Divina Commedia: Purgatorio, Canto VII
Gustave Doré (1832-1883)
Ancora in Alta ripa, nella terza Schiera, è tramite continuazione di colloquio con Sordello che ai due viandanti è offerta l’occasione d’osservare le anime dei principi negligenti, raccolti nella villetta dei principi ed intonanti in coro il Salve Regina, dei quali lo spirito conducente delinea esistenze fra peccati e virtù, partendo in escalation con l’elencarne i nominativi, frattanto tracciando storico contesto alla propria narrazione, aprendo il racconto con “Colui che più siede alto”, Rodolfo I d’Asburgo, poi chiudendolo con “Quel che più basso tra costor s’atterra”, ovvero Guglielmo VII del Monferrato.
Anticipatamente alla carrellata enunciante le suddette presenze, Sordello raccomanda ai due viaggiatori di non tentar scalata notturna, al contrario di trovar confortevole riparo dove indugiare fino all’arrivo del giorno successivo ed a tal fine conducendoli in un avvallamento custodito fra le rocce, lì dove un poetico Dante rende l’idea della magnificenza variopinta ed aromatica di Madre Natura, inimitabile da qualsiasi attività umana.
L’intero Canto, di politico sfondo quanto il precedente, di nuovo vede protagonista un Virgilio a colloquio con il provenzale poeta che ne ebbe immensa stima, srotolandosi fra rime in cui l’autore della Commedia generosamente decide di lasciar momentaneamente in disparte il personaggio che lo rappresenta, quel pellegrino stranamente silenzioso, tuttavia diligentemente affiancato al suo maestro e sempre in lui puramente fiducioso, in aggancio a quel duca a cui ruolo di primo piano viene ceduto con magnanima gentilezza.
È tramite ascolto, indi non per mezzo d’invettiva, che stavolta l’Alighieri porta alla ribalta discorsi di potere e buon governo, a lui tanto cari, sviscerandoli fra rime con toni più pacati ed inserendoli nella generale armonia che aleggia fra le anime le quali, in vita nemiche, ora stanno sedute una affianco all’altra in atto di conforto.
Un’evoluzione d’animo e sentimento parallela all’ascesa verso il celeste che rende remoti il terrificanti luoghi infernali poco tempo prima visitati, ora quasi dissoltisi alla mente nella sinfonica atmosfera purgatoriale.
con la noua espositione di Alessandro Vellutello, 1544
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Columbia University
Poscia che l’accoglienze oneste e liete | |
furo iterate tre e quattro volte, | |
3 | Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». |
Dopo (Poscia) che le distinte e gaie (oneste e liete) manifestazioni d’affetto (l’accoglienze) si sono ripetute più (furo ierate tre e quattro) volte, Sordello (Sordel) arretra (si trasse) e nuovamente chiede (disse) ai due viandanti chi siano (Voi, chi siete?).
«Anzi che a questo monte fosser volte | |
l’anime degne di salire a Dio, | |
6 | fur l’ossa mie per Ottavian sepolte. |
Immaginando Virgilio che lo spirito abbaia rivolto a lui il quesito, dandogli del “Voi”, dichiara: “Prima (Anzi) che a questo monte venissero indirizzate (volte) le anime ritenute degne di salire a Dio, le mie ossa furono sepolte da Ottaviano (fur l’ossa mie per Ottavian sepolte).
Con “Anzi che”, il maestro intende prima della catabasi, ovvero del discendere di Cristo nel regno infernale, fortuito evento che concesse agli spiriti del Limbo ritenuti meritevoli d’accedere al Purgatorio, previa espirazione dei propri peccati.
Virgilio visse infatti durante il regno d’Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.), come peraltro già dichiarato a settantunesimo verso del primo Canto dell’Inferno: “e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto”, morendo nel 19 a.C., pertanto anteriormente all’avvento del Cristianesimo.
Io son Virgilio; e per null’altro rio | |
lo ciel perdei che per non aver fé.» | |
9 | Così rispuose allora il duca mio. |
Io son Virgilio; e per null’altro peccato (rio) persi l’opportunità della visione celeste se non per il fatto di non aver avuto fede (lo ciel perdei che per non aver fé)”. In tal maniera risponde il (Così rispuose allora il mio) duca.
Non era mai successo, né tantomeno ricapiterà, che Virgilio pronunci direttamente il suo nome.
Qual è colui che cosa innanzi sé | |
sùbita vede ond’e’ si maraviglia, | |
12 | che crede e non, dicendo «Ella è … non è …», |
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, | |
e umilmente ritornò ver’ lui, | |
15 | e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia. |
E come (Qual è) colui che improvvisamente (sùbita) veda davanti a sé qualcosa (cosa innanzi sé vede) della quale si meraviglia (ond’e’ si maraviglia), al punto da stentarne a crederlo (che crede e non), chiedendosi se davvero sia o non sia quella (Ella è … non è …), in atteggiamento simile appare Sordello (tal parve quelli), quindi abbassando lo sguardo (e poi chinò le ciglia) e, con assoluta umiltà (umilmente), al vate di nuovo appressandosi (ritornò ver’ lui) ed abbracciandolo (abbracciòl) nel punto in cui è solito farlo chi si trovi in posizione d’inferiorità (là ’ve ’l minor s’appiglia).
Secondo usanze medievali o romane l’abbraccio di persone ritenute inferiori avveniva rispettivamente all’altezza delle ascelle o delle ginocchia.
«O gloria di Latin», disse, «per cui | |
mostrò ciò che potea la lingua nostra, | |
18 | o pregio etterno del loco ond’io fui, |
qual merito o qual grazia mi ti mostra? | |
S’io son d’udir le tue parole degno, | |
21 | dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra.» |
“O gloria degli italiani (di Latin)”, afferma (disse) l’anima, “grazie al quale (per cui) venne mostrata la potenzialità della nostra lingua (mostrò ciò che potea la lingua nostra), o perenne (etterno) orgoglio (pregio) della città nella quale nacqui (del loco ond’io fui), per qual merito o qual grazia è concesso che tu appaia alla mia vista (mi ti mostra)?”
Con “lingua nostra” ci si riferisce verosimilmente al latino ed ai suoi adeguamenti volgari.
«Per tutt’i cerchi del dolente regno», | |
rispuose lui, «son io di qua venuto; | |
24 | virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. |
Il duca risponde (rispuose lui) esser giunto al Purgatorio (son io di qua venuto) dopo aver attraversato ogni Cerchio dell’infernal (Per tutt’i cerchi del dolente) regno; mosso da volontà celeste (virtù del ciel mi mosse), la stessa che lo sostiene per tutto il tragitto (e con lei vegno).
Non per far, ma per non fare ho perduto | |
a veder l’alto Sol che tu disiri | |
27 | e che fu tardi per me conosciuto. |
Egli afferma di non aver perduto la possibilità della raggiante visione di Dio (a veder l’alto Sol), alla quale Sordello ambisce (che tu disiri), per una colpa commessa (Non per far), bensì per una mancanza (ma per non fare).
Il malinconico rammarico di Virgilio nel non potersi concedere la beatitudine della visione dell’Altissimo riemerge delicatamente fra terzine in un cruccio quasi udibile.
Luogo è là giù non tristo di martìri, | |
ma di tenebre solo, ove i lamenti | |
30 | non suonan come guai, ma son sospiri. |
Laggiù in quella zona dell’Inferno, il Limbo, vi è un luogo che non è afflitto da tormenti fisici (è là giù non tristo di martìri), ma solamente avvolto da tenebrose oscurità (ma di tenebre solo), ove i gemiti (lamenti) non riecheggiano come strazianti mugolii (non suonan come guai), ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti | |
dai denti morsi de la morte avante | |
33 | che fosser da l’umana colpa essenti; |
Ivi il maestro sta in compagnia (sto coi) d’innocenti fanciulli (pargoli), rapiti dalla (dai denti morsi de la) morte prima che potessero esser purificati dal peccato originale (avante che fosser da l’umana colpa essenti), tramite battesimo;
quivi sto io con quei che le tre sante | |
virtù non si vestiro, e sanza vizio | |
36 | conobber l’altre e seguir tutte quante. |
in quel posto Virgilio sosta con coloro che furono privi (non si vestiro) delle (quivi sto io con quei che le tre sante) teologali, seppur, senza (sanza) vizio alcuno, intendendo ed esercitando nell’insieme quelle cardinali (conobber l’altre e seguir tutte quante).
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio | |
dà noi per che venir possiam più tosto | |
39 | là dove purgatorio ha dritto inizio.» |
Ma, a condizione che sia nelle competenze e nelle possibilità di Sordello, sappia e possa (se tu sai e puoi), il vate ritorna a chiedergli di fornir a lui ed al suo protetto (dà noi) alcune indicazioni (alcuno indizio) affinché il due scalatori possano arrivare quanto prima (per che venir possiam più tosto) nel punto in cui (là dove) il Purgatorio ha effettivamente (dritto) inizio.
Rispuose: «Loco certo non c’è posto; | |
licito m’è andar suso e intorno; | |
42 | per quanto ir posso, a guida mi t’accosto. |
Sordello risponde (Rispuose) a lor penitenti non esser stato assegnata una postazione precisa (Loco certo non c’è posto); che gli sia concesso spostarsi in lungo ed in largo (licito m’è andar suso e intorno) e, fin dove gli sia possibile (per quanto ir posso), affiancherà il duca conducendone il tragitto (a guida mi t’accosto).
Nonostante a Sordello sia consentito vagare in ampie direzioni, non gli è ovviamente permesso superare la soglia dell’Antipurgatorio.
Ma vedi già come dichina il giorno, | |
e andar sù di notte non si puote; | |
45 | però è buon pensar di bel soggiorno. |
Lo spirito raccomanda inoltre al maestro di valutare l’imminente giunger della sera (Ma vedi già come dichina il giorno), lui anticipando come sia impraticabile una risalita notturna (e andar sù di notte non si puote), pertanto consigliandogli di cercar, per lui e per il suo protetto, un posto che sia idoneo al pernottamento (però è buon pensar di bel soggiorno).
Manoscritto Yates Thompson, 1444-1450
Anime sono a destra qua remote; | |
se mi consenti, io ti merrò ad esse, | |
48 | e non sanza diletto ti fier note». |
Aggiunge che alla loro destra (a destra qua) sono appartate (remote) delle anime dalle quali, se Virgilio lo consente (se mi consenti), egli desidera condurlo (io ti merrò ad esse), immaginando possa garbargli conoscerle (e non sanza diletto ti fier note).
Quelle anime “remote” alle quali Sordello si riferisce sono i negligenti dell’Antipurgatorio, equiparati nella pena dall’essersi pentiti in ultimo respiro, istante che sebben abbia loro garantito la salvezza eterna, non risparmia loro espiante penitenza, in durata di tempo corrispondente a quello trascorso sulla terra, ove non furono in grado di sottoporsi a costrizione alcuna.
Ohi «Com’è ciò?», fu risposto. «Chi volesse | |
salir di notte, fora elli impedito | |
51 | d’altrui, o non sarria ché non potesse?» |
Il vate, in esclamazione (Ohi) di risposta (fu risposto), chiede se chi eventualmente volesse comunque tentar scalata (salir) di notte, possa venir ostacolato da qualcuno (fora elli impedito d’altrui), oppure se ciò non sarebbe fattibile per mera difficoltà fisica di risalita (o non sarria ché non potesse).
E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito, | |
dicendo: «Vedi? sola questa riga | |
54 | non varcheresti dopo ’l sol partito: |
non però ch’altra cosa desse briga, | |
che la notturna tenebra, ad ir suso; | |
57 | quella col nonpoder la voglia intriga. |
E il (’l ) buon Sordello sfrega (fregò) dunque un dito in terra per dimostrare al duca (Vedi?) che, in tal caso, non riuscirebbe a superare nemmeno quella (non varcheresti sola questa) riga, dal peccatore appena tratteggiata sul suolo, dopo il tramonto (’l sol partito): nessuna altra cosa costituirebbe impedimento (non però ch’altra cosa desse briga) al risalire (ad ir suso), se non la tenebrosa oscurità (tenebra) notturna; quella che, rendendo impossibile l’arrampicata (col nonpoder), si fa baston fra ruote al desio della stessa (la voglia intriga).
La Divina Commedia, 1965
Salani Arti e Scienze
Ben si poria con lei tornare in giuso | |
e passeggiar la costa intorno errando, | |
60 | mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso». |
In fase di tenebra (Con lei) si potrebbe semmai ridiscendere (tornare in giuso) verso il litorale e marciare (passeggiar) costeggiando (intorno errando) il versante (la costa) del monte.
Allora il mio segnor, quasi ammirando, | |
«Menane», disse, «dunque là ’ve dici | |
63 | ch’aver si può diletto dimorando.» |
Allora punto il maestro (mio segnor), quasi stupendosi (ammirando), dice (disse) a Sordello di condurli (Menane) dunque in quel luogo da lui proposto (là ’ve dici), nel quale si possa piacevolmente (ch’aver si può diletto) soggiornare (dimorando).
Poco allungati c’eravam di lici, | |
quand’io m’accorsi che ’l monte era scemo, | |
66 | a guisa che i vallon li sceman quici. |
Da poco i due poetanti si sono allontanati da dove si trovavano (Poco allungati c’eravam di lici), quando Dante (quand’io) s’accorge che la montagna presenta uno scoscendimento (m’accorsi che ’l monte era scemo), similmente a come le valli (a guisa che i vallon) infossano (sceman) i monti (li) sulla terra (quici).
«Colà», disse quell’ombra, «non n’anderemo | |
«Colà», disse quell’ombra, «non n’anderemo | |
69 | e là il novo giorno attenderemo.» |
E lo spirito (quell’ombra) dichiara (disse) che andranno nel punto in cui (Colà non n’anderemo dove) la parete montuosa (costa) s’avvalla (face di sé grembo) e là attenderanno (attenderemo) il nuovo giorno.
Tra erto e piano era un sentiero schembo, | |
che ne condusse in fianco de la lacca, | |
72 | là dove più ch’a mezzo muore il lembo. |
Fra la parte ripida e la pianeggiante (Tra erto e piano) c’è (era) un sentiero trasverso (schembo), che conduce il trio sull’orlo dell’avvallamento (che ne condusse in fianco de la lacca), là dove il margine si riduce più della metà (più ch’a mezzo muore il lembo).
Oro e argento fine, cocco e biacca, | |
indaco, legno lucido e sereno, | |
75 | fresco smeraldo in l’ora che si fiacca, |
da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno | |
posti, ciascun saria di color vinto, | |
78 | come dal suo maggiore è vinto il meno. |
Polvere d’oro e puro (fine) argento, carminio (cocco) e bianco di zinco (biacca), indaco, lignis brillante e cristallino (legno lucido e sereno) e smeraldo splendente (fresco) come all’atto della macerazione (in l’ora che si fiacca), nell’insieme adagiati in quella conca (dentr’a quel seno
posti) sarebbero tutti quanti vinti dai colori (ciascun saria di color vinto) dell’(da l’)erba e dei fiori (da li fior), come ciò che è minore viene vinto da ciò che gli è maggiore in maniera corrispondente (come dal suo maggiore è vinto il meno).
Il lignis era una pietra preziosa delle Indie.
Non avea pur natura ivi dipinto, | |
ma di soavità di mille odori | |
81 | vi facea uno incognito e indistinto. |
La natura, in quella minuscola valle (ivi), son solamente aveva (aveva) dipinto, ma aveva effuso la gradevolezza (di soavità) di mille profumi (odori) in uno solo, ignoto ed ineffabile (vi facea uno incognito e indistinto).
L’autore della Commedia raggruppa cinque colori tipici della pittura gotica e due pietre di pregiato valore al fine di paragonarli alla beltà della natura, alla quale li ritiene nettamente nettamente secondari come bellezza.
‘Salve Regina’ in sul verde e ’n su’ fiori | |
quindi seder cantando anime vidi, | |
84 | che per la valle non parean di fuori. |
La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri
a cura di Henry Francis Cary (1772-1844), 1889
Quindi il pellegrino nota (vidi) delle anime, sedute fra erba e fiori (in sul verde e ’n su’ fiori seder), cantare ‘Salve Regina’, le quali, dall’esterno della valletta, non si potevano vedere od udire (che per la valle non parean di fuori).
‘Salve Regina’ è inno liturgico penitenziale del venerdì sera, fin dal dodicesimo secolo, attraverso il quale i penitenti si rivolgono in invocazione alla Vergine Maria nel desiar l’osservazione divina.
«Prima che ’l poco sole omai s’annidi», | |
cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti, | |
87 | «tra color non vogliate ch’io vi guidi. |
Di questo balzo meglio li atti e ’ volti | |
conoscerete voi di tutti quanti, | |
90 | che ne la lama giù tra essi accolti. |
Il mantovano Sordello (l Mantoan), che in quel luogo ha condotto i due viandanti (ci avea vòlti), riprende a parlare (cominciò) dicendo loro di non desiderar (non vogliate), prima del tramonto (che ’l poco sole omai s’annidi), d’esser da lui stesso condotti fra quegli spiriti (tra color ch’io vi guidi), in quanto i due viaggiatori ne potranno più adeguatamente osservare visi e gestualità (meglio li atti e ’ volti conoscerete voi di tutti quanti) dalla sponda in cui si trovano (Di questo balzo), rispetto a come li vedrebbero se si trovassero alle stesse anime mischiati sul fondo dell’incavo (che ne la lama giù tra essi accolti).
Colui che più siede alto e fa sembianti | |
d’aver negletto ciò che far dovea, | |
93 | e che non move bocca a li altrui canti, |
Rodolfo imperador fu, che potea | |
sanar le piaghe c’ hanno Italia morta, | |
96 | sì che tardi per altri si ricrea. |
Quindi Sordello inizia l’elenco partendo da colui che sta seduto (siede) più in alto e che appare (fa sembianti) come chi abbia mancato d’adempiere ai propri doveri (d’aver negletto ciò che far dovea), che rimane in silenzio, senza unirsi ai cori del canto (e che non move bocca a li altrui canti) e che fu l’imperatore (imperador) Rodolfo, l’uomo che avrebbe potuto sanare le disgrazie che hanno ucciso (che potea sanar le piaghe c’ hanno morta) l’Italia, per modo che troppo tardi sarebbe per chi volesse tentar di sovvenire (sì che tardi per altri si ricrea) alla situazione attuale.
L’altro che ne la vista lui conforta, | |
resse la terra dove l’acqua nasce | |
99 | che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: |
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce | |
fu meglio assai che Vincislao suo figlio | |
102 | barbuto, cui lussuria e ozio pasce. |
L’altro che, a guardarlo, sembrerebbe fornirgli conforto (L’altro che ne la vista lui conforta), governò il paese (resse la terra) dove s’origina (nasce) l’acqua che la Moldavia incanala nell’Elba (che Molta in Albia) e l’Elba convoglia nel mare ( Albia in mar ne porta): si chiamò Otakar (Ottacchero ebbe nome) e, già quand’era bambino (ne le fasce), diede prova d’esser alquanto migliore (fu meglio assai) del (che) suo barbuto figlio Venceslao (Vincislao), che trascorre la sua esistenza (cui pasce) fra ozio e lussuria.
Rodolfo I d’Asburgo (1218-1291) fu sovrano di Germania che durante il suo regno s’adoperò per per ingrandire i territori ricevuti in eredità, nell’intenzione di poi trasferirli al figlio Alberto I d’Asburgo (1255-1308); suo acerrimo nemico fu il re di Boemia Otakar II Premysl (1233-1278), privato dei propri possedimenti, e poi ucciso in fase di battaglia, dallo stesso Rodolfo, a Dürnkrut.
Figlio do Otakar fu Venceslao II di Boemia (1271-1305), colui che attraverso oculate strategie matrimoniali divenne uno dei più potenti sovrani europei dell’epoca.
E quel nasetto che stretto a consiglio | |
par con colui c’ha sì benigno aspetto, | |
105 | morì fuggendo e disfiorando il giglio: |
guardate là come si batte il petto! | |
L’altro vedete c’ha fatto a la guancia | |
108 | de la sua palma, sospirando, letto. |
E quel nasetto che pare stretto ad adunanza (a consiglio par) con colui dalle sembianze tanto bonarie (c’ha sì benigno aspetto), morì fuggendo e sfiorando (disfiorando) il giglio: Sordello incita i due poeti a rivolgere sguardo verso il penitente indicato (guardate là), al fin di notarne quanto ora si batta (come si batte) il petto per rimorso! E che i due peregrini guardino (vedete) anche l’altra anima (L’altro) il quale, sospirando, sta perennemente con la guancia appoggiata nel palmo della sua mano (c’ha fatto a la guancia de la sua palma letto).
Padre e suocero son del mal di Francia: | |
sanno la vita sua viziata e lorda, | |
111 | e quindi viene il duol che sì li lancia. |
I due son rispettivamente padre e suocero delle sciagure (mal) della Francia: la consapevolezza di quanto le condotte all’interno della nazione (la vita sua) siano traviate e feroci (viziata e lorda) è causa del tormento che tanto li affligge (e quindi viene il duol che sì li lancia).
L’appellativo “nasetto” fu in capo al re di Francia Filippo III (1245-1285), detto l’Ardito, morto in celere figa dalla Catalogna dove le sue truppe erano state decimate sia dalla peste che dal re Pietro III d’Aragona (1240-1285) ed il riferimento al disfioramento del giglio richiama il disonore ai danni del floreale stemma della casa di Francia, motivo che ora lo porta a battersi insistentemente il petto in segni di pentimento in particolare modo al pensiero del figlio Filippo IV (1268-1314), detto il Bello e ritenuto il “mal di Francia”.
Colui invece tanto vicino a Filippo III, che sconsolato si tiene la guancia nel palmo della mano, fu il re di Navarra, nonché suocero di Filippo IV, Enrico I, detto il Grasso, nato dopo il 1238 e morto soffocato dal proprio tessuto adiposo, nel 1274.
Quel che par sì membruto e che s’accorda, | |
cantando, con colui dal maschio naso, | |
114 | d’ogne valor portò cinta la corda; |
Quello dall’aspetto così gagliardo (Quel che par sì membruto) e che s’accorda nel canto (cantando) con colui che ha (dal) un naso protuberante (maschio), d’ogni virtù cavalleresca fu ornato (d’ogne valor portò cinta la corda);
Colui che s’unisce al canto “con colui dal maschio naso”, visse nella persona succitata di Pietro III d’Aragona, ora unito in coro a Carlo I d’Angiò (1226-1285), volto da naso sporgente al quale lo stesso Pietro III sottrasse l’isola di Sicilia, divenendone sovrano.
e se re dopo lui fosse rimaso | |
lo giovanetto che retro a lui siede, | |
117 | ben andava il valor di vaso in vaso, |
che non si puote dir de l’altre rede; | |
Iacomo e Federigo hanno i reami; | |
120 | del retaggio miglior nessun possiede. |
e qualora dopo di lui fosse rimasto sul trono (se re dopo lui fosse rimaso) il giovincello (lo giovanetto) che gli siede dietro (retro a lui), degno sarebbe stato il passaggio di valore (ben andava il valor di vaso in vaso), cosa che non si può affermare per gli altri suoi discendenti (non si puote dir de l’altre rede); difatti Giacomo e Federico padroneggiano le terre ereditate (Iacomo e Federigo hanno i reami), al contrario (ma), della virtù (del retaggio miglior) paterna, nessun dei due possiede nulla.
Il “giovanetto” visse come Alfonso III (1265-1291), detto il liberale e figlio di Pietro III d’Aragona e Costanza II di Sicilia (1249-1302), a sua volta figlia del sovrano Manfredi di Sicilia (1232-1266), succeduto al trono paterno nel 1285, ma purtroppo precocemente deceduto un sessennio più tardi.
Rade volte risurge per li rami | |
l’umana probitate; e questo vole | |
123 | quei che la dà, perché da lui si chiami. |
Raramente (Rade volte) succede che le virtù umane (l’umana probitate) si trasmettano per genealogia (risurge per li rami); e questo succede per volontà divina (e questo vole quei che la dà), affinché sia solo a lui che si possa chiederle (perché da lui si chiami).
La terzina racchiude il significato ideologico dell’intero sermone di Sordello, vale a dire, secondo l’assunto che difficilmente il valore dell’animo si trasmetta per genetica, a Dio, e solo a lui, resta la sacrosanta prerogativa d’effondere la virtù umana.
Anche al nasuto vanno mie parole | |
non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta, | |
126 | onde Puglia e Proenza già si dole. |
Sordello riferisce esser destinato il suo discorso anche allo spirito dal grande naso (Anche al nasuto vanno mie parole), oltre che all’(non men ch’a l’)altro, Pier, che con lui canta, dato che sia l’Italia meridionale che la Provenza (onde Puglia e Proenza) già lo rimpiangono.
Tant’è del seme suo minor la pianta, | |
quanto, più che Beatrice e Margherita, | |
129 | Costanza di marito ancor si vanta. |
Tant’è vero (Tant’è) che il bocciolo (pianta) è peggiore (minor) del suo seme, tanto quanto, più di (che) Beatrice e Margherita, possa vantarsi Costanza del consorte (di marito ancor si vanta) ormai defunto.
Le parole di Sordello si riferiscono tanto a Pietro III d’Aragona, quanto a Carlo d’Angiò, tanto compianto, in quanto suo figlio, Carlo II d’Angiò (1254-1309), detto lo zoppo, sovrano decisamente peggiore del padre.
Vedete il re de la semplice vita | |
seder là solo, Arrigo d’Inghilterra: | |
132 | questi ha ne’ rami suoi migliore uscita. |
I due scalatori vengono quindi spronati a guardare (vedete) il sovrano dalla (il re de la) semplice vita che seder in tutta solitudine (seder là solo), Arrigo d’Inghilterra: costui lascio discendenti migliori (questi ha ne’ rami suoi migliore uscita).
Arrigo, o Enrico, III d’Inghilterra (1207-1272), storicamente noto per la sua ingenuità, il cui figlio, Edoardo I (1239-1307), condusse regno in magnera eccellente.
Quel che più basso tra costor s’atterra, | |
guardando in suso, è Guiglielmo marchese, | |
135 | per cui e Alessandria e la sua guerra |
136 | fa pianger Monferrato e Canavese.» |
Quello che invece romane seduto più in basso di tutti gli altri (Quel che più basso tra costor s’atterra), sguardo rivolto all’insù (guardando in suso), è il marchese Guglielmo (Guiglielmo), per il quale (e) Alessandria con (e) la sua guerra fanno piangere (fa pianger) il Monferrato e il Canavese.
“Quel che più basso tra costor s’atterra” fu il conte del Monferrato Guglielmo VII (1240-1292), posto a sguardo in su nel testimoniare la sua inferiorità di rango, morto per mano degli alessandrini e per portar vendetta al quale, il di lui figlio Giovanni I del Monferrato (1275-1305) scatenò una battaglia coinvolgente l’intero Monferrato che, ai tempi, comprendeva la regione fra Torino ed Ivrea (Canavese).
Trascorrendo il tempo sulle parole di Sordello e scavalcando pagine di Canto, “Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio…”
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