Divina Commedia: Purgatorio, Canto III
Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), Ritrovamento del corpo di Manfredi, 1266
Sparpagliatesi le anime su richiamo di Catone, al ricordo del quale il maestro appare profondamente afflitto, i due viandanti proseguono incerti su quale sia il tragitto più facilmente percorribile e proprio alle medesime anime dei contumaci, ovvero i morti scomunicati, si rivolgono in cerca d’aiuto.
Accorgendosi il pellegrino di come la luce solare si frapponga sul terreno, al passaggio sul proprio fisico, ma notando un’unica ombra in quanto il solo, nell’Oltretomba, ad avere un corpo in carne ed ossa, subitaneo timore d’esser stato abbandonato dalla sua guida lo assale, ragion per cui egli si volta per accertarsi della presenza del suo duca il quale, rimproverandolo delicatamente, com’è consono alla sua premurosa indole nei confronti del discepolo, l’incita ad abbandonar qualsiasi dubbio che, essendo il suo un percorso benvoluto dall’Ente Supremo, sarebbe vano ed insensato.
Egli introduce poi il concetto dell’impossibilità, da parte dell’intelletto, di scandagliare ogni mistero, le cui redini vengono mosse dal Creatore secondo enigmatici disegni ostici alla mente umana ed il tal concetto aleggia sull’intero Canto, dando modo al verseggiatore toscano di sottolineare, per l’ennesima volta, la dilagante corruzione della Chiesa, ormai inidonea a leggere la purezza del pentirsi nell’animo umano, indi incapace di misericordiosa indulgenza, in quanto offuscata nel profondo dalla propria brama di potere.
Dopo breve delucidazione di Virgilio allo stupirsi, da parte delle anime, sulla visione dell’ombra di Dante, una di esse prende la parola dichiarandosi essere Manfredi di Svevia, uomo pentitosi in punto di morte delle proprie colpe e pertanto risparmiato al regno infernale.
Il dubbio che la figlia lo creda relegato alla dannazione eterna, lo spinge a chiedere all’Alighieri se lo stesso, una volta ritornato sul mondo, possa riferirle la sua reale collocazione fra gli spiriti destinati alla redenzione, lui raccomandando che non si dimentichi di spiegarle quanto le preghiere dei viventi possano ridurre la durata delle pene.
È lo stesso Manfredi, a tal proposito, il primo penitente ad esplicare inoltre come, per chi sia stato scomunicato come lo fu lui stesso, si debba sostare, nella prima Schiera dell’Antipurgatorio, a lato del promontorio per un lasso di tempo che corrisponda a trenta volte quello in cui, nella vita terrestre, ci si sia dedicati ad attività non conformi alla volontà divina.
Volontà che viene descritta come nettamente superiore alle decisioni ecclesiastiche, in una sorta d’infinito amore che, previo sincero pentimento, si presti a concedere perdono, non per questo evitando di disporre determinate modalità d’espiazione dei propri peccati, contemporaneamente ed ovviamente surclassando le decisioni del clero.
Ed è forse la sincerità del pentirsi che convinse Dante ad immaginare il Purgatorio come luogo ideale per il Manfredi, al contrario di quanto successe per Guido da Montefeltro, al contrario relegato tra i consiglieri fraudolenti dell’ottavo Cerchio infernale, in quanto, agli occhi del poeta, divenuto francescano nella sola illusione di guadagnarsi la salvezza eterna, ma senza realmente mortificarsi delle proprie malefatte: “Francesco venne poi, com’io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar; non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini; ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente” (Inferno, Canto XXVII, 112-120).
L’autore della Commedia, a metà fra l’immedesimarsi nel peregrino ed il sapersi verseggiatore dell’intera storia, delinea, con elegante garbo ed affezionato sentire, un Virgilio incredibilmente sensibile, onesto, dignitoso, ma smisuratamente sconsolato nella sua consapevolezza che l’esser stato destinato al Limbo mai gli concederà la grazia della visione divina, intima sofferenza che tuttavia non lo esime dal manifestarsi generosamente compiaciuto che al suo caro protetto sia invece concesso vivere la celestiale esperienza.
Avvegna che la subitana fuga | |
dispergesse color per la campagna, | |
3 | rivolti al monte ove ragion ne fruga, |
i’ mi ristrinsi a la fida compagna: | |
e come sare’ io sanza lui corso? | |
6 | chi m’avria tratto su per la montagna? |
Nonostante (Avvegna che) l’immediata (subitana) fuga abbia disseminato (dispergesse) i penitenti (color) sul litorale (per la campagna), indirizzandoli (rivolti) al monte dove la giustizia divina li perseguita (ove ragion ne fruga), il pellegrino ancor più si stringe alla sua fidata guida (i’ mi ristrinsi a la fida compagna): e come potrebbe infatti dirigersi, egli si chiede fra sé e sé, senza la stessa (sare’ io sanza lui corso)? chi lo condurrebbe nella scalata alla (chi m’avria tratto su per la) montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso: | |
o dignitosa coscïenza e netta, | |
9 | come t’è picciol fallo amaro morso! |
Al discepolo il maestro appare in preda ad una sorta di rammarico (El mi parea da sé stesso rimorso): oh qual terribile afflizione s’origina in lui al minimo sbaglio (o come t’è picciol fallo amaro morso!), si dice il poeta riflettendo sulla meritevole e tersa coscienza (dignitosa coscïenza e netta) del suo duca.
L’Alighieri intimamente coglie il cruccio del vate seguito al rimprovero di Catone ed amorevolmente adagia fra versetti il suo sincero dolersene.
Quando li piedi suoi lasciar la fretta, | |
che l’onestade ad ogn’atto dismaga, | |
12 | la mente mia, che prima era ristretta, |
lo ’ntento rallargò, sì come vaga, | |
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio | |
15 | che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga. |
Quando il passo di Virgilio attenua quella (li piedi suoi lasciar la) fretta che indebolisce il decoro di qualsivoglia atteggiamento (che l’onestade ad ogn’atto dismaga), l’attenzione di Dante (la mente mia), che fino a pochi istanti prima era compunta (ristretta), s’allarga nell’intenzione d’altro comprendere (lo ’ntento rallargò sì come vaga), egli pertanto rivolge lo sguardo all’altura (e diedi ’l viso mio incontr’al poggio) che, fuoriuscendo dalle acque (si dislaga), s’erge verso l’estreme altezze celesti (che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga).
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, | |
rotto m’era dinanzi a la figura, | |
18 | ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio. |
Il sole (Lo sol), che alle spalle del pellegrino fiammeggia rosseggiante (che dietro fiammeggiava roggio), si frastaglia davanti alla sua (rotto m’era dinanzi a la) figura, a causa dell’impedimento (l’appoggio) che il di lui fisico costituisce per i (ch’avëa in me de’) suoi raggi.
Il discepolo, con estremo stupore, s’accorge d’esser l’unico ad avere un’ombra ed il che avviene in quanto, uomo vivente fra anime ormai prive delle spoglie mortali, il solo ad avere un corpo materiale.
Io mi volsi dallato con paura | |
d’essere abbandonato, quand’io vidi | |
21 | solo dinanzi a me la terra oscura; |
e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?», | |
a dir mi cominciò tutto rivolto; | |
24 | «non credi tu me teco e ch’io ti guidi? |
Dunqu’egli si volge allato nel timor (Io mi volsi dallato con paura) d’essere stato abbandonato, notando esser la terra ombreggiata solamente davanti a lui (quand’io vidi solo dinanzi a me la terra oscura);
indi il suo confortante maestro (e ’l mio conforto) gli chiede la ragion per cui perseveri nel diffidare (Perché pur diffidi?), proseguendo nel discorso rivolgendosi al suo protetto con sentito trasporto (dir mi cominciò tutto rivolto) e domandandogli come lo stesso possa anche sol dubitar della sua costante presenza e conduzione (non credi tu me teco e ch’io ti guidi?);
Vespero è già colà dov’è sepolto | |
lo corpo dentro al quale io facea ombra; | |
27 | Napoli l’ ha, e da Brandizio è tolto. |
poi gli spiega esser già sera (Vespero è già) nel luogo in cui fu (colà dov’è) sepolto il (lo) corpo dentro al quale anche lui stesso, quando ancor in vita, faceva (io facea) ombra; Napoli lo possiede (l’ha), mentre da Brindisi è stato levato (e da Brandizio è tolto).
Il mantovan vate, morto a Brindisi, venne difatti sepolto a Posillipo.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra, | |
non ti maravigliar più che d’i cieli | |
30 | che l’uno a l’altro raggio non ingombra. |
Ora, se davanti al duca non s’origina ombra alcuna (se innanzi a me nulla s’aombra), che l’Alighieri non si meravigli in maniera maggiore di quanto non faccia (non ti maravigliar più che) nei confronti del fatto che i raggi dei differenti cieli non si sovrappongano fra loro (d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra).
I cieli del Paradiso si accavallano senza oscurarsi l’un con l’altro e permettendo alla luce d’attraversarli in completa nitidezza.
A sofferir tormenti, caldi e geli | |
simili corpi la Virtù dispone | |
33 | che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. |
Allo stesso modo, disposizioni dell’autorità divina (la Virtù dispone) prevedono che i corpi delle anime, similmente diafani (simili) patiscano supplizi (A sofferir tormenti), caldo e gelo (caldi e geli), senza che la stessa conceda di svelar agli spiriti (non vuol ch’a noi si sveli) come riesca a farlo (come fa).
Matto è chi spera che nostra ragione | |
possa trascorrer la infinita via | |
36 | che tiene una sustanza in tre persone. |
Folle è colui nel quale germini speranza (Matto è chi spera) che l’uman intelletto (nostra ragione) possa perlustrare (trascorrer) l’(la)infinita via che racchiude un’unica sostanza (che tiene una sustanza) in tre persone, ovvero il mistero della Santissima Trinità.
La saggia guida intende dire che il discepolo non dovrebbe abbandonarsi a dubbi d’alcun tipo, avendo ricevuto l’onore della rivelazione ed essendo accompagnato nel suo tragitto su volontà divina, specialmente tenendo conto di quanto questo sia un privilegio, che il vate percepisce intensamente proprio perché a lui stesso non sarà mai possibile visionare l’Altissimo.
State contenti, umana gente, al quia; | |
ché, se potuto aveste veder tutto, | |
39 | mestier non era parturir Maria; |
Che l’umanità (umana gente) perciò s’accontenti (State contenti) di prender atto di come stanno le cose (al quia), in quanto (ché), se alla stessa fosse stato concesso di comprendere a fondo ogni mistero (se potuto aveste veder tutto) non sarebbe stato necessario che (mestier non era) Maria partorisse (parturir) Gesù.
e disïar vedeste sanza frutto | |
tai che sarebbe lor disio quetato, | |
42 | ch’etternalmente è dato lor per lutto: |
io dico d’Aristotile e di Plato | |
e di molt’altri» e qui chinò la fronte, | |
45 | e più non disse, e rimase turbato. |
Il discorso prosegue nel rimembrar a Dante come sia già stato constatato l’inutile aspirare (e disïar vedeste sanza frutto) alla conoscenza assoluta da parte di coloro i quali (tai che), fosse stato possibile capire, tramite intelletto, la ragione ultima delle cose, avrebbero appagato la loro sete di sapere (sarebbe lor disio quetato), mentre la tal ambizione fu restituita loro come eterna pena (ch’etternalmente è dato lor per lutto): la dotta guida confessa di riferirsi ad Aristotele, Platone e molti altri (io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri), poi, nel mentre, china il capo (e qui chinò la fronte) silenziandosi (e più non disse) evidentemente scosso (e rimase turbato).
Nella concezione filosofica del termine, “quia”, che letteralmente, nella lingua latina, significa “poiché”, indica la capacità di prendere atto d’un evento per come si manifesta, la semplice constatazione di un qualcosa che avviene, ben diversa dal “quare”, che invece rappresenta la forma più elevata di conoscenza, in dote solo all’Onnipotente, alla comprensione della quale si dedicarono filosofi e teologi, tuttavia mai raggiungendo il sapere pieno che si erano prefissati d’acquisire. Non vi fossero enigmatici disegni ad opera del divino, vana sarebbe stata, secondo il Virgilio della Commedia, la nascita del Cristo ed il suo divenire uomo per svelare al mondo verità altrimenti imperscrutabili.
Noi divenimmo intanto a piè del monte; | |
quivi trovammo la roccia sì erta, | |
48 | che ’ndarno vi sarien le gambe pronte. |
Nel frattempo i due poetanti giungono ai piedi del promontorio (Noi divenimmo intanto a piè del monte); qui si trovano davanti ad una parete rocciosa talmente ripida (quivi trovammo la roccia sì erta) che, nel tentativo di scalarla, le gambe si affaticherebbero inutilmente (che ’ndarno vi sarien le gambe pronte).
Tra Lerice e Turbìa la più diserta, | |
la più rotta ruina è una scala, | |
51 | verso di quella, agevole e aperta. |
Il versante più scosceso e malagevole (la più diserta, la più rotta ruina), che si trova nella zona tra Lerici (Lerice) e la Turbie (Turbìa), a paragone (verso di quella), sarebbe di facile ed ampia percorrenza (è agevole e aperta) quanto lo è per una una scala.
La zona citata si riferisce all’arco costiero del mar Ligure, fra Lerici, nel golfo della Spezia, e La Turbie, comune francese che si trova nel dipartimento delle Alpi Marittime, situato sopra Montecarlo.
«Or chi sa da qual man la costa cala», | |
disse ’l maestro mio fermando ’l passo, | |
54 | «sì che possa salir chi va sanz’ala?». |
Il maestro s’arresta (’l maestro mio fermando ’l passo) improvvisamente e, non conoscendo il Purgatorio, manifesta (disse) al poeta i suoi dubbi riguardo a quale sia la parte di pendio meno erta (Or chi sa da qual man la costa cala), in maniera da poterla scalare senza bisogno d’aver delle ali (sì che possa salir chi va sanz’ala?).
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso | |
essaminava del cammin la mente, | |
57 | e io mirava suso intorno al sasso, |
da man sinistra m’apparì una gente | |
d’anime, che movieno i piè ver’ noi, | |
60 | e non pareva, sì venïan lente. |
E mentre, mantenendo il capo rivolto al (ch’e’ tenendo ’l viso) basso, il duca riflette mentalmente su quale sia il miglior percorso da intraprendere (essaminava del cammin la mente), ed il pellegrino osserva verso l’alto (e io mirava suso) i vari margini che girano attorno alla montagna (intorno al sasso), da manca (da man sinistra) gli appare un manipolo di spiriti (m’apparì una gente d’anime) che ai due si stanno avvicinando (movieno i piè ver’ noi) e, anche se non parrebbe (non pareva), marciano molto lentamente (sì venïan lente).
«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi: | |
ecco di qua chi ne darà consiglio, | |
63 | se tu da te medesmo aver nol puoi.» |
Al che il discepolo si rivolge al maestro dicendogli (diss’io) d’alzar lo sguardo (Leva, maestro, li occhi tuoi), poiché da quella parte arrivano coloro che potranno consigliarlo sulla direzione da seguire (ecco di qua chi ne darà consiglio), s’egli non riesce a ricavare informazioni dai propri ragionamenti.
Guardò allora, e con libero piglio | |
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; | |
66 | e tu ferma la spene, dolce figlio». |
Virgilio allora guarda (Guardò) e, con con aria sollevata (con libero piglio), risponde (rispuose) spronando il suo protetto e dirigersi insieme verso di loro (Andiamo in là), visto che gli stessi camminano troppo (ch’ei vegnon) piano, indi raccomandando al suo “dolce figlio”, come affettuosamente l’appella, di mantener ben salda la speranza (tu ferma la spene, dolce figlio).
Ancora era quel popol di lontano, | |
i’ dico dopo i nostri mille passi, | |
69 | quanto un buon gittator trarria con mano, |
quando si strinser tutti ai duri massi | |
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti | |
72 | com’a guardar, chi va dubbiando, stassi. |
Dopo aver i due viandanti percorso, narra l’Alighieri, un migliaio di (i’ dico dopo i nostri mille) passi, quella schiera è ancor lontana (Ancora era quel popol di lontano), della distanza che un buon lanciatore coprirebbe gettando un sasso con la mano (quanto un buon gittator trarria con mano), quando tutti insieme gli spiriti s’accerchiano intorno al roccioso pendio dell’elevata vetta (quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa), rimanendo immobili ed ammassati (e stetter fermi e stretti), scrutartandosi intorno (com’a guardar), com’è tipico di chi, non sapendo dove debba andare, si fermi (chi va dubbiando, stassi).
«O ben finiti, o già spiriti eletti», | |
Virgilio incominciò, «per quella pace | |
75 | ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, |
ditene dove la montagna giace, | |
sì che possibil sia l’andare in suso; | |
78 | ché perder tempo a chi più sa più spiace.» |
Virgilio si rivolge a loro (incominciò) definendoli anime morte nella grazia di Dio ed elette (O ben finiti, o già spiriti eletti), indi lor chiedendo, in virtù di (per) quella pace ch’egli reputi gli stessi stiano attendendo (ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti), di rivelar a lui ed al poeta suo compagno dove sia la zona in cui il massiccio sia meno in pendenza (ditene dove la montagna giace), in modo che sia possibile scalarlo (sì che possibil sia l’andare in suso), poiché chi è consapevole di quanto sia prezioso il tempo se ne dispiace nello sprecarlo (ché perder tempo a chi più sa più spiace).
Il vate sa esser quell’anime elette in quanto, essendosi guadagnate il Purgatorio, la loro futura salvezza è certa.
Come le pecorelle escon del chiuso | |
a una, a due, a tre, e l’altre stanno | |
81 | timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; |
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, | |
addossandosi a lei, s’ella s’arresta, | |
84 | semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; |
sì vid’io muovere a venir la testa | |
di quella mandra fortunata allotta, | |
87 | pudica in faccia e ne l’andare onesta. |
Come pecorelle che fuoriescano dal recinto dell’ovile (escon del chiuso), a una, a due, a tre, e anche le (l’) altre rimangono titubanti (stanno timidette), mantenendo rivolti a terra muso e sguardo (atterrando l’occhio e ‘l muso), e ciò che fa la prima le (l’) altre imitano (fanno), a lei addossandosi, se la stessa si ferma (s’ella s’arresta), docili ed arrendevoli (semplici e quete), senza conoscerne la ragione (e lo ’mperché non sanno), similmente Dante vede allora (allotta) la testa di quel gruppo di spiriti fortunati (quella mandria fortunata), pudici nell’espressione e dignitosi nella camminata (pudica in faccia e ne l’andare onesta), dirigersi verso di lui e la sua guida (sì vid’io muovere a venir).
Come color dinanzi vider rotta | |
la luce in terra dal mio destro canto, | |
90 | sì che l’ombra era da me a la grotta, |
restaro, e trasser sé in dietro alquanto, | |
e tutti li altri che venieno appresso, | |
93 | non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto. |
Non appena i penitenti posizionati davanti (Come color dinanzi) notano l’interruzione (video rotta) della luce in terra sul lato destro del pellegrino (dal mio destro canto), che proietta la sua ombra fino alla roccia (sì che l’ombra era da me a la grotta), s’arrestano e leggermente indietreggiano (restaro, e trasser sé in dietro alquanto), e tutti gli altri che li seguono (venieno appresso), fanno (fenno) altrettanto senza sapere il (non sappiendo ’l) perché lo stiano facendo.
«Sanza vostra domanda io vi confesso | |
che questo è corpo uman che voi vedete; | |
96 | per che ’l lume del sole in terra è fesso. |
Allor il duca, senz’attender lor comprensibile quesito a riguardo (Sanza vostra domanda io) rivela loro (vi confesso) esser il corpo del discepolo, appena visionato (che voi vedete), ancor vivente (che questo è corpo uman); e che è per tal motivo che lo stesso interrompe la luce solare nel suo spandersi sul suolo (per che ’l lume del sole in terra è fesso).
Non vi maravigliate, ma credete | |
che non sanza virtù che da ciel vegna | |
99 | cerchi di soverchiar questa parete.» |
Egli consiglia loro di non stupirsene (Non vi maravigliate), ma di confidar sul fatto (credete) che il suo protetto non stia tentando di scalare quel versante (cerchi di soverchiar questa parete) senza esser autorizzato da volontà divina (che non sanza virtù che da ciel vegna).
Così ’l maestro; e quella gente degna | |
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», | |
102 | coi dossi de le man faccendo insegna. |
In tal modo s’esprime il (Così ’l) maestro; e quelle anime destinate alla grazia (quella gente degna) rispondono (disse) consigliando pertanto ai due poetanti di proseguire (intrate innanzi dunque), facendo il cenno, corrispondente alle parole, con i dorsi delle mani (coi dossi de le man faccendo insegna).
E un di loro incominciò: «Chiunque | |
tu se’, così andando, volgi ’l viso: | |
105 | pon mente se di là mi vedesti unque». |
Poi uno (E un) di loro inizia a parlare (incominciò) chiedendo all’Alighieri, chiunque esso sia (tu se’), di, pur continuando a marciare (così andando) rivolgere a lui lo sguardo (volgi ’l viso) al fin di rimembrare (pòne mente) se qualche volta (unque), nella vita terrena (di là), il poeta possa averlo visto (mi vedesti).
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: | |
biondo era e bello e di gentile aspetto, | |
108 | ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. |
Dante si gira verso di lui e lo scruta attentamente (Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso): è (era) biondo, bello e di nobile (gentile) aspetto, ma uno dei sopraccigli (l’un de’ cigli) è stato (avea) diviso da un colpo.
Quand’io mi fui umilmente disdetto | |
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; | |
111 | e mostrommi una piaga a sommo ’l petto. |
Nel momento in cui il pellegrino gli confida con umiltà di non averlo mai visto (Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai), egli (el), mostrandogli una ferita sulla sommità del (e mostrommi una piaga a sommo ’l) petto, gli risponde (disse): “Ora guarda”;
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, | |
nepote di Costanza imperadrice; | |
114 | ond’io ti priego che, quando tu riedi, |
vadi a mia bella figlia, genitrice | |
de l’onor di Cicilia e d’Aragona, | |
117 | e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice. |
Poi, sorridendo, afferma (disse): “Io sono (son) Manfredi, nipote (nepote) dell’imperatrice (imperadrice) Costanza; ind’io ti supplico (ond’io ti priego), quando tu rientrerai sulla terra (riedi), di recarti dalla (che vadi a) mia bella figlia, madre (genitrice) del re di Sicilia (de l’onor di Cicilia) e del re d’Aragona, e di raccontarle la verità su di me (dichi ’l vero a lei), qualora fatti non corrispondenti alla verità si narrassero (s’altro si dice).
Manfredi tiene in particolar modo al fatto che la figlia possa venire a conoscenza della sua sorte ultraterrena, ovvero che la sua anima non è stata destinata agli inferi, ma al Purgatorio.
L’ “imperadrice” fu Costanza d’Altavilla (1186-1197), figlia postuma del conte Ruggero II di Sicilia (1095-1154) della dinastia degli Altavilla, nonché moglie del re di Germania, e Imperatore del sacro Romano Impero, Arrigo VI di Hohenstaufen (1165-1197), oltre che madre di Federico II di Svevia (1194-1250).
La figlia di Manfredi, Costanza II di Sicilia (1262-1285), sposò il re Pietro III d’Aragona (1239-1285) e, tra i numerosi figli, fu madre di Giacomo II re d’Aragona (1267-1327) e di Federico III re di Sicilia (1272-1337).
Manfredi di Svevia, o di Sicilia, fu assassinato al suo trentatreesimo anno d’età da Carlo I d’Angiò (1226-1282) nella celeberrima Battaglia di Benevento del 1266, dopo la vittoria della quale lo stesso Carlo, oltre a conquistare il regno di Sicilia, assoggettò l’italica penisola al dominio guelfo.
Nato figlio illegittimo nel 1232 dalla relazione del padre con la nobildonna siciliana Bianca Lancia (1210 circa – 1248 circa), trascorre prima esistenza presso la corte di Palermo, facilmente lasciandosi sedurre dalle lusinghe di lusso e lussuria precocemente dedicandosi ad attività di speculazione e ad intrallazzi di potere alle spalle dei familiari, pertanto prontamente destituito dal fratellastro Corrado IV di Svevia (1228-1254).
Arsura di potere lo vedrà nuovamente protagonista allorquando, investito dell’ufficio di vicario da papa Innocenzo IV (1195 circa – 1254 circa) darà sfogo alla sua innata capacità di mantenere relazioni diplomatiche a proprio vantaggio e non mancando d’inserirsi nelle dispute tra le fazioni cittadine, perseguendo la politica degli Svevi e riuscendo, nel 1258, a farsi incoronare re a Palermo su inganno, avendo messo in circolo falsa notizia della morte di Corradino, figlio del defunto fratellastro Corrado IV e legittimo erede; scomunica da parte di papa Alessandro IV (1199-1261), gli giungerà l’anno successivo ed altre ne seguiranno.
Fortemente avverso al clero, desideroso della sua morte, scacco matto della Chiesa su di lui avverrà quando la stessa, tramite il pontefice Clemente IV, offrirà il regno di Sicilia al d’Angiò il quale, sostenendo l’ecclesiastica ideologica anti-sveva, nonché agendo in fede a personali fini di potere (venne infatti eletto re di Sicilia il medesimo anno, circa un mese prima della celeberrima battaglia) ferirà a morte, con un colpo al petto ed uno al viso, lo stesso Manfredi a Ceprano, poi ordinandone l’interramento sul ponte di Calore.
Passando accanto al di lui cadavere, ogni barone di passaggio ne getterà compassionevolmente sopra una pietra, in tal maniera sequenzialmente sovrapponendone un ciottoloso cumulo in suo onore.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona | |
di due punte mortali, io mi rendei, | |
120 | piangendo, a quei che volontier perdona. |
Dopo che il mio corpo fu trapassato da due colpi letali (Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali), io mi resi (rendei) a colui che benevolmente concede perdono (quei che volontier perdona) piangendo.
In punto di morte Manfredi invocò infatti il perdono di Dio.
Orribil furon li peccati miei; | |
ma la bontà infinita ha sì gran braccia, | |
123 | che prende ciò che si rivolge a lei. |
I (li) miei peccati furono orribili (Orribil furon); ma la misericordia divina (bontà infinita) possiede (ha) delle braccia così ampie (sì gran), da donar accoglienza a chiunque si rivolga (che prende ciò che si rivolge) a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia | |
di me fu messo per Clemente allora, | |
126 | avesse in Dio ben letta questa faccia, |
l’ossa del corpo mio sarieno ancora | |
in co del ponte presso a Benevento, | |
129 | sotto la guardia de la grave mora. |
Se il vescovo (’l pastor) di Cosenza, che fu messo alla ricerca delle mie spoglie dall’allor pontefice Clemente IV (che a la caccia di me fu messo per Clemente allora), avesse tenuto conto dell’inclinazione del Signore al perdono (in Dio ben letta questa faccia), le (l’) ossa del mio corpo sarebbero (sarieno) ancora sotto la custodia del mucchio di sassi (guardia de la grave mora) in capo al ponte di (in co del ponte presso a) Benevento.
Or le bagna la pioggia e move il vento | |
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde, | |
132 | dov’e’ le trasmutò a lume spento. |
Ora son bagnate dalla (Or le bagna la) pioggia e smosse dal (e move il) vento al di fuori del (fuor dal) regno di Napoli, sulla riva settentrionale del Liri-Garigliano (quasi lungo ’l Verde), dov’egli le trascolcò (dov’e’ le trasmutò) (qui va levato uno spazio) a lume spento.
Il “’l pastor di Cosenza” fu il cardinal Bartolomeo Pignatelli (1200 circa – 1272), agguerrito nemico di Manfredi del quale, su ordine di papa Clemente IV, trasferì le spoglie mortali dello stesso, disseppellendole da dove le aveva fatte tumulare Carlo d’Angiò, ossia al ponte di Calore in Benevento, e poi abbandonate alle intemperie sulla riva del fiume Liri-Garigliano, nominativo che il fiume Liri assume nella tratta d’incontro con il Garigliano.
Il ponte di Calore è alternativo nome del ponte Vanvitelli, collegamento fra la parte bassa ed il centro storico di Benevento; il corpo di Manfredi vi fu prelevato “a lume spento”, ossia senza luce né croce, ed i suoi resti vennero sprezzantemente dispersi com’era in uso fare, all’epoca, con chi fosse stato scomunicato.
Per lor maladizion sì non si perde, | |
che non possa tornar, l’etterno amore, | |
135 | mentre che la speranza ha fior del verde. |
Ma l’amore divino (etterno) non svanisce completamente (sì non si perde) in conseguenza alle scomuniche da loro imposte (Per lor maladizion), senza che sia concessa possibilità alcuna di riscatto (che non possa tornar), fino a (mentre) che la speranza rimane vivida (ha fior nel verde).
Vero è che quale in contumacia more | |
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, | |
138 | star li convien da questa ripa in fore, |
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, | |
in sua presunzïon, se tal decreto | |
141 | più corto per buon prieghi non diventa. |
È pur vero che a colui che muoia in contumacia della (Vero è che quale in contumacia more di) Santa Chiesa, nonostante l’avvenuto pentimento precedente la morte (ancor ch’al fin si penta), disposizioni celesti prevedono ch’egli stia sul ciglio di questo monte (star li convien da questa ripa in fore), per un tempo corrispondente ad una trentina di volte (per ognun tempo ch’elli è stato, trenta)la durata del perseverare nei propri vizi (in sua presunzïon), a meno che l’imposizione (tal decreto) non venga ridotta grazie alle preghiere dei viventi (più corto per buon prieghi non diventa).
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, | |
revelando a la mia buona Costanza | |
144 | come m’ hai visto, e anco esto divieto; |
Vedi oggmai se ti sarà possibile accontentarmi (tu mi puoi far lieto), rivelando (revelando) alla (a la) mia buona Costanza la condizione in cui (come) m’hai visto, esplicandole anche questo decreto (e anco esto divieto);
145 | ché qui per quei di là molto s’avanza». |
essendo che (ché) nel Purgatorio (qui), grazie alle preghiere degli uomini ancor viventi (per quei di là) ci si evolve parecchio (molto s’avanza).
L’animo di Dante viene completamente assorbito dal discorso di Manfredi perché “Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtù nostra comprenda, l’anima bene ad essa si raccoglie…”
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