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Divina Commedia: Purgatorio, Canto X

Luca Signorelli (1450-1523), Ingresso nella I Cornice, 1499-1502, Duomo di Orvieto

 
Superato l’ingresso sulle note del Te Deum Laudamus, maestro e discepolo accedono alla prima Cornice ove espiano le proprie pene i superbi, costretti a camminare soggiogati sotto il peso d’enormi macigni, prima di scorgere i quali il Dante si sofferma perdendosi nella bellezza della marmorea ripa, nella quale sono intagliati scene d’umiltà esaltata, che lo rapiscono in maniera totale.

Posando dapprima gli occhi sull’immagine dell’arcangelo Gabriele e della Vergine Maria, il suo sguardo è calamitato rispettivamente dalle raffigurazioni di re David e dell’imperatore Traiano, perdendo l’Alighieri piccole e preziose perle d’amorevolezza fra vocaboli, nel decantar la storia d’una vedova in preghiera di giustizia per l’assassinio del figliolo, finché ecco la schiera d’anime arrivare molto lentamente verso i due viandanti, i quali si confrontano sulla difficoltà iniziale di riuscire a distinguerne i contorni, in quanto i penitenti divengono quasi un tutt’uno con i massi loro sovrapposti, ingannando lo guardo.

Una volta messa a fuoco l’immagine, Dante s’esprime in un’invettiva alquanto solinga, quasi come parlasse con se stesso ed al medesimo tempo orientando le aspre critiche a coloro che in vita furono cristiani intrisi di superbia, talmente inetti da intraprendere tragitto contrario rispetto alla volontà divina, pur inconsapevoli del fatto che ogni uomo alla stessa sia comunque destinato dopo la morte.

Non manca comunque di comunicare con il proprio lettore, l’autore della Commedia, al fin d’incalzarlo a non fossilizzarsi sulla lettura delle scene più impressionanti, mai perdendo la capacità di guardare oltre, lì dove un giorno tali afflizioni avranno fine.

Utilizzo dell’arte scultoria è presente più volte in codesto Canto, materializzandosi la stessa nel marmoreo versante che incanta i danteschi occhi, fino ad apparire nel confronto che il poeta riporta in chiusura, paragonando i superbi piegati fin quasi a terra alle sculture che venivano utilizzate come colonne, divenendo basamento all’architrave, specialmente nelle chiese romaniche, così riuscendo egli stesso a traslare incanto sugli odierni lettori, stuzzicandone l’immaginazione, incentivandone il sapere, stimolandone la riflessione mistica, in poetico sprone.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Adolfo De Carolis (1874-1928), Dante Adriacus per la città di Vita e per Gabriele D'Annunzio, 1920 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Adolfo De Carolis (1874-1928), Dante Adriacus, per la città di Vita e per Gabriele D’Annunzio, 1920

 

Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ’l mal amor de l’anime disusa,
3 perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
6 qual fora stata al fallo degna scusa?

Non appena oltrepassata la soglia della (Poi fummo dentro al soglio de la) porta che disattiva (disusa) l’amore mal orientato dei penitenti (’l mal amor de l’anime), facendo sembrare diritta la sinuosa via del vizio (perché fa parer dritta la via torta), Dante comprende esser stata chiusa la stessa dal percepirne lo scricchiolio (sonando la senti’ esser richiusa); e se per caso le avesse rivolto sguardo (e s’io avesse li occhi vòlti ad essa) – si chiede fra sé e sé – quale avrebbe potuto esser (qual fora stata) una degna giustificazione (scusa) per l’errore (al fallo) commesso?

La personale riflessione nasce sul ricordo delle raccomandazioni fatte poco prima dall’angelo guardiano riguardo al non doversi mai girare indietro, pena l’immediata fuoriuscita dal Purgatorio, simbolicamente essendo, il voltarsi alle proprie spalle, un deleterio ritornar sulla strada della perdizione.

Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e d’una e d’altra parte,
9 sì come l’onda che fugge e s’appressa.

I due poeti proseguono nel risalire (Noi salavam) attraverso un pietroso sentiero scavato nella roccia (per una pietra fessa) che, nel suo esser zigzagante (si moveva e d’una e d’altra parte), ricorda l’alternarsi dell’ondata alla risacca (sì come l’onda che fugge e s’appressa).

«Qui si conviene usare un poco d’arte»,
cominciò ’l duca mio, «in accostarsi
12 or quinci, or quindi al lato che si parte.»

Il premuroso duca consiglia (cominciò ’l duca mio) al suo protetto, in quel contesto, d’esser molto vigile (Qui si conviene usare un poco d’arte) nell’(in)accostarsi or da una parte (quindi), or dall’altra (quindi) al lato concavo (che si parte) della roccia.

Marciando porgendo attenzione alle convessità del serpeggiante pendio, i due viandanti potranno infatti evitare accidentali colpi ai pietrosi spigoli.

E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
15 rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
18 sù dove il monte in dietro si rauna,
ïo stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
21 solingo più che strade per diserti.

Il dover procedere con estrema accortezza (E questo) abbrevia e rallenta il passo dei due viaggiatori (fece i nostri passi scarsi), tanto che la parte oscura della sfera lunare si ricongiunge all’orizzonte (rigiunse al letto suo), avviandosi al tramonto (per ricorcarsi), prima (pria) che i poetanti escano dall’angusto tratto (noi fossimo fuor di quella cruna).

In seguito al plenilunio, la luna inizia infatti ad immergersi nell’orizzonte con la sua zona in penombra.

Ma una volta fuori dal cunicolo (quando fummo liberi), un poco più in alto (sù), dove il monte addietro si ritira (in dietro si rauna) lasciando spazio ad una zona piana, l’estrema stanchezza di Dante (ïo stancato) e l’incertezza d’entrambi i camminatori sul nuovo tragitto da intraprendere (amendue incerti di nostra via), li porta a rimanere in sosta su quell’altopiano (restammo in su un piano), desolato (solingo) più d’un itinerario che attraversi il deserto (che strade per diserti).

La pianura dal “solingo” aspetto è la balza di prima Cornice del Purgatorio, che circolarmente cinge la sacra montagna.

Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de l’alta ripa che pur sale,
24 misurrebbe in tre volte un corpo umano;

Dal suo argine esterno (Da la sua sponda), limitrofo al baratro (ove confina il vano), fino ai piedi dell’elevato versante che continua nella risalita (al piè de l’alta ripa che pur sale), la sua larghezza sarebbe corrispondente alla somma di tre corpi umani (misurrebbe in tre volte un corpo umano);

Considerando l’altezza media degli uomini del XIV secolo, nettamente inferiore all’odierna, la misura corrispondente a tre di loro, immaginandoli distesi in sequenza, equivarrebbe all’incirca a cinque metri scarsi.

e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
27 questa cornice mi parea cotale.

e per quanto lo sguardo del poeta sia in grado di volare (l’occhio mio potea trar d’ale), vale a dire di perdersi a vista d’occhio in entrambe le direzioni (or dal sinistro e or dal destro fianco), la Cornice gli appare egualmente larga in ogni suo punto (questa cornice mi parea cotale).

Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
30 che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
33 ma la natura lì avrebbe scorno.

Ancora i due letterati non si sono messi in marcia da dove si trovano (Là sù non eran mossi i piè nostri anco), quando l’Alighieri s’accorge (quand’io conobbi) che quella parte di roccia che affievolisce la verticalità dell’altura (ripa intorno che dritto di salita aveva manco), è costituita di marmo bianco ed intagliato di tali altorilievi (candido e addorno d’intagli sì) che non solo (pur) Policleto, ma perfin la natura al confronto farebbe magra figura (lì avrebbe scorno).

Policleto fu scultore, bronzista e teorico, vissuto ed in attività nel V secolo a.C., elogiato da vari stimati sapienti medievali, nonostante gli stessi non ne avessero probabilmente potuto visionare nel concreto le opere; ritenuto somma personalità protagonista della scultura greca ellenica, la sua influenza ebbe ad espandersi per tutto il secolo successivo, con grande rammarico postumo riferibile al fatto che nessuno dei suoi originari manufatti scultorei sia mai giunto ai giorni nostri, potendo tuttavia spaziare l’immaginazione su quella che fu la sua maestria tramite le molteplici copie riprodotte in età romana.

Testimonianza scritta di Policleto, purtroppo perduta nella quasi totalità, della quale rimangono difatti solo due frammenti, fu il Canone, trattato risalente al 450 a.C. ed all’interno del quale lo scultore riportò personali valutazioni sulle proporzioni dell’anatomia umana, la cui tematica rivolta alla bellezza ed all’armonia delle forme si fece ispirazione anche in campo architettonico.

L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
36 ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
39 che non sembiava imagine che tace.

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Gaudenzio Ferrari (1470-1546), Annunciazione, Arcangelo Gabriele, ca.1508 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Gaudenzio Ferrari (1470-1546), Annunciazione, Arcangelo Gabriele, ca.1508

 
Nel primo intaglio v’è l’angelo (L’angel) che venne in terra ad annunciare la pace fra Dio e gli uomini che tanto era stata invocata (col decreto de la molt’anni lagrimata pace), colui che aprì nuovamente l’ingresso al cielo dopo lungo impedimento (ch’aperse il ciel del suo lungo divieto), innanzi a Dante e Virgilio appare così tangibile ed effigiato (dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato) in un atto soave, da non sembrare un’immagine silente (che non sembiava imagine che tace).

Trattasi dell’arcangelo Gabriele, colui che in seguito al “lungo divieto” imposto a partir dell’espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, fu protagonista dell’Annunciazione di nuova alleanza divina decretata dall’incarnazione di Cristo.

Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
perché iv’era imaginata quella
42 ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

Si potrebbe giurar sul fatto ch’egli (Giurato si saria ch’el) dica (dicesse) ‘Ave!’, essendovi raffigurata anche colei (perché iv’era imaginata quella) che simbolicamente girò (volse) la chiave al di di schiudere l’amore dell’Altissimo (ch’ad aprir l’alto) all’umanità, la Beata Vergine;

e avea in atto impressa esta favella
‘Ecce ancilla Deï’, propriamente
45 come figura in cera si suggella.

e nel suo atteggiarsi pare pronunciar la frase (avea in atto impressa esta favella) ‘Ecce ancilla Deï’, con la medesima chiarezza con cui il timbro del suggello s’imprime nella cera (propriamente come figura in cera si suggella).

«Non tener pur ad un loco la mente»,
disse ’l dolce maestro, che m’avea
48 da quella parte onde ’l cuore ha la gente.

A questo punto (’l) dolce maestro, a cui il suo protetto sta dalla parte dove le persone hanno il (che m’avea da quella parte onde ’l) cuore, vale a dire a sinistra, gli raccomanda (disse) di non rivolgere l’attenzione ad un solo punto (Non tener pur ad un loco la mente).

Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
51 onde m’era colui che mi movea,
un’altra storia ne la roccia imposta;
per ch’io varcai Virgilio, e fe’ mi presso,
54 acciò che fosse a li occhi miei disposta.

Pertanto Dante gira intorno lo sguardo (Per ch’i’ mi mossi col viso), notando che oltre (e vedea di retro da) Maria, nella stessa parte dove è posizionata la virgiliana guida (da quella costa onde m’era colui che mi movea), vi è un’ulteriore storia scolpita nella pietra (un’altra storia ne la roccia imposta); quindi l’Alighieri oltrepassa (per ch’io varcai) Virgilio, appressandosi alla stessa affinché la raffigurazione gli sia maggiormente visibile (e fe’ mi presso, acciò che fosse a li occhi miei disposta).

Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,
57 per che si teme officio non commesso.

Lì nel marmo stesso sta impresso (Era intagliato) il (lo) carro (e ’) con i buoi, nell’atto di trainare (traendo) l’arca santa, per la quale (che) si teme d’essersi arrogati il diritto ad un incarico non concesso (officio non commesso).

L’arca fu il sacro tempio trasportabile, in legno d’acacia e rivestito d’oro, realizzato da Mosè su prescrizione divina, allo scopo di salvaguardare le tavole delle Legge a prova dell’intesa fra Dio ed il popolo d’Israele e la stessa, dopo una rovinosa permanenza di sette mesi fra i filistei, venne trasferita nell’abitazione di Abinadab, da dove re David si decise a condurla in Gerusalemme, trasportandola per l’appunto su un carro trainato da buoi.

Nella prima parte del viaggio, la stessa vacillò rischiando di cadere, ma fu fermata dalla mano del figlio di Abinadab, Oza, che morì accidentalmente in quell’occasione; è in suo richiamo la locuzione “officio non commesso” perché, non essendo prete membro della tribù israelitica di Levi, con incarichi relativi al culto, non avrebbe potuto toccare cose sacre.

Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
60 faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’.

Dinanzi al carro sembra esserci una calca d’anime (parea gente); e tutte quante (tutta quanta), suddivise (partita) in sette cori, stimolano nel poeta una doppia percezione sensitiva (a’ due mie’ sensi), ovvero dal punto di vista dell’udito facendogli dire che gli stessi non cantino, al contrario affermando che lo facciano affidandosi alla sola vista (faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’).

I “sette cori” provengono rispettivamente dai sette gruppi i cui furono suddivisi i popolani che parteciparono all’eccezionale trasporto.

Similemente al fummo de li ’ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
63 e al sì e al no discordi fensi.

Similmente al fumo degli incensi che vi era decorato (Similemente al fummo de li ’ncensi che v’era imaginato), sensazione visiva ed olfattiva si contendono la realtà, la prima come quasi ne colga la fragranza, la seconda non afferrandola affatto (li occhi e ’l naso e al sì e al no discordi fensi).

“Li ’ncensi” si riferiscono al fumo proveniente dalla pire utilizzate negli olocausti rituali di tradizione giudaica.

Meravigliosa, delicata e sapientemente rimata la modalità con la quale in sei versetti l’autore della Commedia spiega quanto siano realmente percepibili le immagini fissate a roccia, di realistico impatto al punto da influire sensorialmente sulle sue capacità percettive.

Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
66 e più e men che re era in quel caso.

Nella stessa incisione (Lì), all’arca benedetta (al benedetto vaso) precedeva, danzando con le vesti alzate (trescando alzato), l’umile salmista, che in quel frangente era più e meno che un re (e più e men che re era in quel caso).

“L’umile salmista” è appellativo affibbiato a re David, tradizionalmente considerato l’autore del Libro dei Salmi, il testo racchiuso sia nella Bibbia ebraica che nell’Antico Testamento, nonché incluso fra i Libri Sapienziali, così come vengon definiti, nella prima parte della Bibbia cristiana, ovvero scritti didattici o di etica morale che abbiano come obiettivo primo l’insegnamento della sapienza di Dio, rivelatasi attraverso le sacre scritture.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro (ca.1609-1675), Re David porta l'Arca dell'Alleanza a Gerusalemme, 1640 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro (ca.1609-1675)
Re David porta l’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme, 1640

 

Di contra, effigïata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
69 sì come donna dispettosa e trista.

In fronte (Di contra) a David, rappresentata affacciata alla finestra (effigïata ad una vista) d’un gran palazzo, Micòl assiste alla scena in maniera disdegnosa e risentita (ammirava sì come donna dispettosa e trista).

Micòl, figlia di re Saul e moglie di re David, appare enormemente infastidita dall’irrispettosa danza del marito il quale, finalmente entrato in Gerusalemme con l’arca, dall’entusiasmo si sperimenta in un ballo alquanto indecoroso, alzando le vesti fino alla cintola, rendendosi ridicolo.

I’ mossi i piè del loco dov’io stava,
per avvisar da presso un’altra istoria,
72 che di dietro a Micòl mi biancheggiava.

L’Alighieri si sposta dal luogo in cui si trova (I’ mossi i piè del loco dov’io stava), per osservare da vicino (avvisar da presso) un’altra storia (istoria) che da (di) dietro Micòl lo attira con il suo biancheggiare (mi biancheggiava) sulla marmorea superficie.

Quiv’era storïata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
75 mosse Gregorio a la sua gran vittoria;

Qui vi è narrata la somma (Quiv’era storïata l’alta) gloria dell’imperatore romano (del roman principato), la (il) cui virtù condusse (valore mosse) Gregorio ad immensa (a la sua gran) vittoria;

i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
78 di lagrime atteggiata e di dolore.

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia (1406-1486), Storia di Traiano e la vedova, 1430-1440 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Giovanni di Ser Giovanni (1406-1486), Storia di Traiano e la vedova, 1430-1440

 
Dante si riferisce (i’ dico) all’imperatore (imperadore) Traiano; e ad una vedova che stava avvinghiata al morso (vedovella li era al freno) del suo cavallo, con atteggiamento piangente ed afflitto (di lagrime atteggiata e di dolore).

Marco Ulpio Nerva Traiano (53 d.C.-117 d.C.), fu imperatore romano in carica dal 98 d.C. fino all’anno della sua morte, considerato un governatore modello grazie all’esser stato un eccezionale amministratore e un abilissimo stratega, ricordato inoltre per sue innovative intuizioni in ambito urbanistico; in epoca medievale la leggenda della “vedovella” era molto popolare, a tal proposito si narra che papa Gregorio Magno (540-604), sul filo della commozione in lui suscitata dalla sua narrazione, pregò profondamente per l’imperatore, riuscendo ad ottenerne la salvezza (la sua gran vittoria), storia alla quale l’Alighieri probabilmente fu portato a credere, collocando infatti Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo.

Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
81 sovr’essi in vista al vento si movieno.

Intorno a lui sembrava esserci una stipata ressa (parea calcato e pieno) di cavalieri, e le aquile, che paia garriscano (l’aguglie sovr’essi in vista) al vento, si muovono (movieno) sui loro capi su sfondo dorato (ne l’oro).

“I’aguglia” è d’indubbio rimando allo stemma nel quale il giallognolo sfondo (ne l’oro) è dominato dallo scudo della famiglia Da Polenta, stilizzato in un’aquila rossa ad ali spiegate; precedente accenno alla stessa appartiene al quarantaduesimo verso del ventisettesimo Canto infernale (l’aguglia da Polenta la si cova), ove la voce del pellegrino toscano ne conversa con un Guido I di Montefeltro (1220 circa – 1298) invocante informazioni sulla sua Romagna, lui riportando il poeta la supremazia della suddetta famiglia sulla provincia di Ravenna e di Cervia (Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni), mentre le due aquile che ora sembrerebbero svolazzare oltre marmo, sono in realtà metalliche insegne montate su aste, alle quali l’Alighieri dona anima e movimento sul filo d’una mirabile fantasia intrisa di storici accenni.

La miserella intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
84 di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro»;
ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
87 come persona in cui dolor s’affretta,
«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io,
la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
90 a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»;
ond’elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
93 giustizia vuole e pietà mi ritene».

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Gustave Doré (1832-1883), La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri a cura di Henry Francis Cary (1772-1844), 1889 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Gustave Doré (1832-1883)
La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri
a cura di Henry Francis Cary (1772-1844), 1889

 
L’addolorata donna (miserella), che si trova in mezzo alla calca di cavalieri (intra tutti costoro), sembra (perdeva) dir: “Signore, rendimi giustizia per il mio figliolo (Segnor, fammi vendetta di mio figliuol) ch’è morto e per l’uccisione del quale io mi tormento (ond’io m’accoro)”;

e lui pare risponderle (ed elli a lei rispondere): “Ora aspetta ch’io ritorni” (Or aspetta tanto ch’i’ torni)”; indi lei (e quella), come persona nella quale il dolore metta premura (in cui dolor s’affretta): “Mio signore, se tu non dovessi tornare /se tu non torni)?”; e lui (ed ei): “Chi eventualmente mi sostituisse (fia dov’io), ti renderà giustizia (la ti farà)”; ed ella: “Gli altrui meriti a che ti gioveranno (L’altrui bene a te che fia), se non avrai assolto ai tuoi doveri (’l tuo metti in oblio)?”;

ond’egli (elli): “Ora confortati (Or ti conforta); poich’è opportuno ch’io adempia al (ch’ei convene ch’i’ solva) mio dovere prima ch’io parta (anzi ch’i’ mova): giustizia lo rende necessario e (vuole) e pietà mi trattiene (ritene) dal partire”.

Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
96 novello a noi perché qui non si trova.

Dio, colui alla quale vista mai nulla è novità (non vide cosa nova), produsse queste conversazioni udibili tramite lo sguardo (esto visibile parlare), stupefacenti solamente ai viventi (novello a noi) in quanto inesistenti (non si trova) sulla Terra (qui).

Mentr’io mi dilettava di guardare
l’imagini di tante umilitadi,
99 e per lo fabbro loro a veder care,
«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
102 questi ne ’nvïeranno a li alti gradi.»

Mentre l’Alighieri s’abbandona al piacere (Mentr’io mi dilettava) dell’osservare immagini tanto esemplari d’umiltà (di guardare l’imagini di tante umilitadi) e, per colui che ne sia il fautore (lo fabbro), preziose da vedere (a veder care), il virgilian vate (poeta) mormora (mormorava): “Ecco, arrivare dalla mia parte (di qua) molte anime (genti), in lentissima camminata (ma fanno i passi radi): coloro ci orienteranno alle Cornici sovrastanti (questi ne ’nvïeranno a li alti gradi)”.

Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti
per veder novitadi ond’e’ son vaghi,
105 volgendosi ver’ lui non furon lenti.

Gli (Li) occhi di Dante (miei), ancor gratificati nel rimirare (ch’a mirare eran contenti) gli altorilievi, non tentennano nel volgersi al duca (volgendosi ver’ lui non furon lenti), tant’è la lor brama (ond’e’ son vaghi) di scrutare cose nuove (per veder novitadi).

Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
108 come Dio vuol che ’l debito si paghi.

Dante, in staffetta con scrittore, si rivolge a questo punto al lettore (lettor): “Non voglio (vo’) però, che tu t’abbatta nei tuoi buoni propositi (ti smaghi di buon proponimento) nell’ascoltar (per udire) come Dio desidera che si espiino i propri peccati (vuol che ’l debito si paghi).

Non attender la forma del martìre:
pensa la succession; pensa ch’al peggio
111 oltre la gran sentenza non può ire.

Non soffermarti sulla condizione della pena (attender la forma del martìre): pensa al prosieguo (la succession); pensa che, nel peggiore dei casi (ch’al peggio) oltre il Giudizio universale la stessa non potrà prorogarsi (la gran sentenza non può ire).

A differenza dei reclusi nel regno infernale, per i quali la dannazione rimarrà eterna, per i penitenti purgatoriali non sarà così, in quanto la chiusura del Purgatorio verrà sancita lo stesso giorno del Giudizio universale.

Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
114 e non so che, sì nel veder vaneggio».

Il poeta manifesta (Io cominciai) al maestro la sua perplessità nel riconoscere come spiriti (non mi sembian persone) quelli che lui vede a loro due avvicinarsi (quel ch’io veggio muovere a noi) e di non esser in grado d’identificarli altrimenti (e non so che), dal tanto che la vista gli si scombussola (sì nel veder vaneggio)”.

Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
117 sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione.

Ed egli gli risponde (elli a me) esser la gravezza della loro pena a rannicchiarli al suolo (La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia), così che anche i suoi (sì che ’ miei) occhi, dapprincipio (pria), son rimasti incerti (n’ebber tencione).

Ma guarda fiso là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
120 già scorger puoi come ciascun si picchia».

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Purgatorio, Canto X • Guglielmo Giraldi, Codice Urbinate Latino 365, 1474-1482 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Guglielmo Giraldi, Codice Urbinate Latino 365, 1474-1482

 
Quindi Virgilio sprona il suo protetto a guardare in modo più fisso verso i penitenti (Ma guarda fiso là), per modo di riuscir a districare (e disviticchia) con lo sguardo (col viso) ciò che avviene (quel che vien) sotto a quei massi (sassi): ormai potrà discernere (già scorger puoi) come ciascun di loro si batta il petto (picchia).

O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
123 fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
126 che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
129 sì come vermo in cui formazion falla?

O superbi cristiani (cristian), sciagurati infelici, (miseri lassi), che, offuscati nella ragione (de la vista de la mente infermi), mantenete fiducia nel vostro marciare a ritroso (fidanza avete ne’ retrosi passi), non v’accorgete voi che noi siam vermi destinati (nati) a formar un’(l’)angelica farfalla, che, senza impedimenti terreni (sanza schermi) vola verso (a) la giustizia divina?

A che titolo la vostra anima s’imbaldanzisce (Di che l’animo vostro in alto galla), giacché (poi) non siete che insetti inesatti (quasi antomata in difetto), al pari di bruchi ai quali (sì come vermo in cui) s’intralci lo sviluppo (formazion falla)?

In sbuffante invettiva sospesa sul finir del Canto, il poeta scioglie su tre terzine le sue riflessioni in sentita e pacata filippica, scegliendo come aggancio della metamorfosi parole di Sant’Agostino riportate nella di lui opera In Iohannis Evangelium Tractatus: “Omnes homines de carne nascentes, quid sunt nisi vermes? Et de vermibus (Deus) angelos facit” – “Tutti gli uomini che nascono dalla carne, cosa sono se non vermi? E (Dio) da vermi li fa angeli”.

Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
132 si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
nascere ’n chi la vede; così fatti
135 vid’io color, quando puosi ben cura.

Come per sostenere (sostentar) un solaio o un tetto, a far veci di (per) mensola, talvolta si noti (vede) una figura umana giunger le ginocchia al petto, la quale (qual), con artificiale sofferenza ne origina di vera in coloro che l’osservino (fa del non ver vera rancura nascere ’n chi la vede), così il fiorentino vede i peccatori (fatti vid’io color), una volta osservatili con maggior concentrazione (quando puosi ben cura).

Vero è che più e meno eran contratti
secondo ch’avien più e meno a dosso;
138 e qual più pazïenza avea ne li atti,
139 piangendo parea dicer: ‘Più non posso’.

In verità sono più o meno piegati (Vero è che più e meno eran contratti) in base al peso del masso che portano addosso (secondo ch’avien più e meno a dosso); e colui ch’è d’atteggiamento maggiormente tollerante (e qual più pazïenza avea ne li atti), piangendo parrebbe dire (parea dicer): “Non posso sopportar oltre (Più non posso)”.

Avanzamento di Canto avverrà in esordio di preghiera: “O Padre nostro, che ne’ cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch’ai primi effetti di là sù tu hai…”
 
 
 
 

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