Divina Commedia: Purgatorio, Canto XIV
Giovanni, il Piccio, Carnovali (1804-1873), Dante compone la Divina Commedia
I due viaggiatori si trovano ancora in seconda Cornice e sempre fra gli invidiosi, due dei quali, negli spiriti di Guido del Duca e Ranieri da Calboli, aprono il Canto in battuta, completamente sbalorditi dal percepir nel pellegrino una persona ancor vivente, dunque decidendo di chiedergli come ciò sia possibile e di presentarsi a loro, inaspettatamente trovandosi di fronte ad un Alighieri reticente sia a rivelar la propria identità, sia ad indicar esplicitamente luogo natio, tuttavia comprendendo dalla vaga descrizione ch’egli stia parlando delle terre dell’Arno.
Ciò appurato, dopo celere confronto verbale fra le due anime, Guido afferra parola enunciando la generalizzata depravazione della vallata, poi preannunciando sfavorevole evento riguardante il nipote di Ranieri, frattanto incuriosendo il discepolo riguardo alle loro identità, chiedendo le quali lo stesso viene soddisfatto nell’immediato, poi captando nuovamente Guido la sua attenzione nel tratteggiare una sfilza di personalità passate, meritevoli di memoria ed esemplari, purtroppo difficilmente simulabili, data la degenerazione dell’intera Romagna, alla quale il penitente dedica il suo sermone con una quantità tale di pathos, da terminarlo in desiderio di silenzio, al fin d’accoccolarsi fra lacrime e nostalgia.
Virgilio ed il suo protetto proseguono dunque il loro tragitto, intimorendosi nell’udire due improvvise voci dall’immane rigore, che rappresentano staffilate di carità che giungono sulla coppia d’esempi d’Invidia punita, sulle quali il maestro coglie l’occasione di rimembrar al suo allievo quanto l’uomo non debba mai superare determinati limiti, per non deragliar dalla retta via.
Rettitudine ed amorevolezza le due sfumature del Virgilio di fine Canto, sciolte fra l’impegno nel trasmettere a Dante raccomandazioni finalizzate a raggiungimento della sua grazia e la disponibilità ad allargarsi in abbraccio ogni volta ch’egli si trovi smarrito nelle sue frequenti trepidazioni.
D’interessante rilievo l’immaginario ponte fra codesto Canto ed il corrispondente dell’Inferno, ivi suddividendo il vallone in quattro fasce, in una sorta di simmetria con l’impianto idrografico dell’oltretomba, in cui s’alternano i fiumi Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, ove, in maniera assolutamente correlata agli abitanti del Valdarno, rispettivamente sono relegati i porci incontinenti, gli iracondi ringhianti, i lupi assassini e le volpi traditrici, a riprova del fatto che la mente dantesca è un intricato labirinto di meravigliose fantasticherie, ricamate con inchiostro dalle mille sfumature e perennemente affascinanti, fra enigmaticità ed oratoria.
«Chi è costui che ’l nostro monte cerchia | |
prima che morte li abbia dato il volo, | |
3 | e apre li occhi a sua voglia e coverchia?» |
“Chi è costui che marcia in tondo sulla montagna del Purgatorio (’l nostro monte cerchia) ancor prima d’esser morto (che morte li abbia dato il volo), aprendo e chiudendo gli (e apre e coverchia li) occhi a suo piacimento (a sua voglia)?”.
«Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo; | |
domandal tu che più li t’avvicini, | |
6 | e dolcemente, sì che parli, acco’ lo.» |
“Non so chi sia, ma so ch’(egli)e’ non è solo; interrogalo (domamdal) tu che gli sei più vicino (più li t’avvicini), ad accoglilo (acco’ lo) garbatamente (dolcemente), per modo (sì) che parli)”.
Così due spirti, l’uno a l’altro chini, | |
ragionavan di me ivi a man dritta; | |
9 | poi fer li visi, per dirmi, supini; |
Così due spiriti (spirti), chinati (chini) l’uno verso (a) l’altro, stanno conversando di Dante, rimanendogli sulla destra (ivi a man dritta); poi puntano i volti (fer li visi) scialbi (supini) verso di lui, per rivolgergli la parola (dirmi);
e disse l’uno: «O anima che fitta | |
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai, | |
12 | per carità ne consola e ne ditta |
onde vieni e chi se’; ché tu ne fai | |
tanto maravigliar de la tua grazia, | |
15 | quanto vuol cosa che non fu più mai». |
il primo dei due dicendo (e disse l’uno): “O anima che ancora unita (fitta) al (nel) corpo procedi (ten vai) verso il cielo (lo ciel), sii caritatevole (per carità) nel consolarci e spiegarci con precisione (ne consola e ne ditta) da dove provieni (onde vieni) e chi sei (se’); poiché in noi suscita cotanto sbalordimento il constatar l’indulgenza che t’è stata concessa (ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia), stupore che si manifesta di fronte a quanto mai successo prima (quanto vuol cosa che non fu più mai)”.
«Per mezza Toscana si spazia | |
un fiumicel che nasce in Falterona, | |
18 | e cento miglia di corso nol sazia. |
In risposta il pellegrino: “Per mezza Toscana si distende (spazia) un fiume (fiumicel) che s’origina (nasce) sul (in) Falterona, non accontentandosi (non sazia) d’un (di) corso di cento miglia.
La lunghezza dell’Arno è di circa 241 chilometri; rapportando la sua misura al meglio fiorentino, corrispondente a 1665 metri, se ne deduce esser lo stesso più lungo di cento miglia.
Di sovr’esso rech’io questa persona: | |
dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno, | |
21 | ché ’l nome mio ancor molto non suona». |
Da una città posizionata al di sopra d’(Di sovr’)esso io conduco la mia (rech’io questa) persona: rivelarvi ch’io (dirvi ch’i’) sia, sarebbe (sarai) parlare invano (indarno), essendo che la mia nomea ancor particolarmente diffusa (ché ’l nome mio ancor molto non suona)”.
Un “ancor”, che potrebbe esser letto in chiave di lieve superbia, da parte dell’Alighieri, sussurrato in questa terzina che si contrappone alla quarantacinquesima e quarantaseiesima del precedente Canto, nella quale l’autore aveva tuttavia manifestato estrema sincerità nel sentirsi predestinato alla prima Cornice, per l’appunto quella dei superbi: “Li occhi”, diss’io, “mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l’offesa fatta per esser con invidia vòlti. Troppa è più la paura ond’è sospesa l’anima mia del tormento di sotto, che già lo ’ncarco di là giù mi pesa”.
«Se ben lo ’ntendimento tuo accarno | |
con lo ’ntelletto», allora mi rispuose | |
24 | quei che diceva pria, «tu parli d’Arno.» |
“Se attraverso il mio intuito (con lo ’ntellettolo) sono riuscito a cogliere nel pieno (ben accarno) ciò che intendevi dire (lo ’ntendimento tuo)”, gli risponde (mi rispuose) il penitente che aveva parlato per primo (quei che diceva pria), “tu ti riferisci (parli) all’(d’)Arno”.
E l’altro disse lui: «Perché nascose | |
questi il vocabol di quella riviera, | |
27 | pur com’om fa de l’orribili cose?». |
E l’altro gli domanda (lui disse): “Perché mai costui (questi) ha omesso di specificare (nascose) il nome di quel corso d’acqua (vocabol di quella riviera), come solitamente ci si comporta nei confronti delle questioni che inorridiscono (pur com’om fa de l’orribili cose)?”
E l’ombra che di ciò domandata era, | |
si sdebitò così: «Non so; ma degno | |
30 | ben è che ’l nome di tal valle pèra; |
E l’anima (l’ombra) alla quale è stato posto il quesito (che di ciò domandata era), in tal maniera controbatte (si sdebitò così): “Non so; ma è legittimo (degno be è) che il (’l) nome della (di) tal vallata (valle) sparisca (pèra);
La “tal valle” indica l’intera zona del Valdarno.
ché dal principio suo, ov’è sì pregno | |
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro, | |
33 | che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno, |
infin là ’ve si rende per ristoro | |
di quel che ’l ciel de la marina asciuga, | |
36 | ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro, |
vertù così per nimica si fuga | |
da tutti come biscia, o per sventura | |
39 | del luogo, o per mal uso che li fruga: |
ond’ hanno sì mutata lor natura | |
li abitator de la misera valle, | |
42 | che par che Circe li avesse in pastura. |
poiché dalla sua foce (ché dal principio suo), dove (ov’) la ripida catena montuosa (l’alpestro monte), dalla quale s’è disgiunto (ond’è tronco) il promontorio del Peloro, è talmente piena d’acqua (sì pregno) da esserlo maggiormente in pochi altri punti (che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno), fino alla zona dove (infin là ’ve) si rende al mare per ricompensarlo (ristoro) di quanto la sfera solare (’l ciel) gli ha tolto per evaporazione (de la marina asciuga), donando ai (ond’ hanno i) fiumi le acque che loro stessi trasportano (ciò che va con loro), la virtù (vertù), come fosse un nemico (per nemica), vien rifuggita dalla totalità degli uomini (si fuga da tutti) come fosse una una serpe (biscia), per una sorta dei sciagurata particolarità geografica (o per sventura del luogo), oppure per scostumatezza (o per mal uso) che ossessiona (fruga) gli (li) abitanti (abitatori) di questo sventurato (de la misera valle) vallone, per modo (così) ch’(ond’)essi (li), hanno contraffatto a tal punto la loro (sì mutata lor) natura, da parere (che par) come animali tenuti al pascolo da (che li avesse in pastura) Circe.
Con “Peloro” si richiama lo stretto di Messina, generato dalla spaccatura tellurica del versante appenninico, il Peloro sarebbe infatti l’odierna punta del Faro che, situata sui monti Peloritani, dà sullo stretto.
“Per mal uso” sottolinea la facoltà di libero arbitrio con la quale l’umanità può scegliere d’operare con azioni benefiche o malefiche.
Della maga Circe, che tramuta i propri ospiti in bestia, accenno è presente a partir dal versetto novantuno del ventiseiesimo Canto infernale.
Tra brutti porci, più degni di galle | |
che d’altro cibo fatto in uman uso, | |
45 | dirizza prima il suo povero calle. |
Il Valdarno, instrada dapprima (drizza prima) il suo smilzo percorso (povero calle) tra orrendi maiali (brutti porci), più degni di ghiande (galle) che d’altra vivanda per cristiani (d’altro cibo fatto in uman uso).
L’epiteto “brutti porci” è destinato ai casentinesi.
Botoli trova poi, venendo giuso, | |
ringhiosi più che non chiede lor possa, | |
48 | e da lor disdegnosa torce il muso. |
Poi, discendendo (venendo giuso), incontra dei botoli, ringhiosi più di quanto sia lor concesso d’essere in base alle loro forze (più che non chiede lor possa), dai quali (e da lor) la valle, sdegnata (disdegnosa) nell’annusarli, si ritorce e devia (torce il muso).
Nomignolo canino è invece rivolto agli aretini, considerati alla stregua di “botoli”, ossia minuscoli cani con spiccata indole al ringhio.
Vassi caggendo; e quant’ella più ’ngrossa | |
tanto più trova di can farsi lupi | |
51 | la maladetta e sventurata fossa. |
Procede in discesa (Vassi caggendo), l’esecrabile e malaugurata vallata (la maladetta e sventurata fossa); e quant’ella più s’ingrossa (’ngrossa), tanto più trova cani trasformatisi (di can farsi) in lupi.
Soprannome di “lupi” vien riservato ai fiorentini, per ferocia e concupiscenza.
Discesa poi per più pelaghi cupi, | |
trova le volpi sì piene di froda, | |
54 | che non temono ingegno che le occùpi. |
Declinata (discesa) poi per bacini (pelaghi) più oscuri (cupi), ella trova volpi talmente sature di frode (sì piene di froda), da non temer (che non temono) minimamente che alcun stratagemma possa imprigionarle (ingegno che le occùpi).
I “pelaghi cupi” verosimilmente dovrebbero essere i bacini profondi per cui l’Arno fluisce nel suo corso inferiore tra Signa e Montelupo, giungendo poi lì dove come “volpi” vengono considerati da Dante i pisani, falsi e calcolatori, utilizzando metafora d’una trappola medievale per uccelli per descriverne l’astuzia, priva di qualsiasi titubanza nel manifestarsi, certa di non poter esser bloccata.
Né lascerò di dir perch’altri m’oda; | |
e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta | |
57 | di ciò che vero spirto mi disnoda. |
Non smetterò di parlare (Né lascerò di dir) perché costui al mio fianco mi sente (perch’altri m’oda); e a quest’altro (costui) gioverà (buon sarà), qualora si rammenterà a suo tempo (s’ancor s’ammenta) di ciò che spirito di verità (vero) m’ha palesato dentro (mi disnoda).
Il “costui” al quale accenna il peccatore è ovviamente l’Alighieri.
Io veggio tuo nepote che diventa | |
cacciator di quei lupi in su la riva | |
60 | del fiero fiume, e tutti li sgomenta. |
In seguito l’anima parlante si rivolge al suo compagno di penitenza, lui dicendo: “Io vedo (veggio) tuo nipote (nepote) divenir cacciatore (che diventa cacciator) di quei lupi che stanno sulla sponda (in su la riva) di quel ferino (fiero) fiume, terrorizzandoli (e li sgomenta) tutti.
Il “nepote” in questione sarebbe il galantuomo forlivese Fulcieri de’ Calboli, casata dei Paolucci, per l’appunto castellani di Calboli, ricordato per l’assoluta brutalità che lo contraddistinse, a fatale discapito dei guelfi bianchi, nel 1303, quando fu podestà di Firenze, privo d’alcuna remora nel far crudelmente decapitare chiunque ritenesse un probabile pericolo nei confronti del proprio ruolo politico.
Vende la carne loro essendo viva; | |
poscia li ancide come antica belva; | |
63 | molti di vita e sé di pregio priva. |
Egli commercia le loro carni ancor vive (Vende la carne loro essendo viva); poi li trucida come si macellavano antiche belve (poscia li ancide come antica belva); priva molti della vita e se stesso dell’onore (sé di pregio).
Dopo pia interpretazione potrebbe avere l’espressione “antica belva”, ovvero riferirsi tanto a remote bestie mitologiche, quanto, più semplicemente, a vecchi animali.
Sanguinoso esce de la trista selva; | |
lasciala tal, che di qui a mille anni | |
66 | ne lo stato primaio non si rinselva». |
Completamente insanguinato (sanguinoso) fuoriesce della mesta (trista) selva; lasciandola in un tale squallore (lasciala tal), che da (di) qui a mille anni non sarà riuscita a ritornare nella sua rigogliosa condizione originaria (ne lo stato primaio non si rinselva).
La “trista selva” è epiteto utilizzato per Firenze, considerata tana di lupi la cui desolazione si protrarrà per secoli.
Com’a l’annunzio di dogliosi danni | |
si turba il viso di colui ch’ascolta, | |
69 | da qual che parte il periglio l’assanni, |
così vid’io l’altr’anima, che volta | |
stava a udir, turbarsi e farsi trista, | |
72 | poi ch’ebbe la parola a sé raccolta. |
Come di fronte alla profezia d’infausti eventi (Com’a l’annunzio di dogliosi danni) l’espressione di colui che si trova all’ascolto (il viso di colui ch’ascolta) si corruccia (turba), in quanto inconsapevole della direzione da cui il pericolo (da qual che parte il periglio) lo intrappolerà nella sua morsa (l’assanni), similmente (così) Dante vede (vid’io) l’altro spirito (altr’anima), che fisso (volta) nell’ascolto (a udir), s’inquieta e si deprime (turbarsi e farsi trista), non appena colto il senso intrinseco di quelle parole (poi ch’ebbe la parola a sé raccolta).
Lo dir de l’una e de l’altra la vista | |
mi fer voglioso di saper lor nomi, | |
75 | e dimanda ne fei con prieghi mista; |
Il discorso dell’uno e la visione dell’altro spirito (Lo dir de l’una e de l’altra la vista) origina nel poeta la brama di scoprirne le identità (mi fer voglioso di saper lor nomi), pertanto chiedendo loro di svelargliele, pregandoli (e dimanda ne fei con prieghi mista);
per che lo spirto che di pria parlòmi | |
ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca | |
78 | nel fare a te ciò che tu far non vuo’ mi. |
a codesta supplica il peccatore, che poco prima aveva parlato, (per che lo spirto che di pria parlòmi), riprende la parola (ricominciò) rispondendo: “Tu desideri ch’io m’induca (vuo’ ch’io mi deduca) nel fare ciò che tu non vuoi fare per me (far non vuo’ mi).
Ma da che Dio in te vuol che traluca | |
tanto sua grazia, non ti sarò scarso; | |
81 | però sappi ch’io fui Guido del Duca. |
Ma dato che, secondo volontà divina, in te riluce (in te vuol che traluca) intensamente (tanto) la grazia di Dio (sua), non ti sarò parsimonioso (scarso) nella risposta; sappi perciò (però) ch’io fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso, | |
che se veduto avesse uom farsi lieto, | |
84 | visto m’avresti di livore sparso. |
Il mio sangue fu a tal punto arso (sì rïarso) d’invidia, che s’io avessi visto qualcuno rallegrarsi (se veduto avesse uom farsi lieto), tu m’avresti visto divenir totalmente violaceo (di livore sparso) dal rancore.
Il “livore” è conseguenza di meccanismo inverso rispetto al pallore, rendendo paonazzo, per vasocostrizione periferica, chi si trovi soggetto a forti emozioni trattenute, come nello specifico, una collera smisurata.
Di mia semente cotal paglia mieto; | |
o gente umana, perché poni ’l core | |
87 | là ’v’è mestier di consorte divieto? |
Di ciò che seminai (mia semente) mieto questa penitenza (cotal paglia); o uomini (gente umana), perché ambite tanto (poni ’l core) a cose ove la partecipazione altrui (là ’v’è mestier di consorte) viene respinta (divieto)?
Arcano interrogativo sospeso nella purgatoriale atmosfera a cui non viene fornita una delucidazione immediata a riguardo, ma la savia guida ne fornirà esaustiva spiegazione nel Canto successivo.
Del ghibellino Guido del Duca notizie storiche non son per nulla copiose, se non altro risultando che in gioventù lo stesso, nel 1177, si trasferì da Ravenna a Bertinoro, per motivi ereditari, ivi trascorrendo un quarantennio in serena piacevolezza, fino ad espulsione per mano dei guelfi; componente della famiglia degli Onesti del duca di Ravenna, pare che la sua attitudine all’invidia fosse incorreggibilmente illimitata, pecca per la quale egli si trova ora simbolicamente a raccogliere quanto seminato in corso d’esistenza.
Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore | |
de la casa da Calboli, ove nullo | |
90 | fatto s’è reda poi del suo valore. |
Quest’altro (Questi) è Ranieri (Rinier); costui è l’orgoglio e il decoro (’l pregio e l’onore) della famiglia (de la casa) da Calboli, nella quale nessuno (ove nullo) ha poi ereditato (fatto s’è reda) la sua nobiltà d’animo (del suo valore).
Rinieri dei Paolucci, signori di Calboli, fu capofila della fazione guelfa di Forlì e gloria del proprio lignaggio, nonché acerrimo nemico tanto di Guido da Montefeltro (1220-1298) — citato nel ventisettesimo Canto dell’Inferno e contro il quale tenterà insurrezione nel 1277 — quanto di Scarpetta degli Ordelaffi (?-1315), della cui dinastia d’opposta frangia, egual Canto ma di Paradiso farà cenno in citazione di “branche verdi”, ossia gli artigli del Leone al centro dello stemma di casata, che ghermiscono le truppe di papa Martino IV in riferimento alla battaglia di Calendimaggio, avvenuta 1 maggio 1282 e quattordici anni più tardi, Rinieri stesso perì combattendo contro i forlivesi ghibellini.
Sua integrità e valore non ramificarono in nessun successore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo, | |
tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno, | |
93 | del ben richesto al vero e al trastullo; |
E non solamente il (pur lo) suo sangue s’è disabbigliato di virtù (fatto brullo), tra il (’l) Po e l’Appennino (’l monte), tra l’Adriatico (la marina) e il (’l) Reno, di quelle necessarie al raggiungimento della verità e del vivere cortese (del ben richesto al vero e al trastullo);
Le caratteristiche racchiuse in “vero e trastullo”, agganciano le cavalleresche virtù medievali della piccola borghesia dell’ultimo periodo del feudalesimo, amante dei piaceri della vita, ma poi non tanto valorosa in contesti battaglieri.
ché dentro a questi termini è ripieno | |
di venenosi sterpi, sì che tardi | |
96 | per coltivare omai verrebber meno. |
dal momento che (ché) all’interno di quest’area romagnola (dentro a questi termini) c’è talmente pieno (ripieno) di velenosi rami secchi (venendosi sterpi), da volerci ormai troppo tempo (sì che tardi omai verrebbe meno), qualora si provasse ad estirparli, nell’intento di rimetterla a coltura (per coltivare).
Ov’è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi? | |
Pier Traversaro e Guido di Carpigna? | |
99 | Oh Romagnuoli tornati in bastardi! |
Dove sono il (Ov’è ’l) buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pietro Traversari (Pier Traversaro) e Guido di Carpigna? Oh Romagnoli (Romagnuoli) mutati (tornati) in bastardi!
Lunga carrellata si srotola su nove terzine fra le quali Guido del Duca lancia un susseguirsi di nostalgici accenni a coloro che furono gentiluomini e lignaggi di Romagna, secondo l’anima purtroppo inimitabili:
Lizio di Valbona, guelfo scomparso nel 1280, celebre per la sua palese sapienza;
Arrigo Mainardi: aristocratico di Ravenna e signore di Bertinoro, dal generoso animo, perito dopo il 1230, legato da intensa amicizia a Guido del Duca;
Pietro Traversaro: titolato bizantino e personalità di massima influenza della Ravenna d’inizio Duecento, oltre podestà per un lunghissimo periodo, dall’abilisssime capacità gestionali, in particolare a proprio vantaggio, alla cui signoria, morto lo stesso nel 1255, si sostituì il figlio Paolo, entrato nelle fila guelfe, in breve tempo portando quando ereditato alla decadenza;
Guido di Carpigna, o di Carpegna: conte guelfo di zona montefeltrana, d’indole convintamente liberale.
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? | |
quando in Faenza un Bernardin di Fosco, | |
102 | verga gentil di picciola gramigna? |
Quando a (in) Bologna sarà possibile che riattecchisca (si ralligna) uno come Fabbro? quando a (in) Faenza un Bernardin di Fosco, nobile (gentil) discendente (verga) di modeste origini (picciola gramigna)?
Fabbro dei Lambertazzi: morto nel 1259, fu capofila dei ghibellini di Bologna;
Bernardin di Fosco: combatté a fianco dei guelfi contro gli imperiali, nel 1240;
Non ti maravigliar s’io piango, Tosco, | |
quando rimembro, con Guido da Prata, | |
105 | Ugolin d’Azzo che vivette nosco, |
Federigo Tignoso e sua brigata, | |
la casa Traversara e li Anastagi | |
108 | (e l’una gente e l’altra è diretata), |
le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi | |
che ne ’nvogliava amore e cortesia | |
111 | là dove i cuor son fatti sì malvagi. |
Non stupirti (ti maravigliar), s’io piango, Toscano (Tosco), quando ricordo (rimembro), com Guido da Prada (Prata), Ugolin d’Azzo che visse (vivete) con noi (nosco), in Romagna, Federigo Tignoso e la sua brigata, il casato (casa) dei Traversari e gli (li) Anastagi, entrambe le famiglie son prive d’eredi ((e l’una gente e l’altra è diretata)), le gentildonne e i cavalieri (e ’ cavalier), le spericolate imprese militari (li affanni) e le agiatezze gentilizie (li agi) che ci spronavano (ne ’nvogliava) ad inseguire amore e cortesia, là dove ora i cuori han ceduto alla malvagità (cuor son fatti sì malvagi).
Guido da Prada, o Prata: originario di Faenza, vissuto fra il Cento ed il Duecento, grandissimo amico di Ugolin d’Azzo, vissuto in Romagna e probabile appartenente alla potente famiglia degli Ubaldini;
Federico Tignoso: cavaliere di Bertinoro, nativo di Rimini, a quanto pare così nominato dalla sua “brigata”, in antitesi di significato, per una folta e bionda capigliatura;
Gli Anastagi furono un’antica famiglie bizantina di Ravenna, di fede ghibellina ed accanita avversaria dei Traversari.
O Bretinoro, ché non fuggi via, | |
poi che gita se n’è la tua famiglia | |
114 | e molta gente per non esser ria? |
O Bretinoro, perché non scappi (fuggi) via, adesso (poi) che la tua casata s’è n’è andata (gita se n’è la tua famiglia), insieme a molte altre (e molta gente) per non corrompersi (esser ria)?
Bretinoro è l’attuale cittadina che si trova su un colle tra Cesena e Folrlì, nella cui piazza ancor oggi viene eretta la ‘colonna delle anella’, lo storico simbolo del ‘ciclo cavalleresco di Bertinoro’.
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; | |
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, | |
117 | che di figliar tai conti più s’impiglia. |
Ben fa Bagnacavallo (Ben fa Bagnacaval), a non lasciare eredi (che non rifiglia); e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di generar (figliar) questi infami (tai) conti ancor s’ostina (più s’impiglia).
I Bagnacavallo riportano alla memoria la famiglia dei Malavicini, originaria dell’entroterra di Ravenna, il cui nome non si protrasse per mancanza di figli, al contrario di quanto avvenne per i conti di Castrocaro e per quelli di Barbiano, estremamente fecondi.
Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio | |
lor sen girà; ma non però che puro | |
120 | già mai rimagna d’essi testimonio. |
Ben farà la dinastia Pagani (Pagan), a non far figli, una volta allontanatosi da loro il diabolico Maghinardo (’l demonio lor sen girà); tuttavia ciò non basterà a levar ombre dalla loro memoria (ma non però che puro già mai rimagna d’essi testimonio).
I Pagani da Susinana, alta valle del Senio, ch’ebbero respiro soltanto alla morte, nel 1302, di Maghinardo, famoso per la sua pessima reputazione;
O Ugolin de’ Fantolin, sicuro | |
è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta | |
123 | chi far lo possa, tralignando, scuro. |
O Ugolino dei Fantolini (Ugolin de’ Fantolin), il (’l) tuo nome è salvo (sicuro), dacché (da che) non ci si (più non s’) aspetta che nessuno lo possa incupire (chi lo possa far scuro), tramite la propria dissolutezza (tralignando).
Ugolino dei Fantolini: dipartitosi nel 1278 e nativo di Cerfignano, in zona faentina, non più soggetto a possibilità d’infamia.
Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta | |
troppo di pianger più che di parlare, | |
126 | sì m’ ha nostra ragion la mente stretta». |
Ma ora (omai) vai (va) via, Toscano; visto che adesso mi consola maggiormente (ch’or mi diletta troppo di) piangere, rispetto a (più che di) parlare, avendomi i nostri discorsi attanagliato la (sì m’ ha nostra ragion stretta) la mente”.
Noi sapavam che quell’anime care | |
ci sentivano andar; però, tacendo, | |
129 | facëan noi del cammin confidare. |
La guida ed il suo protetto sono consapevoli del fatto (Noi sapavam) che quell’anime caritatevoli (care) sentono da che parte loro due si sono incamminati (ci sentivano andar); pertanto (però) i due viandanti danno per sottinteso che il loro silenzio (tacendo), sia una conferma all’aver preso la giusta direzione (facëan noi del cammin confidare).
Poi fummo fatti soli procedendo, | |
folgore parve quando l’aere fende, | |
132 | voce che giunse di contra dicendo: |
‘Anciderammi qualunque m’apprende’; | |
e fuggì come tuon che si dilegua, | |
135 | se sùbito la nuvola scoscende. |
Non appena rimasti (Poi fummo fatti) soli, nel procedere (procedendo) una voce, apparendo come una saetta che fende l’aria (folgore parve quando l’aere fende), giunge incontro a loro (che giunse contra) dicendo: “Mi ucciderà chiunque mi troverà (Anciderammi qualunque m’apprende); subito dopo reggendo come un tuono (e fuggì come tuon) che si dilegua, dopo aver squartato una nube (se sùbito la nuvola scoscende).
“Anciderammi qualunque m’apprende” ricalca quanto urlato da Caino, nella Genesi, dopo l’uccisione del fratello: “Omnis (…) qui invenerit me, occident me”.
Come da lei l’udir nostro ebbe triegua, | |
ed ecco l’altra con sì gran fracasso, | |
138 | che somigliò tonar che tosto segua: |
«Io sono Aglauro che divenni sasso»; | |
e allor, per ristrignermi al poeta, | |
141 | in destro feci, e non innanzi, il passo. |
Come l’udito dei due poetanti raggiunge tregua dalla stessa (Come da lei l’udir nostro ebbe triegua), indi senza più sentirla, eccone arrivarne una seconda (ed ecco l’altra) con annesso frastuono così potente (sì gran fracasso), da parer un tuono che ad un altro si sovrappone (somigliò tonar che tosto segua), dire: “Io sono Aglauro che divenni sasso”; al che (e allor) l’Alighieri, per addossarsi a Virgilio (per ristrignermi al poeta), invece che camminare in avanti, si sposta verso destra (in destro feci, e non innanzi, il passo).
Protagonista dell’ovidiane Metamorfosi, Aglauro è una giovane ateniese che, infinitamente invidiosa della sorella Ersa, tenta in tutti i modi d’intralciarne le nozze con Mercurio, infine persuadendo la divinità a pietrificarla.
Già era l’aura d’ogne parte queta; | |
ed el mi disse: «Quel fu ’l duro camo | |
144 | che dovria l’uom tener dentro a sua meta. |
L’aria s’è ormai chetata per intero (Già era l’aura d’ogne parte queta); ed il vate (el) gli parla (mi disse): “Ciò che hai ascoltato (Quel) era il severo fermo (fu ’l duro camo) che dovrebbe mantenere l’umanità entro certi suoi limiti (dovria l’uom tener dentro a sua meta).
Il “camo” era il mosro per cavalli, mentre “meta” erano le corsie selle quali marciavano le bighe circensi, coppia di termini utilizzate con la magistrale e rara capacità dell’Alighieri di giocar con allegorie, similitudini e metafore.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo | |
de l’antico avversaro a sé vi tira; | |
147 | e però poco val freno o richiamo. |
Ma voi uomini abboccate (prendete) all’esca, per modo (sì) che l’amo del nemico di sempre (de l’antico avversaro) v’attiri (tira) a sé; di conseguenza (e però) quel freno o quel richiamo risultano vani (poco val).
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira, | |
mostrandovi le sue bellezze etterne, | |
150 | e l’occhio vostro pur a terra mira; |
Il cielo vi chiama (Chiamavi ’l cielo) e, ruotandovi intorno (’ntorno vi si gira), vi fa mostra delle sue imperiture beltà (mostrandovi le sue bellezze etterne), ma i vostri occhi non fanno che guardare per terra (e l’occhio vostro pur a terra mira);
151 | onde vi batte chi tutto discerne». |
Riprendendo marcia intorno al promontorio, in giro di Canto i due poetanti leveranno sguardo verso occidente, notando “Quanto tra l’ultimar de l’ora terza e ’l principio del dì par de la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza…”
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