Divina Commedia: Purgatorio, Canto XII

Andrey Shishkin (1960), Dante, olio su tela, 2015
Dante e Virgilio, una volta ritornato il peregrino in posizione eretta, si avviano a più profonda esplorazione della prima Cornice, sulla superficie del cui suolo roccioso hanno l’occasione ed il privilegio di vedere scene scolpite di coloro peccarono di superbia, con relativi castighi allo scopo di espiare le proprie colpe.
In lunga e davvero varia carrellata di personaggi, dodici sono le individualità che si srotolano nella purgatoriale lista, iniziata da Lucifero e terminata con la città di Troia, in mezzo ai due antipodi rispettivamente: Briareo, Tombreo con Pallade e Marte, Nembroth, Niobe, Saùl, Aracne, Roboamo, Alcmenoe, Sennacherìb, Thamyris e Oloferne, in un mirabile intreccio fra storia e mitologia, in comunanza d’esito.
Prima fetta di Canto ingloba e srotola penitenti stilisticamente raggruppando le prime quattro scenografie sotto il verbo “Vedea”, poi affidandosi in evocativo tono ad una “O” in principio del successivo quartetto di terzine, quindi avviandosi a fine giro con quattro “Mostrava” prima del ritorno all’iniziale “Vedea”, scelto per chiudere il cerchio sull’alterigia delle cittadina troiana, però lasciando ben netta la visione della sigla VOM che si viene a delineare, secondo una probabile simbologia di fondo dell’autore.
Essendo infatti che nella comune lingua medievale la “V” e la “U” si equivalevano, “VOM” potrebbe anche essere “UOM” ed in tal senso metaforizzare quanto la superbia sia congenita all’umanità, nonostante il simbolismo dantesco si presti a diverse interpretazioni.
In seconda razione, Virgilio ed il suo protetto s’accingono a risalire verso la seconda Cornice, tratto in cui l’Alighieri ricalca una similitudine tra la scala del Purgatorio e quella di San Miniato che sovrasta la sua amata città fiorentina, per lui causa di frequente patimento, quindi lasciandosi addolcir l’animo da una soave melodia angelica e dedicando l’ultimo versetto ad una ridente ed umana sfumatura di Virgilio, il quale sorride al veder il suo titubante allievo toccarsi la fronte per verificare quanto da lui appena svelatogli, come sempre riuscendo a dare un tocco d’ironia e semplicità all’intera narrazione.
La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri
a cura di Henry Francis Cary (1772-1844), 1889
Di pari, come buoi che vanno a giogo, | |
m’andava io con quell’anima carca, | |
3 | fin che ’l sofferse il dolce pedagogo. |
Di pari passo e di pari postura, come buoi che procedano aggiogati (vanno a giogo), Dante marcia (m’andava io) affiancato ad un Oderisi stracarico (quell’anima carca), fin che il dolce Virgilio (pedagogo) glielo consente (’l sofferse).
Ma quando disse: «Lascia lui e varca; | |
ché qui è buono con l’ali e coi remi, | |
6 | quantunque può, ciascun pinger sua barca»; |
dritto sì come andar vuolsi rife’ mi | |
con la persona, avvegna che i pensieri | |
9 | mi rimanessero e chinati e scemi. |
Ma quando il vate gli dice (disse) di separarsi da (Lascia) lui e di superarlo (varca), poiché (ché) in Purgatorio (qui) è opportuno (buono) che ognuno spinga la propria (ciascun pinger sua) barca per quanto sia nelle sue possibilità (quantunque può), con l’ali e coi remi, il pellegrino si raddrizza riassumendo la postura di colui (rife’ mi con la persona) che cammina normalmente (sì come andar), tuttavia restando (avvenga che mi rimanessero) i suoi pensieri dimessi e frustrati (chinati e scemi).
Di “ali e remi” come strumenti per raggiunger la grazia s’era già accennato nel secondo Canto del Purgatorio, al trentunesimo e trentaduesimo versetto, in riferimento all’angelo nocchiero: “sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue, tra liti sì lontani”.
I danteschi pensieri scivolano nella frustrazione al rimembrar la precedente ed avversa profezia di Oderisi.
Io m’era mosso, e seguia volontieri | |
del mio maestro i passi, e amendue | |
12 | già mostravam com’eravam leggeri; |
Dante prosegue (Io m’era mosso) seguendo di buona voglia (e seguia volontieri) i passi del suo (mio) maestro ed entrambi (e amendue) ormai avanzanti in maniera impalpabilmente celere;
ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe: | |
buon ti sarà, per tranquillar la via, | |
15 | veder lo letto de le piante tue». |
a questo punto Virgilio gli consiglia (ed el mi disse) di rivolgere lo sguardo in basso (Volgi li occhi in giùe) in quanto il veder dov’egli posa i piedi (lo letto de le piante tue) gli gioverà (buon ti sarà) per rinfrancarsi durante il tragitto (tranquillar la via).
Come, perché di lor memoria sia, | |
sovra i sepolti le tombe terragne | |
18 | portan segnato quel ch’elli eran pria, |
onde lì molte volte si ripiagne | |
per la puntura de la rimembranza, | |
21 | che solo a’ pïi dà de le calcagne; |
Come al di sopra delle persone sepolte (sovra i sepolti), affinché se ne mantenga vivo il ricordo (perché di lor memoria sia), le tombe a terra (terragne) portano raffigurata (portan segnato) l’immagine di colui ch’è seppellito per com’era in vita (quel ch’elli eran pria), ragion per la quale su quei sepolcri (onde lì) ci si persevera nel pianto (molte volte si ripiagne) a causa della fitta di dolore (la puntura de la rimembranza), che pungola esclusivamente coloro che sono caritatevoli (solo a’ pïi dà de le calcagne);
Le “tombe terragne” rimandano alle tumulazioni che, nel corso del diciottesimo secolo, di frequente s’ubicavano sotto le pavimentazioni di edifici ecclesiastici o portici di cimiteri, con bassorilievo della persona inumata.
sì vid’io lì, ma di miglior sembianza | |
secondo l’artificio, figurato | |
24 | quanto per via di fuor del monte avanza. |
l’Alighieri vede in quel luogo simili figurazioni (sì vid’io lì figurato), ma di miglior aspetto per maestria d’arte (sembianza secondo l’artificio), incise sulla porzione di tragitto che protende dal versante montuoso (quanto per via di fuor del monte avanza).
Quanto “figurato” è “di miglior sembianza secondo l’artificio” giacché di matrice divina.
In tutti i livelli di Purgatorio vengono riportati, a titolo esemplare, le punizioni del vizio corrispondente alla rispettiva Cornice affinché i penitenti possano meditare a riguardo.
Vedea colui che fu nobil creato | |
più ch’altra creatura, giù dal cielo | |
27 | folgoreggiando scender, da l’un lato. |
Dante vede (Vedea), da una parte (l’un lato), colui che venne originato come la più nobile delle creature (fu nobil creato più ch’altra creatura) piombare giù dal cielo (scender) lasciando una folgoreggiante scia (folgoreggiando).
Il nobile angelo è ovviamente Lucifero, il più bello mai creato.
Vedëa Brïareo fitto dal telo | |
celestïal giacer, da l’altra parte, | |
30 | grave a la terra per lo mortal gelo. |
Dall’(da l’)altra parte vede Briareo giacere greve a (Vedëa Brïareo giacer grave a la) terra, congelato dalla morte (per lo mortal gelo) per esser stato trafitto dalla saetta di Giove (fitto dal telo celestïal).
Briareo, già citato al novantottesimo verso del trentunesimo Canto infernale (che de lo smisurato Brïareo) come insigne fra i Giganti a sorveglianza del Cocito, colui che trovò la morte per essersi scontrato con gli déi, nel corso della battaglia di Flegra, poi infilzato da letal colpo di celeste alabarda.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, | |
armati ancora, intorno al padre loro, | |
33 | mirar le membra d’i Giganti sparte. |
Vede (Vedea) Timbreo, vede (vedea) Pallade e Marte, ancora armati, intorno a Giove (al padre loro), rimirare (mirar) le membra sparse dei (d’i) Giganti uccisi.
Timbreo, alias Febo-Apollo, Pallade, l’Atena -Minerva e Marte, che le pagine della Tebaide del poeta romano Publio Papinio Stazio (45 d.C. – 96 d.C.) narrano agguerriti avversari di Briareo.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro | |
quasi smarrito, e riguardar le genti | |
36 | che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro. |
Vede Nembròth (Vedea Nembròt), quasi smarrito, ai piedi della grande costruzione (a piè del gran lavoro) nell’osservare le persone (e riguardar le genti) che insieme a (con) lui, nella piana di (’n) Sennaàr di superbia peccarono (superbi fuoro).
Nembròth, il presuntuoso ideatore della celebre torre di Babele delle cui azioni, e deleterie conseguenze sul linguaggio dell’intera umanità, racconta di nuovo il trentunesimo Canto dell’Inferno, in ventiseiesima terzina: “questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s’usa”.
O Nïobè, con che occhi dolenti | |
vedea io te segnata in su la strada, | |
39 | tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! |
O Niobe (Nïobè), esclama fra se e sè Dante, con che occhi accorati (dolenti) ti vedo (vedea io te) scalpellata nel pietroso percorso (segnata in su la strada), tra quattordici (sette e sette) suoi figlioli ammazzati (tuoi figliuoli spenti)!
Gli “occhi dolenti” si prestano a doppia interpretazione, potendo riferirsi tanto alla commozione del discepolo osservatore, quanto alla stessa Niobe, narrata da Publio Ovidio Marone (43 a.C. – 17/18 a.C.) come regina di Tebe con figliolanza suddivisa in sette femmine ed altrettanti maschi, che si rese colpevole d’aver schernito Latona nell’essere madre di due soli discendenti, Apollo e Diana i quali, per vendicare l’oltraggio alla madre, assassinarono tutti i suoi quattordici figli.
O Saùl, come in su la propria spada | |
quivi parevi morto in Gelboè, | |
42 | che poi non sentì pioggia né rugiada! |
O Saùl, continua Dante, come sulla tua (in su la propria) spada, nella pietrosa rappresentazione (quivi) sembri (parevi) morto a (in) Gelboè, sulla quale in seguito (che poi) non scese (sentì) pioggia né rugiada!
Di re Saùl le Scritture riportano la riluttanza su decreti divini, ostile condotta a causa della quale i filistei lo cacciarono sul monte Gilbôa, in Samaria, dove lo stesso si suicidò per mezzo della propria spada, come descritto nel primo Libro dei Re; il secondo testo ne continua resoconto descrivendo la siccità che re David, successore, nonché genero di Saul, implorò per quelle montagne ov’era stato messo in fuga il suocero.
Incisione di Jan Collaert II (1561-1620), 1579
O folle Aragne, sì vedea io te | |
già mezza ragna, trista in su li stracci | |
45 | de l’opera che mal per te si fé. |
O folle Aracne (Aragne), come ti vedo per metà già trasformata in ragno (sì vedea io te già mezza ragna), corrucciata sugli avanzi dell’operato (trista in su li stracci de l’opera) che infelicemente tramasti (mal si fé) ai danni di (per) te stessa.
Son le Metamorfosi dello stesso Ovidio a relazionare di Aracne, vanagloriosa giovane di Lidia che volle duellare a telaio con l’abilissima Minerva; dopo aver visionato lo splendido ricamo della ragazza, la dea lo distrusse, trasformandola in aracnide, come peraltro già riportato nella diciottesima rima del ventisettesimo Canto degli Inferi: “né fuor tai tele per Aragne imposte”.
La Divina Commedia, Salani Arte e Scienze 1965
O Roboàm, già non par che minacci | |
quivi ’l tuo segno; ma pien di spavento | |
48 | nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci. |
O Roboamo (Roboàm), qui la tua raffigurazione (quivi ’l tuo segno) ormai non sembra aver minacciosi atteggiamenti (già non par che minacci), ma appare colma (pien) di spavento trasportata da (nel porta) un carro, senza che nessuno la stia braccando (sanza ch’altri il cacci).
Roboamo appare nel terzo Libro dei Re, come insolente figlio di re Salomone la cui irremovibile inclemenza, una volta successo al padre ormai dipartito, lo rese astioso al popolo d’Israele, sulla scia della cui rivolta decise di fuggire verso Gerusalemme a bordo di un carro, tuttavia senza nessuno che lo tallonasse.
Mostrava ancor lo duro pavimento | |
come Almeon a sua madre fé caro | |
51 | parer lo sventurato addornamento. |
Ancora il granitico suolo mostra (Mostrava ancor lo duro pavimento) come Alcmenoe (Almeon) fece pagar (fé parer) a caro prezzo alla (a sua) madre l’infausto gioiello (sventurato addornamento).
Il mitologico Alcmenoe fu figlio d’Erìfile: la donna, in cambio d’una preziosa collana, svelò a re Polinice il nascondiglio del marito Anfiarao, che per questo morì; per vendicare il padre, Alcmenoe l’assassinò infilzandola con feroce ed adirato colpo di lama, come meglio specificato nel ventesimo Canto infernale, a cavallo fra l’undicesimo e la dodicesima terzina: “Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s’aperse a li occhi d’i Teban la terra; per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui, Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
Mostrava come i figli si gittaro | |
sovra Sennacherìb dentro dal tempio, | |
54 | e come, morto lui, quivi il lasciaro. |
Mostra (Mostrava) come i figli di Sennacherìb gli si avventarono addosso (gittaro sovra) dentro dal tempio e come, all’interno del sacro edificio, ne lasciarono il cadavere (morto lui, quivi il lasciaro).
Il re degli Assiri Sennacherìb trovò la morte a Ninive, nel tempio di Nìsroe, per mano dei suoi stessi figli i quali, dopo aver lui levato la vita, si dileguarono abbandonandone il cadavere all’interno del medesimo luogo di culto in cui il sovrano era spirato.
Mostrava la ruina e ’l crudo scempio | |
che fé Tamiri, quando disse a Ciro: | |
57 | «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio». |
(Mostra) Mostrava il massacri e lo spietato (la ruina e ’l crudo) scempio ad opera di Thamyris (che fé Tamiri), quando disse a Ciro: “Di sangue eri assetato (sitisti), e io di sangue ti riempio (t’empio)”.
Thamyris fu regina di Scizia, regno ove uno spietato Ciro, re di Persia, s’introdusse massacrando un terzo dell’esercito sciita, fra cui il figlio della regnante, nel corso d’un agguato; simile imboscata viene organizzata dall’addolorata madre, riuscendo la stessa a sterminare gran parte delle truppe persiane, compreso lo stesso Ciro, che la donna decapitò, poi gettandone la testa in un recipiente traboccante di sangue, restituendo al re medesima e sanguigna efferatezza.
Mostrava come in rotta si fuggiro | |
li Assiri, poi che fu morto Oloferne, | |
60 | e anche le reliquie del martiro. |
Mostra (Mostrava) come in rotta fuggirono gli (si fuggiro li) Assiri, dopo la morte di (poi che fu morto) Oloferne, e anche ciò che era rimasto del corpo (le reliquie del martiro) decapitato.
Ulteriore capo mozzato appartenne al corpo d’Oloferne, generale delle milizie assire da Giuditta di Betulia, secondo nota vicenda che verrà nello specifico raccontata al penultimo Canto del Paradiso.
Vedeva Troia in cenere e in caverne; | |
o Ilïón, come te basso e vile | |
63 | mostrava il segno che lì si discerne! |
Dante vede (Vedeva) Troia mutata in cenere e in macerie (caverne); o Ilio (Ilïón), erompe Dante, come ti ritrae (te mostrava) sommessa (basso) e vile l’effigie (il segno) che si osserva (discerne) su codesta Cornice purgatoriale (lì)!
Tredicesima e conclusiva visione cala il sipario sulla boriosa città di Troia, anche detta Ilio, sventrata, annientata e crollata sulle sue stesse rovine.
Qual di pennel fu maestro o di stile | |
che ritraesse l’ombre e ’ tratti ch’ivi | |
66 | mirar farieno uno ingegno sottile? |
Qual pittore o disegnatore (di pennel fu maestro o di stile) sarebbe in grado di ritrarre (che ritraesse) i fisici e le sembianze (l’ombre e ’ tratti) che in Purgatorio (ch’ivi) sorprenderebbero (mirar farieno) anche l’(uno)ingegno più ricercato (sottile)?
Morti li morti e i vivi parean vivi: | |
non vide mei di me chi vide il vero, | |
69 | quant’io calcai, fin che chinato givi. |
Morti sembrano i (li) morti e i vivi paion (parean) vivi: non vide meglio di Dante chi osservò (vide) la scena reale (mei di me chi vide il vero), di quant’egli (io) la vede calpestandola (calcai), fintantoché cammina chino (fin che chinato givi).
Talmente realistiche sono le scene visionate dal poeta da egli ritenerle più esaustive rispetto all’osservarne dal vero da parti di chicchessia.
Or superbite, e via col viso altero, | |
figliuoli d’Eva, e non chinate il volto | |
72 | sì che veggiate il vostro mal sentero! |
Dunque issatevi pure in superbia (Or superbite), procedendo con volto altezzoso (e via col viso altero), figli (figliuoli) d’Eva, e non chinate lo sguardo (il volto) casomai vi rendiate conto d’esser sulla via errata (sì che veggiate il vostro mal sentero)!
L’estemporanea invettiva del narratore contro i superbi s’accende di pungente e stizzito sarcasmo.
Più era già per noi del monte vòlto | |
e del cammin del sole assai più speso | |
75 | che non stimava l’animo non sciolto, |
quando colui che sempre innanzi atteso | |
andava, cominciò: «Drizza la testa; | |
78 | non è più tempo di gir sì sospeso. |
I due viandanti hanno già peregrinato in circolo al promontorio (Più era già per noi del monte vòlto) e consumato (speso) della giornata (del cammin del sole) assai più di quanto (che) non abbia valutato (stimava) l’animo assorto (non sciolto) di Dante, quando colui che andava avanti (innanzi) con costante attenzione (atteso), ovvero Virgilio, inizia a parlare (cominciò), a lui rivolgendosi: “Ritorna in te (Drizza la testa), che non è più tempo di vagar in maniera tanto meditabonda (gir sì sospeso).
Il termine “innanzi” potrebbe anche essere interpretato in maniera alternativa al senso del precedere, vale a dire collegato al vocabolo “atteso”, indi significando “vigilando su ciò che aveva davanti”.
Vedi colà un angel che s’appresta | |
per venir verso noi; vedi che torna | |
81 | dal servigio del dì l’ancella sesta. |
Guarda un poco più in là, (Vedi colà) un angelo che si sta apprestando ad avvicinarci (angel che s’appresta per venir verso noi) e vedi che la sesta ora (ancella) del giorno (dì) torna dopo aver terminato il suo servizio (dal servigio).
Considerando l’ “ancella sesta” la corrispondente ora diurna a partir dall’alba, se ne deduce che sia trascorso il mezzodì.
Di reverenza il viso e li atti addorna, | |
sì che i diletti lo ’nvïarci in suso; | |
84 | pensa che questo dì mai non raggiorna!». |
Assicurati che la tua espressione ed i tuoi atteggiamenti siano ossequiosi (Di reverenza il viso e li atti addorna), in modo che si compiaccia di farci risalire (sì che i diletti lo ’nvïarci in suso); pensa che questo giorno mai più si ripeterà (dì mai non raggiorna)!”.
Sussurrando quel “pensa che questo dì mai non raggiorna”, la savia guida ricama di commovente e magica unicità il il senso d’un intero cammino.
Io era ben del suo ammonir uso | |
pur di non perder tempo, sì che ’n quella | |
87 | materia non potea parlarmi chiuso. |
L’Alighieri è ormai talmente (sì) avvezzo agli ammonimenti del suo conduttore (Io era ben del suo ammonir uso) a (pur di) non perder tempo, che in quel contesto le parole di Virgilio non gli possono più arrivare arcane (’n quella materia non potea parlarmi chiuso).
A noi venìa la creatura bella, | |
biancovestito e ne la faccia quale | |
90 | par tremolando mattutina stella. |
A loro due (noi) giunge (venìa) l’angelica (bella) creatura, vestita di bianco (biancovestito), sul cui viso parrebbe luccicare (e ne la faccia quale par tremolando) la stella mattutina.
La “mattutina stella” è Venere, che al sorger del sole viene soprannominata “Diana”.
Le braccia aperse, e indi aperse l’ale; | |
disse: «Venite: qui son presso i gradi, | |
93 | e agevolemente omai si sale. |
L’angelo allarga (aperse) le braccia, poi distende le ali (e indi aperse l’ale), dicendo: “Venite: qui appresso ci sono i gradini (son presso i gradi), e con agilità (agevolemente) ormai (omai) si sale.
A questo invito vegnon molto radi: | |
o gente umana, per volar sù nata, | |
96 | perché a poco vento così cadi?». |
A questo invito rispondono in pochissimi (vegnon molto radi): o uomini (gente umana), nati (nata) per volar in alto (sù), perché al primo soffio di millanteria (a poco vento) capitombolate (cadi) in questa maniera (così)?”.
Menocci ove la roccia era tagliata; | |
quivi mi batté l’ali per la fronte; | |
99 | poi mi promise sicura l’andata. |
L’angelo conduce i due viaggiatori (Menocci) dove (ove) la roccia è (era) intagliata (tagliata); qui batte le (quivi mi batté l’) ali sulla (per la) fronte di Dante, poi assicurandogli un’agevole risalita (mi promise sicura l’andata).
Come a man destra, per salire al monte | |
dove siede la chiesa che soggioga | |
102 | la ben guidata sopra Rubaconte, |
si rompe del montar l’ardita foga | |
per le scalee che si fero ad etade | |
105 | ch’era sicuro il quaderno e la doga; |
così s’allenta la ripa che cade | |
quivi ben ratta da l’altro girone; | |
108 | ma quinci e quindi l’alta pietra rade. |
Come sulla parte (a man) destra della scala, che rimonta l’altura (per salire al monte) dove s’erge (siede) la chiesa che domina (soggioga) la città ben governata (guidata) nei pressi del ponte (sopra) Rubaconte, si spiana (rompe) il temerario (l’ardita) impennarsi (foga) della scoscesa (del montar), grazie alle scalinate (per le scalee) edificate (che si fero) nel periodo (ad etade) durante il quale ancor ci si poteva affidar al (ch’era sicuro il) quaderno ed alla (la) doga, ugualmente (così), con quella rampa purgatoriale, scema la pendenza del pendio (s’allenta la ripa) che, nel punto dove si trovano i due scalatori (quivi), piomba con estrema rapidità (cade ben ratta) dalla Cornice superiore (da l’altro girone); ma, rispetto a Firenze, nel Purgatorio le pareti rocciose (l’alta pietra rade), rasentano entrambi i lati (quinci e quindi) del corpo.
Il “quaderno” richiama un verbale processuale dal quale il priore Nicola Aciaioli, con la complicità del giudice Baldo d’Aguglione, nel 1299 sfilò deposizioni a suo carico, vicende che, una volta venuta alla ribalta, provocò ai due considerevoli sanzioni pecuniarie; la “doga” fu invece il mezzo con cui il frate e pubblico funzionario Durante Chiaramontesi si rese colpevole di truffa nelle pesate di sale pubblico, ch’egli sottraeva per poi rivenderlo, imbroglio che oltre al processo si narra gli sia valso una condanna a morte.
Noi volgendo ivi le nostre persone, | |
‘Beati pauperes spiritu!’ voci | |
111 | cantaron sì, che nol diria sermone. |
Non appena i due poetanti iniziano l’ascesa (Noi volgendo ivi le nostre persone), alcune voci intonano (cantaron) ‘Beati pauperes spiritu!’ tanto soavemente (sì), che il riportarlo verbalmente sarebbe impossibile (nol diria sermone).
Il “Beati pauperes spiritu” si completa con “quoniam ipsorum est regnum caelorum”, ovvero la conosciuta: “Beati i poveri di spirito perchè di essi è il regno dei cieli”, che perfettamente sottolinea la contrapposta sfrontatezza della superbia.
Ahi quanto son diverse quelle foci | |
da l’infernali! ché quivi per canti | |
114 | s’entra, e là giù per lamenti feroci. |
Ahi quanto son differenti (diverse) quei varchi (quelle foci) da quelli del regno infernale (l’infernali)! – rimugina Dante – poiché qui vi si accede sul filo dei (ché quivi s’entra per) canti, mentre laggiù sullo sfondo di gemiti atroci (e là giù per lamenti feroci).
Già montavam su per li scaglion santi, | |
ed esser mi parea troppo più lieve | |
117 | che per lo pian non mi parea davanti. |
Mentre Dante e Virgilio risalgono i sacri pioli (Già montavam su per li scaglion santi), a Dante l’arrampicata sembra eccessivamente (ed esser mi parea troppo) più lieve di quanto non gli paresse esser prima (che non mi parea davanti), camminando in zona pianeggiante (per lo pian).
Ond’io: «Maestro, dì, qual cosa greve | |
levata s’è da me, che nulla quasi | |
120 | per me fatica, andando, si riceve?». |
Ond’egli (io): “Maestro, dimmi (dì), qual pesante (greve) zavorra (cosa) mi s’è levata di dosso (da me), al punto da non percepire (per me si riceve) quasi più nessun affaticamento (nulla fatica) nel camminare andando)?”.
Rispuose: «Quando i P che son rimasi | |
ancor nel volto tuo presso che stinti, | |
123 | saranno, com’è l’un, del tutto rasi, |
fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, | |
che non pur non fatica sentiranno, | |
126 | ma fia diletto loro esser sù pinti». |
In risposta Virgilio (Rispuose): “Quando le (i) P che son rimaste (rimasi) ancor incise sulla tua fronte (nel volto tuo), peraltro ormai smunte (presso che stinti) verranno (saranno) rimosse completamente (del tutto rasi), come ti è stata cancellata la prima (com’è l’un), i tuoi piedi (li tuoi piè) diverranno così ossequenti (fier sì vinti) alla tua buona volontà (dal buon voler), che non solo (pur) non percepiranno (sentiranno) la fatica, ma si appagheranno (fia diletto loro) esser sospinti verso l’alto (sù pinti)”.
Allor fec’io come color che vanno | |
con cosa in capo non da lor saputa, | |
129 | se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno; |
Allora Dante si comporta (Allor fec’io) come coloro (color) che vanno in giro con un qualcosa sul (cosa in) capo a lor insaputa (non da lor saputa), fino a sospettarne di fronte agli ammicchevoli gesti degli altri (se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno);
per che la mano ad accertar s’aiuta, | |
e cerca e truova e quello officio adempie | |
132 | che non si può fornir per la veduta; |
per cui (che) la mano s’affaccenda (s’aiuta) a fin di riscontro (ad accertar), cercando e trovando (e cerca e truova) infine raggiungendo (e adempie) quel risultato (quello officio) che la vista era impossibilitata a raggiungere (non si può fornir per la veduta);
Immediato è il rimando alla diffidenza di Tommaso Dìdimo nei confronti della resurrezione del Cristo, per creder alla quale desiderò metter le dita nel suo costato e nelle piaghe lasciate dai chiodi che lo trafissero.
e con le dita de la destra scempie | |
trovai pur sei le lettere che ’ncise | |
135 | quel da le chiavi a me sovra le tempie: |
e con le singole (scempie) dita della (de la) mano destra Dante trova (trovai) solamente (pur) le sei lettere rimaste, che gli vennero incise (’ncise a me) in fronte (sovra le tempie) dall’angelo che deteneva (quel da) le chiavi dell’ingresso purgatoriale: e all’osservar il tal gesto (a che guardando), l’amorevole guida sorride (il mio duca sorrise).
136 | a che guardando, il mio duca sorrise. |
Sull’eco della risata del buon a paterno Virgilio “Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala…”
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