendo lo stesso ancor prima che la sua elezione venisse ufficialmente proclamata.
Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara | |
in purgazion de l’anime converse; | |
117 | e nulla pena il monte ha più amara. |
In codesta Cornice (Qui) si palesano (dichiara) le conseguenza dell’avarizia (Quel ch’avarizia fa) attraverso l’espiazione (in purgazion) delle (de l’) anime convertite (converse); e in tutto il Purgatorio non v’è nessuna una punizione tanto avvilente (nulla pena il monte ha più amara).
Sì come l’occhio nostro non s’aderse | |
in alto, fisso a le cose terrene, | |
120 | così giustizia qui a terra il merse. |
Siccome (Sì come) il nostro sguardo (l’occhio) non fu un grado d’innalzarsi (non aderse in alto), restando fisso ai beni materiali (a le cose terrene), così la decreto celeste l’ha immerso nel fango (qui a terra il merse).
Come avarizia spense a ciascun bene | |
lo nostro amore, onde operar perdési, | |
123 | così giustizia qui stretti ne tene, |
ne’ piedi e ne le man legati e presi; | |
e quanto fia piacer del giusto Sire, | |
126 | tanto staremo immobili e distesi». |
Come l’avarizia smorzò (spense) il (lo) nostro amore nei confronti d’ogni (ciascun) bene spirituale, la cui conseguenza fu la perdita delle nostre azioni (onde operar perdési), così giustizia divina ci costringe (ne tiene stretti) in questo luogo (qui), legati e ed inibiti (presi) in (ne’) mani e piedi; e per tutto il tempo che garberà al Signore dei giusti (quanto fia piacer del giusto Sire), tanto rimarremo (staremo) immobilizzati coricati (immobili e distesi).
Evidentissimo il contrappasso per analogia.
Io m’era inginocchiato e volea dire; | |
ma com’io cominciai ed el s’accorse, | |
129 | solo ascoltando, del mio reverire, |
«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». | |
E io a lui: «Per vostra dignitate | |
132 | mia coscïenza dritto mi rimorse». |
Dante s’è (Io m’era) inginocchiato e vorrebbe parlare (volea dire); ma appena iniziato a farlo (com’io cominciai) il peccatore s’accorge (ed el s’accorse), solamente attraverso l’ascolto (solo ascoltando), della genuflessone di Dante (del mio reverir), quindi domandandogli (disse) quale sia la cagione per la qual egli sia piegato in giù a quel modo (Qual cagion in giù così ti torse?). Dante gli risponde (E io a lui) d’averlo fatto in atto di reverenza alla sua figura spirituale (Per vostra dignitate) di fronte a cui il rimaner dritto gli avrebbe rimorso (mi rimorse) la coscienza.
L’anima si rende conto della posizione dell’Alighieri percependo la sua voce maggiormente vicina.
«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», | |
rispuose; «non errar: conservo sono | |
135 | teco e con li altri ad una podestate. |
“Raddrizza (drizza) le gambe, alzati suvvia, fratello (lèvati sù, frate)!”, risponde (rispuose) lo spirito; “non cadere in errore (no errar): sono servo insieme a te (conservo teco) e con tutti gli (li) altri di un’unica autorità suprema (podestate).
Se mai quel santo evangelico suono | |
che dice ‘Neque nubent’ intendesti, | |
138 | ben puoi veder perch’io così ragiono. |
Se mai tu abbia ben compreso (intendesti) quella santa parole evangelica (quel santo evangelico suono) che asserisce (dice) ‘Neque nubent’, ti sarà oltremodo comprensibile il mio ragionamento (ben puoi veder perch’io così ragiono).
‘Neque nubent, e quella nubentur’, «Né sposeranno, né saranno sposati», enunciato evangelico, secondo Matteo, con cui Gesù si rivolge ai sadducei (i quali avevano lui sottoposto un ingannevole quesito sulla resurrezione, chiedendo chi avrebbe sposato una donna vedova per sette volte, poi morta lei stessa, una volta risorta) sottolineando la sacrosanta uguaglianza d’ogni uomo di fronte a Dio, indipendentemente dalla posizione ricoperta in fase di vita.
Vattene omai: non vo’ che più t’arresti; | |
ché la tua stanza mio pianger disagia, | |
141 | col qual maturo ciò che tu dicesti. |
Ormai puoi andare (Vattene omai): non desidero che tu ti rattenga oltre (non vo’ che più t’arresti), poiché il tuo sostare qui mi leva agio al pianto (ché la tua stanza mio pianger disagia) però mezzo del quale (col qual) porto a maturazione (maturo) la penitenza alla quale tu accennasti (ciò che tu dicesti).
Nepote ho io di là c’ha nome Alagia, | |
buona da sé, pur che la nostra casa | |
144 | non faccia lei per essempro malvagia; |
Sul mondo (di là) io ho una nipote (nepote) che si chiama (c’ha nome) Alagia, d’insita bontà (buona da sé), salvo che la nostra famiglia (pur che la nostra casa) non la conduca alla malvagità con il suo esempio (non faccia lei per essempro malvagia);
Alagia Fieschi, donna ricordata come particolarmente buona e virtuosa, fu nipote di Adriano V, in quanto figlia del di lui fratello Nicolò (1230?-1309?) e sposa del condottiero, militare e marchese Morello Malaspina (ca. 1268-1315), che Dante conobbe probabilmente durante una suo viaggio in Lunigiana.
145 | e questa sola di là m’è rimasa.» |
e lei sola di là m’è rimasta (rimasa)”.
Allontanamento dell’alighieri da Adriano V corrisponde a balzo di Canto, ove lo scrittore esordisce asserendo: “Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra ’l piacer mio, per piacerli, trassi de l’acqua non sazia la spugna…”
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