Divina Commedia: Purgatorio, Canto VIII
Cristoforo Dall’Acqua (1734-1787), Parnaso italiano, 1784
Ancor nella valletta dei principi negligenti, discepolo e maestro, sulla scia della sera che sostituisce la luminosità giornaliera, impreziosiscono il loro sguardo sulla visione di due luccicanti angeli in discesa dal cielo, venuti a viglilare la pacifica valle per osteggiare l’arrivo del maligno, che di lì a breve si presenterà sotto sembianze di serpente, nulla potendo contro la potenza dei messi celesti, di fronte alla prontezza dei quali la bestia parte in lesta ritirata.
I due viandanti proseguono accompagnati da un Sordello intensamente anelante di farli incontrare con le anime sottostanti, come difatti avviene, svelando alla mente del pellegrino le personalità di Ugolino Visconti, conosciuto come “Nino”, e Corrado II di Malaspina, grazie ai quali l’autore della Commedia ha modo di riagganciare temi a lui molto cari, quali le lotte di potere, nelle quali si trovò invischiato Visconti durante la sua esistenza, e l’esilio, il cui vago accenno viene affidata alla voce di Malaspina che ne dà presagio, amorevolmente allargandosi in seguito il discorso all’autentica integrità dell’omonimo casato, la cui ospitalità lenirà i tormenti di Dante nelle sue vesti d’esule.
La malinconica atmosfera che chiude il Canto è la medesima che l’apre, sulla delicata, poetica e profonda immagine dei marinai piegati sul tramonto nella nostalgia di casa, travolti fra sfumature della brezza serale ed un lontano suono di campane, metafora che ne cristallizza il sussulto dell’emozione sull’animo come fosse sfera celeste inabissatasi nelle marine onde.
Un eclissi d’uomo che avviene quando lontano dalla propria terra ed il cui passo, come l’Alighieri sperimentò in vita, sembra posarsi sul vuoto, nel baratro della solitudine.
Era già l’ora che volge il disio | |
ai navicanti e ‘ntenerisce il core | |
3 | lo dì c’han detto ai dolci amici addio; |
e che lo novo peregrin d’amore | |
punge, se ode squilla di lontano | |
6 | che paia il giorno pianger che si more; |
quand’io incominciai a render vano | |
l’udire e a mirare una de l’alme | |
9 | surta, che l’ascoltar chiedea con mano. |
Già s’e fatta l’ora che provoca nostalgia nei marinai (Era già l’ora che volge il disio ai navicanti), intenerendone il cuore (e ‘ntenerisce il core) sul ripensar al giorno in cui dissero (lo dì c’han detto) addio ai loro dolci amici, l’ora che trafigge di nostalgia (punge d’amore) il viaggiatore appena partito (lo novo peregrin), qualora oda in lontananza il suono delle campane (se ode squilla di lontano) che paiono piangere la giornata che sta giungendo al termine (il giorno pianger che si more), quando Dante s’appresta a vanificar il suo ascoltare (quand’io incominciai a render vano l’udire) al fin di virare interesse all’osservazione d’un’anima la quale, levatasi fra le altre (e a mirare una de l’alme sorta), chiede attenzione agitando la mano (che l’ascoltar chiedea con) mano.
Debutta in mesto getto poetico, l’autore della Commedia, rimando il calar della sera allo struggente rimebrar degli affetti più cari da parte degli uomini di mare, in eco al tintinnar di campane che, verosimilmente, si riferiscono alla Compieta, ossia conclusivo momento di preghiera del giorno, successivo ai vespri, con relativa campanella a richiamo, ultima delle ore canoniche.
Ella giunse e levò ambo le palme, | |
ficcando li occhi verso l’orïente, | |
12 | come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’. |
Ella congiunge ed alza ambedue le mani (Ella giunse e levò ambo le palme) al cielo, puntando lo sguardo verso oriente (ficcando li occhi verso l’orïente), quasi come stia dicendo (come dicesse) a Dio: “D’altro non m’interessa (non calme)”.
Essendo “l’orïente” il punto di nascita del sole, ritualità medievale consisteva nel porvi sguardo come invocazione divina.
‘Te lucis ante’ sì devotamente | |
le uscìo di bocca e con sì dolci note, | |
15 | che fece me a me uscir di mente; |
Dalla sua (di) bocca si vocalizza (le uscìo) il Te lucis ante con tale devozione (sì devotamente) e così tanta dolcezza di (e con sì dolci) note, da rapir l’anima del pellegrino (che fece me a me uscir di mente);
Il “Te lucis ante” è l’inizio dell’inno di Compieta con il quale, secondo il canone ambrosiano, si chiede la protezione di Dio per la notte.
e l’altre poi dolcemente e devote | |
seguitar lei per tutto l’inno intero, | |
18 | avendo li occhi a le superne rote. |
mentre le altre anime (e l’altre), altrettanto dolci (dolcemente) e devote, poi ne seguono (seguitar lei) l’intero inno, volgendo gli (avendo li) occhi alle celesti sfere (superne note).
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, | |
ché ’l velo è ora ben tanto sottile, | |
21 | certo che ’l trapassar dentro è leggero. |
In questo frangente l’Alighieri invita solennemente il lettore a tenere ben diretta la sua attenzione verso la verità (Aguzza lettor qui ben li occhi al vero), in quanto il significato allegorico è in questo caso talmente fievole (ché ’l velo è ora ben tanto sottile), ch’è certamente semplice passargli attraverso (certo che ’l trapassar dentro è leggero).
Per un attimo disabbigliandosi dalle sue vesti di peregrino, ai suoi amati lettori il toscan verseggiatore consiglia d’immergersi profondamente nella narrazione, per non cadere in fallaci interpretazioni, nonostante l’apparente linearità di quanto riportato.
Io vidi quello essercito gentile | |
tacito poscia riguardare in sùe, | |
24 | quasi aspettando, palido e umìle; |
e vidi uscir de l’alto e scender giùe | |
due angeli con due spade affocate, | |
27 | tronche e private de le punte sue. |
Il poeta nota quella moltitudine di nobili spiriti taciti poi guardare in su (Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sùe), pallidi ed umili (palido e umìle), quasi in segno d’attesa (aspettando), in secondo luogo vede apparire e discendere dal cielo (e vidi uscir de l’alto e scender giùe) due angeli con due spade infuocate (affocate), tronche e private della loro punta (de le punte sue).
Non vi è certezza assoluta sulla dantesca immagine delle spade spuntate, sebbene può esser che richiamino quelle dei due cherubini i quali, nel libro della Genesi, sorvegliano l’ingresso del Paradiso terrestre.
Verdi come fogliette pur mo nate | |
erano in veste, che da verdi penne | |
30 | percosse traean dietro e ventilate. |
Le loro vesti sono del medesimo verde di foglioline (Verdi come fogliette erano in veste) appena germogliate (pur mo nate), che alle loro spalle subiscono l’effetto di verdi ali (penne) provocanti lo sfarfallio dei tessuti (percosse traean dietro e ventilate).
L’un poco sovra noi a star si venne, | |
e l’altro scese in l’opposita sponda, | |
33 | sì che la gente in mezzo si contenne. |
Uno dei due angeli si posiziona di poco sopra i viandanti e la schiera di penitenti (L’un poco sovra noi a star si venne) e l’altro plana sull’opposto versante (e l’altro scese in l’opposita sponda), in maniera da contenere fra loro tutti i presenti (sì che la gente in mezzo si contenne).
Ben discernëa in lor la testa bionda; | |
ma ne la faccia l’occhio si smarria, | |
36 | come virtù ch’a troppo si confonda. |
Il discepolo ne discerne perfettamente (Ben discernëa in lor) la bionda capigliatura (testa); tuttavia il suo sguardo si smarrisce ne loro volto (ma ne la faccia l’occhio si smarria), come capacità sensoriale che venga sconvolta da eccessiva stimolazione (virtù ch’a troppo si confonda).
Il rimatore intende probabilmente dire che il fulgore proveniente dai visi dei due angeli è così potente d’abbagliarne la capacità visiva.
«Ambo vegnon del grembo di Maria», | |
disse Sordello, «a guardia de la valle, | |
39 | per lo serpente che verrà vie via.» |
Sordello dunque inizia a parlare (disse) spiegando ch’entrambi vengono (Ambo vegnon) dalla celeste dimora della Beata Vergine (del grembo di Maria), inviati per difendere la valletta (guardia de la valle) dal (per lo) serpente il cui arrivo (che verra) è imminente (vie via).
Ond’io, che non sapeva per qual calle, | |
mi volsi intorno, e stretto m’accostai, | |
42 | tutto gelato, a le fidate spalle. |
Pertanto Dante (Ond’io), che non sa da che direzione possa sopraggiungere (non sapeva per qual calle) la serpe, si guarda tutt’intorno (mi volsi intorno) e, completamente terrorizzato (tutto gelato), s’affianca (m’accostai) stretto al fidato Virgilio (a le fidate spalle).
E Sordello anco: «Or avvalliamo omai | |
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; | |
45 | grazïoso fia lor vedervi assai». |
Sordello, di nuovo parlando (anco), informa i due viandanti esser ormai il momento di scendere a valle (Or avvalliamo omai), fra i grandi spiriti (le grandi ombre), allo scopo d’intraprendere conversazione co gli stessi (e parleremo ad esse), dicendosi certo che si compiaceranno (grazïoso fia lor) assai del veder i due viaggiatori (vedervi).
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse, | |
e fui di sotto, e vidi un che mirava | |
48 | pur me, come conoscer mi volesse. |
La sensazione mnemonica del pellegrino è quella d’aver intrapreso discesa (credo ch’i’ scendesse), raggiungendo il suolo sottostante (e fui di sotto), in una manciata di (Solo tre) passi, nell’immediato notando un’anima intenta a scrutarlo (e vidi un che mirava pur me), come nel tentativo di riconoscerlo (conoscer mi volesse).
Rispetto al Canto precedente, ov’era Virgilio il protagonista assoluto, ora è il discepolo a ritornare al centro della scena, oggetto di curiose occhiate, d’altra parte già sperimentate più volte.
Temp’era già che l’aere s’annerava, | |
ma non sì che tra li occhi suoi e ’ miei | |
51 | non dichiarisse ciò che pria serrava. |
Già da un pezzo l’aria si sta scurendo (Temp’era già che l’aere s’annerava), ma, fra gli sguardi d’ambedue (tra li occhi suoi e ’ miei), non a tal punto (sì che) da impedire che la stessa riveli ciò che prima ciò che aveva celato (non dichiarisse ciò che pria serrava).
La vicinanza vince sulla penombra, concedendo reciproca identificazione.
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei: | |
giudice Nin gentil, quanto mi piacque | |
54 | quando ti vidi non esser tra ’ rei! |
I due s’avvicinano l’un l’altro (Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei), immensamente estasiandosi e consolandosi, l’Alighieri, al constatar che Ugolino Visconti (giudice Nin gentil) non sia fra i dannati relegati all’Inferno (quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ’ rei!)
Signore del giudicato di Gallura, “giudice Nin gentil” fu il nobile e politico Ugolino dei Visconti (1265-1298), soprannominato “Nino”, padre Giovanni Visconti di Gallura (?-1275) e nonno materno il celebre conte Ugolino della Gherardesca (1210 circa-1289), con il quale Nino, dopo essere rientrato a Pisa in seguito ad un lungo esilio insieme al padre ed altri familiari, si trovò a capitanare il popolo fino all’incrinarsi dei rapporti con il suo avo e conseguente proscrizione da parte del vescovo Ruggieri degli Ubaldini (?-1295), come già descritto nel Canto XXXIII dell’inferno.
Nullo bel salutar tra noi si tacque; | |
poi dimandò: «Quant’è che tu venisti | |
57 | a piè del monte per le lontane acque?». |
Il poeta e lo spirito non si risparmiano calorosi saluti (Nullo bel salutar tra noi si tacque); poi Visconti chiede (dimandò) al discepolo da quanto tempo sia giunto (Quant’è che tu venisti) ai piedi del Purgatorio (a piè del monte), attraverso (per le) acque lontane.
Le “lontane acque” indicano la vasta estensione marittima immaginata fra le bocche del fiume Tevere e la battigia purgatoriale.
«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi | |
venni stamane, e sono in prima vita, | |
60 | ancor che l’altra, sì andando, acquisti.» |
Dante gli risponde (diss’io lui) concitato d’esser arrivato durante la mattinata appena trascorsa (Oh! venni stamane), ma non via mare, bensì transitando attraverso l’infernal regno (per entro i luoghi tristi), spiegando d’esser vivente (e sono in prima vita), dunque non ancora in vita eterna (ancor che l’altra), però (ma) avendo intrapreso un percorso ch’egli s’augura gli permetta di meritarsi degnamente quest’ultima (sì andando, acquisti).
E come fu la mia risposta udita, | |
Sordello ed elli in dietro si raccolse | |
63 | come gente di sùbito smarrita. |
E non appena ascoltato quanto affermato dal pellegrino (E come fu la mia risposta udita), Sordello ed Ugolino (elli) indietreggiano (in dietro si raccolse) come coloro che vengano travolti da inaspettato ed estemporaneo sbigottimento (gente di sùbito smarrita).
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse | |
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado! | |
66 | vieni a veder che Dio per grazia volse». |
Sordello (L’uno) si rivolge a (volse) a Virgilio, mentre Visconti a un penitente (e l’altro a un) che sta seduto nelle vicinanze (sedea lì), gridando: “Sù, Corrado (Currado)! corri a vedere (vieni a veder) cosa dispose (che volse) Dio nella sua (per) grazia.
Il fatto che Sordello si giri repentinamente verso il vate, lascia presupporre che non avesse inteso la condizione di vivente del suo protetto, quasi a volerglielo sottolineare con lieve rimprovero per il fatto di non averglielo detto, ma non vi è certezza interpretativa a riguardo.
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado | |
che tu dei a colui che sì nasconde | |
69 | lo suo primo perché, che non lì è guado, |
quando sarai di là da le larghe onde, | |
dì a Giovanna mia che per me chiami | |
72 | là dove a li ’nnocenti si risponde. |
In un secondo momento (Poi), chiedendo all’Alighieri (vòlto a me): “In virtù (Per) di quella peculiare gratitudine (singular grado) che devi (tu dei) a colui che tiene segreto a tal punto (sì nasconde) le ragioni prime del suo agire (lo suo primo perché), in maniera da renderle imperscrutabili (che non lì è guado), quando sarai ritornato sulla terra (al di là da le larghe onde), dì alla mia Giovanna che possa intercedere (chiami) in quel luogo in cui (là dove) si risponde agli innocenti (a li ’nnocenti), ovvero in cielo.
Non credo che la sua madre più m’ami, | |
poscia che trasmutò le bianche bende, | |
75 | le quai convien che, misera!, ancor brami. |
Non credo che sua madre m’ami più, da che (poscia) svestì (trasmutò) le bianche bende, delle quali presto, sfortunata donna!, si rammaricherà (le quai convien che, misera!, ancor brami).
La madre di Giovanna fu Beatrice d’Este (1268-1334), figlia di Obizzo II d’Este (1247/52-1293) e vedova di Nino; in quel periodo l’abbigliamento previsto per il lutto consisteva di neri abiti, dai bianchi veli, che la stessa svestì per consolare a nuove nozze con Galeazzo dei Visconti di Milano, insieme al nuovo coniuge cacciata da Milano a soli due anni dal matrimonio.
Per lei assai di lieve si comprende | |
quanto in femmina foco d’amor dura, | |
78 | se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende. |
Dalle sue vicissitudini (Per lei) con estrema facilità (assai di lieve) si comprende quanto poco durevole sia in una donna l’ardente passione amorosa (in femmina foco d’amor dura), se lo sguardo ed il tatto frequentemente non s’adoperino di riaccenderla (se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende).
Non le farà sì bella sepultura | |
la vipera che Melanesi accampa, | |
81 | com’avria fatto il gallo di Gallura». |
La vipera sotto la cui effige sono i Visconti (la vipera che Melanesi accampa), non onorerà la sua tomba (Non le farà sì bella sepultura) come avrebbe fatto il gallo di Gallura”.
Maggior decoro avrebbe avuto Beatrice se a riverirne il sepolcro fosse stato lo stemma dei Gallura, con gallo a simbolo, al posto di quello dei Visconti, sul quale campeggia un’imponente vipera.
Così dicea, segnato de la stampa, | |
nel suo aspetto, di quel dritto zelo | |
84 | che misuratamente in core avvampa. |
Questo quanto dichiarato da Ugolino (così dicea), come se avesse stampato sul viso (segnato de la stampa, nel suo aspetto) tutto quanto (di) quel venerando sdegno (dritto zelo) che, seppur manifestato con equilibrata pacatezza (misuratamente), gli incendia il cuore.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, | |
pur là dove le stelle son più tarde, | |
87 | sì come rota più presso a lo stelo. |
Frattanto, lo smanioso sguardo del poeta si dirige (Li occhi miei ghiotti andavan) insistentemente (pur) al cielo, proprio nel punto (pur là) dove le stelle paiono (son) più lente (tarde), similmente ai raggi della ruota quando si trovano in prossimità del disco (sì come rota più presso a lo stelo).
La zona citata è quella della volta celeste, nei pressi del polo antartico.
E ’l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». | |
E io a lui: «A quelle tre facelle | |
90 | di che ’l polo di qua tutto quanto arde». |
E l’intuitivo duca, appellandolo “Figliuol” gli domanda cosa stia guardando lassù (che là sù guarde?), ricevendo in risposta dal suo protetto (E io a lui) l’esser concentrato sulla visione dei tre barlumi stellari (A quelle tre facelle) grazie alle quali tutto il cielo australe s’illumina (che ’l polo di qua tutto quanto arde).
Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle | |
che vedevi staman, son di là basse, | |
93 | e queste son salite ov’eran quelle». |
Onde il maestro gli spiega (Ond’elli a me) che le quattro brillanti (chiare) stelle che il discepolo aveva visto la mattina (vedevi staman), son tramontate all’orizzonte (di là basse), mentre queste tre son salite a sostituirle (ov’eran quelle).
Le quattro stelle mattutine rappresentano le virtù cardinali, ora rimpiazzate dalle tre che stanno a metaforizzare le virtù teologali.
Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse | |
dicendo: «Vedi là ’l nostro avversaro»; | |
96 | e drizzò il dito perché ’n là guardasse. |
Durante l’esposizione del vate (Com’ei parlava), Sordello lo tira (e il trasse) a sé spronandolo (dicendo) ad osservare, più in là, il loro nemico (Vedi là ’l nostro avversaro), indicandogli la zona con un dito (e drizzò il dito perché ’n là guardasse).
Il demonio, colui che Sordello definisce “nostro avversaro”, si presenta dunque sotto forma d’orripilante rettile.
Da quella parte onde non ha riparo | |
la picciola vallea, era una biscia, | |
99 | forse qual diede ad Eva il cibo amaro. |
Da quella parte dove la valletta (onde la picciola vallea) risulta più accessibile (non ha riparo), sosta (era) una biscia, forse la medesima che diede ad Eva l’infausto (amaro) frutto proibito (il cibo).
Tra l’erba e ’ fior venìa la mala striscia, | |
volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso | |
102 | leccando come bestia che si liscia. |
La malefica serpe (la mala striscia) avanzava strisciando (venìa ) tra fiori ed erba (l’erba e ’ fior), girando (volgendo) la testa in più versi (ad ora ad or), nel frattempo leccandosi il corpo (e ’l dosso leccando) come bestia che si lisci (lisci) il pelo.
Io non vidi, e però dicer non posso, | |
come mosser li astor celestïali; | |
105 | ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso. |
Dante non vede (Io non vidi), non potendo di conseguenza narrarlo (e però dicer non posso), in che maniera gli astori celesti spiccarono il volo (come mosser li astor celestïali), comunque ben comprendendo come entrambi già stessero volteggiando (ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso).
Sentendo fender l’aere a le verdi ali, | |
fuggì ’l serpente, e li angeli dier volta, | |
108 | suso a le poste rivolando iguali. |
Percependo l’aria solcata dalle (Sentendo fender l’aere a le) verdi ali il (’l) serpente si dà alla fuga (fuggì) e gli (li) angeli invertono la rotta (dier volta), riprendendo quota e volando accoppiati (rivolando suso iguali) verso le loro collocazioni (poste).
Non è dato comprendere in maniera inequivocabile se i due angeli rientrino ai cieli, oppure se con il termine “poste” s’intenda la zona nella quale si erano posizionati a ruolo di difensori.
L’ombra che s’era al giudice raccolta | |
quando chiamò, per tutto quello assalto | |
111 | punto non fu da me guardare sciolta. |
L’anima che all’appello di Visconti a lui s’era avvicinata (L’ombra che s’era al giudice raccolta quando chiamò), per tutta la durata di quell’offensiva (tutto quello assalto) non ha mai smesso di puntare lo sguardo sul pellegrino (punto non fu da me guardare sciolta).
«Se la lucerna che ti mena in alto | |
truovi nel tuo arbitrio tanta cera | |
114 | quant’è mestiere infino al sommo smalto», |
cominciò ella, «se novella vera | |
di Val di Magra o di parte vicina | |
117 | sai, dillo a me, che già grande là era. |
Ella poi inizia a parlare (cominciò): “Che la luce della grazia che ti conduce al regno celeste (Se la lucerna che ti mena in alto) possa trovare (truovi) nel tuo libero arbitrio tanta sostanza (cera) affinché tu possa meritarti il prato splendente (quant’è mestiere infino al sommo smalto) dell’Eden, a condizion che tu m’esponga (dillo a me), sempre che tu ne sappia (sai), informazioni attendibili (novella vera) sulla (di) Val di Magra o delle terre attigue (di parte vicina), ove un tempo io in quei luoghi io fui (che già era) grande.
Fui chiamato Currado Malaspina; | |
non son l’antico, ma di lui discesi; | |
120 | a’ miei portai l’amor che qui raffina.» |
Vissi al nome di Corrado (Fui chiamato Currado) Malaspina; non son l’antico ma suo discendente (di lui discesi); dedicai ai miei familiari un amore sproporzionato che in codesto loco si purifica (a’ miei portai l’amor che qui raffina).
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi | |
già mai non fui; ma dove si dimora | |
123 | per tutta Europa ch’ei non sien palesi? |
“Oh!”, esulta l’Alighieri in tutta risposta (diss’io lui), “nei vostri territori non sono mai stato (per li vostri paesi già mai non fui); ma vi è forse un luogo abitato (ma dove si dimora), per tutta Europa, dove gli stessi non ebbero fama (ch’ei non sien palesi)?
La fama che la vostra casa onora, | |
grida i segnori e grida la contrada, | |
126 | sì che ne sa chi non vi fu ancora; |
La nomea che rende onore al vostro casato (fama che la vostra casa onora), è acclamata dalle signorie e dal popolo (grida i segnori e grida la contrada), in maniera tale da portarne a completa conoscenza chi ancor non ne abbia notizie approfondite (sì che ne sa chi non vi fu ancora);
e io vi giuro, s’io di sopra vada, | |
che vostra gente onrata non si sfregia | |
129 | del pregio de la borsa e de la spada. |
e io vi giuro, così da guadagnarmi la risalita di codesto monte (s’io di sopra vada), che la vostra meritevole famiglia (onrata gente), ancor si pregia (non si sfregia del pregio) di munificenza e prodezza (de la borsa e de la spada).
Uso e natura sì la privilegia, | |
che, perché il capo reo il mondo torca, | |
132 | sola va dritta e ’l mal cammin dispregia.» |
Tradizioni familiari e natural indole (Uso e natura) la privilegiano i tal modo (sì la privilegia) che, per quanto l’intero modo possa deviare dalla retta via (perché il capo reo torca), da sola continua per la sua strada (va dritta), disdegnando malvagi percorsi (e ’l mal cammin dispregia).
Corrado II di Malaspina (?-1294), detto “il Giovane”, fu marchese di Villafranca in val di Magra, che l’Alighieri parrebbe citare non tanto per chissà quali virtù personali, ma per agganciarne il nome della casata, la medesima che, nel corso del tempo, mantiene intatte le sue autentiche caratteristiche di generosità e coraggio.
Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca | |
sette volte nel letto che ’l Montone | |
135 | con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, |
che cotesta cortese oppinïone | |
ti fia chiavata in mezzo de la testa | |
138 | con maggior chiovi che d’altrui sermone, |
139 | se corso di giudicio non s’arresta». |
E Malaspina (Ed elli): “Adesso prosegui (Or va), in quanto ancor prima che il sole si corichi (’l sol non si ricorca) sette volte nel letto che la costellazione dell’Ariete (che ’l Montone) ricopre e monta (cuopre e inforca) con le sue quattro zampe (con tutti e quattro i piè), che codesta (contesta) tua cortese opinione (oppinïone) ti verrà inchiodata nel profondo delle mente (ti fia chiavata in mezzo de la testa) con ragionamenti assai ben più corposi degli altrui discorsi (maggior chiovi che d’altrui sermone), se i decreti divini seguiteranno il loro moto (se corso di giudicio non s’arresta).
Le parole in chiusura di Canto si vestono di nefasta profezia, lui velatamente anticipando che, entro sette anni, il discepolo sperimenterà sulla sua stessa pelle la cortesia dei Malaspina, la famiglia che ospiterà il poeta durante il suo esilio.
In staffetta di Canto “La concubina di Titone antico già s’imbiancava al balco d’orïente, fuor de le braccia del suo dolce amico…”
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