Divina Commedia: Paradiso, Canto XXX
Ruggero Focardi (1864-1934), Dante e Beatrice nel X Cielo, 1930
Come al sortir dell’alba s’attenua luminio delle stelle, Dante osserva i cori angelici divenir gradatamente più lievi, sin a smarrirne totalmente la vista, momento in cui sguardo, quasi d’istinto richiamato, volge a ricercar giaciglio negli occhi di Beatrice, ella sull’istante apparendogli di cotal bellezza, da provar intima assenza d’ogni poetica capace d’eseguir degno dipinto d’una meraviglia, ritenuta oltre l’umana comprensione e dunque, concepibile e mirabile unicamente dall’Altissimo. Nel mentre vagando in siffatte idilliche riflessioni, il vate non realizza d’abbandonar il Primo Mobile ascendendo al X Cielo, l’Empireo, prendendone pertanto coscienza allorché proprio l’adorata, lo informa d’oramai trovarsi ove la Volta tracima puro intelletto, amore e gioia, luogo nel quale presto potrà osservar il trionfo delle divine milizie, angeli e beati, quest’ultimi riappropriandosi, nel Giorno del Giudizio, delle vesti mortali.
Accedendovi, il Sommo vien all’istante avvolto da fulgore tanto intenso da restar senza nulla riuscir più a scorgere, ma da Beatrice apprende trattarsi d’effimero evento riservato alle sopraggiungenti anime al fin di predisporle alla visione del Creatore e difatti, appena il tempo d’ascoltar rassicurante delucidazione, nota palesarsi un fiume di simile luce costituito, scaturente, nel distendersi lungo rive ricolme di fiori, scintille somiglianti a rubini e che, dopo aver adagiato carezza sulla moltitudine di petali popolanti le sponde, nel gorgo tornano incantevolmente ad immergersi. Rapito e pervaso d’ardente desiderio di conoscerne la natura, l’Alighieri continua a fissarne i movimenti, quando all’improvviso ne coglie assumer forma circolare, nonché dimensioni ben maggiori del Cielo del Sole e voce d’amata guida, l’avvisa esser soltanto «umbrifero prefazio» della realtà che le terrene facoltà, ancor non gli permetton di contemplare pienamente.
Forse semilia miglia di lontano | |
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo | |
3 | china già l’ombra quasi al letto piano, |
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, | |
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella | |
6 | perde il parere infino a questo fondo; |
All’incirca (Forse) a seimila miglia di distanza (lontano) dal punto in cui ci si trova sulla Terra, arde il mezzodì (ci ferve l’ora sesta), il mondo proiettando (china già) il proprio cono d’ombra quasi all’orizzonte (al letto piano), quando il tratto celeste — all’umanità perpendicolo (’l mezzo del cielo a noi profondo) — gradatamente muta (inizia a farsi) in tal maniera, che talune (ch’alcuna) stelle smarriscono parvenza (perde il parere) qualor le si osservi dalla dalla superficie terrestre (infino a questo fondo);
e come vien la chiarissima ancella | |
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude | |
9 | di vista in vista infino a la più bella. |
e al sopraggiunger della luminosissima (e come vien la chiarissima più oltre) ancella del Sole, dal cielo gradatamente si spegne (chiude) d’ogni stella, fin alla più brillante (bella).
All’arrivo dell’alba corrisponde un sequenziale oscurarsi d’astri che, a chi li osservi dal pianeta terrestre, sembrano celesti luminarie in fase di spegnimento; il vocabolo “mezzo” s’offre a duplice parafrasi, tanto rappresentando la parte centrale della volta celeste, quanto quella sopra le teste di chi lo stia scrutando.
La nominata “ancella del sol” è l’aurora.
Non altrimenti il triunfo che lude | |
sempre dintorno al punto che mi vinse, | |
12 | parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, |
a poco a poco al mio veder si stinse: | |
per che tornar con li occhi a Bëatrice | |
15 | nulla vedere e amor mi costrinse. |
In medesima maniera (Non altrimenti) l’angelico trionfo il qual perennemente festeggia intorno (che lude sempre dintorno) al punto che aveva sbaragliato l’Alighieri (mi vinse) e che pareva incluso in ciò ch’egli include (parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude) — svanisce (si stinse) pian piano (a poco a poco) dal suo sguardo (al mio veder), per modo che il dissolversi della visione (nulla vedere) e l’amore lo indirizzino nuovamente (tornar con li occhi) a Beatrice.
Le intelligenze angeliche volteggianti intorno al punto divino che aveva abbacinato il pellegrino in sesta terzina del ventottesimo Canto di Paradiso (un punto vidi che raggiava lume acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume), si dileguano, egli tornando a dedicarsi all’estatica ammirazione della donna amata, mai perdendo occasion d’omaggiarne beltà con infatuati elogi.
Quel punto che dà l’impressione d’essere “inchiuso da quel ch’elli ’nchiude” è il Padre Eterno.
Se quanto infino a qui di lei si dice | |
fosse conchiuso tutto in una loda, | |
18 | poca sarebbe a fornir questa vice. |
Se quanto fin a questo momento (infino a qui) di lei tratteggiato (si dice) fosse racchiuso totalmente (chiuso tutto) in un’unica lode, inidonea (poca) sarebbe ad assolvere a tal incarico (fornir questa vice).
La bellezza ch’io vidi si trasmoda | |
non pur di là da noi, ma certo io credo | |
21 | che solo il suo fattor tutta la goda. |
La bellezza che Dante vede non trascende soltanto gli umani criteri di giudizio (si trasmoda non pur di là da noi), ma egli è convinto del fatto ch’esclusivamente (certo io credo che solo) il suo Creatore (fattor) ne possa giovare compiutamente (tutta la goda).
Da questo passo vinto mi concedo | |
più che già mai da punto di suo tema | |
24 | soprato fosse comico o tragedo: |
Di fronte a tal compito (Da questo passoI), l’Alighieri s’arrende (vinto mi concedo) più di quanto (che già) un poeta — comico o tragico (tragedo) che sia — venga sopraffatto (soprato fosse) da un nodo tematico della propria opera (di suo tema):
ché, come sole in viso che più trema, | |
così lo rimembrar del dolce riso | |
27 | la mente mia da me medesmo scema. |
dacché, al pari dell’effetto della luce solare su una vista particolarmente debole (ché, come sole in viso che più trema), così rimembrar il dolce sorriso di Beatrice lo priva d’ogni facoltà mentale (la mente mia da me medesmo scema).
L’autore — conscio dei limiti dell’intelletto umano nell’adempiere ad un compito tanto solenne — desiste dal continuar a descrivere la soave avvenenza della sua signora, fin ad ora irriducibile nel delinearne ogni pregio, in lontano eco a quanto di lei scrisse a conclusion della ‘Vita Nova’ nella speranza di ‘dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna’, ma da questo momento in avanti defilandosi dalla delicata ed eccelsa mansione che gli risulta alquanto difficoltosa poiché solamente il ricordarne il “dolce riso”, gli annebbia acume intellettivo, inabilitandolo, al pari dell’azione del bagliore solare su fragili occhi.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso | |
in questa vita, infino a questa vista, | |
30 | non m’è il seguire al mio cantar preciso; |
Dal primo giorno ch’egli incrociò il di lei occhi sulla Terra (ch’i’ vidi il suo viso in questa vita), fino alla visione dello stesso in Paradiso (infino a questa vista), mai al suo canto è stato impedito proseguire (non m’è il seguire al mio cantar preciso);
ma or convien che mio seguir desista | |
più dietro a sua bellezza, poetando, | |
33 | come a l’ultimo suo ciascuno artista. |
Ma or è opportuno (convien) che il suo poetar desista dal tener dietro alla sua bellezza — poetando — al pari di qualsivoglia artista sfiancato nelle risorse (come a l’ultimo suo ciascuno artista).
Cotal qual io la lascio a maggior bando | |
che quel de la mia tuba, che deduce | |
36 | l’ardüa sua matera terminando, |
con atto e voce di spedito duce | |
ricominciò: «Noi siamo usciti fore | |
39 | del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: |
Talmente bella da convincerlo a rimetterla (Cotal qual io la lascio) a celebrazione più eletta (maggior bando) rispetto a quella della propria tromba (che quel de la mia tuba) — che sta per concludere (deduce terminando) la sua ardua materia — ella, con atteggiamento (atto) e voce di solerte guida (spedito duce), riprende a parlare: “Noi siamo fuoriusciti dal più ampio dei Cieli sensibili (usciti fore del maggior corpo) ed entrati nel Cielo ch’è pura luce:
Poco prima che Beatrice riprenda a parlare, Dante si dichiara fermamente deciso — dopo non aver mai rinunciato ad adombrar la sua bella di cortesi e sentiti complimenti, su di lei ricamati ad inchiostro nel sommo poema che sta per completarsi — a delegarne descrizione a quel “maggior bando” che verosimilmente si riferisce al prescelto convegno angelico:
luce intellettüal, piena d’amore; | |
amor di vero ben, pien di letizia; | |
42 | letizia che trascende ogne dolzore. |
luce della mente (intellettüal) d’Iddio, ch’è piena d’amore; amor del vero bene, traboccante letizia; letizia che trascende qualsiasi dolcezza (dolzore).
Qui vederai l’una e l’altra milizia | |
di paradiso, e l’una in quelli aspetti | |
45 | che tu vedrai a l’ultima giustizia». |
Qui potrai vedrai ambedue gli eserciti (l’una e l’altra milizia) del Paradiso, i beati potendoli vedere nelle sembianze che assumeranno il giorno del Giudizio Universale (e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia)”.
Frattanto la savia conduttrice ed il suo affezionato discepolo escono dal nono Cielo e varcano ingresso dell’Empireo, lì ove abbondano carità, amore e lietezza in siffatta intensità da surclassare qualunque altra manifestazione emotiva, all’Alighieri essendo stato accordato il permesso di poter visionare in contemporanea angeli e beati, quest’ultime anime a lui presentate ex novo provviste del loro corpo mortale.
Come sùbito lampo che discetti | |
li spiriti visivi, sì che priva | |
48 | da l’atto l’occhio di più forti obietti, |
così mi circunfulse luce viva, | |
e lasciommi fasciato di tal velo | |
51 | del suo fulgor, che nulla m’appariva. |
Come un lampo che, improvviso (sùbito), disgreghi le funzioni (discetti li spiriti) visive, di conseguenza rendendo incapace l’occhio di recepire gli oggetti maggiormente lucenti (sì che priva da l’atto di più forti obietti), così Dante viene avvolto (mi curcunfulse) da abbagliante (viva) luce, avviluppandolo talmente col (e lasciommi fasciato di tal) velo del suo fulgore, da niente più riuscir a vedere (che nulla m’appariva).
«Sempre l’amor che queta questo cielo | |
accoglie in sé con sì fatta salute, | |
54 | per far disposto a sua fiamma il candelo.» |
“L’amore che serba nell’immobilità (queta) questo Cielo, accoglie in sé con siffatto saluto (salute) chi v’entra, al fin di predisporre la candela (per far disposto il candelo) alla sua fiamma”.
Il lampante abbacinamento descritto presumibilmente riaggancia un episodio narrato da Paolo negli ‘Atti degli Apostoli’, in cui l’uomo venne accecato, sulla via di Damasco, da una fulminea e sfavillante luce, Beatrice spiegando all’attonito Alighieri come l’istantanea radiazione luminosa sia il benvenuto di cui si serve l’Empireo per preparare gli spiriti alla visione dell’Altissimo.
Non fur più tosto dentro a me venute | |
queste parole brievi, ch’io compresi | |
57 | me sormontar di sopr’ a mia virtute; |
È immediatamente dopo aver accolto in sé (Non fur più tosto dentro a me venute) queste poche (bievi) parole, che Dante si rende conto d’eccedere nelle proprie capacità (ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute) visive;
e di novella vista mi raccesi | |
tale, che nulla luce è tanto mera, | |
60 | che li occhi miei non si fosser difesi; |
ed egli s’illumina (mi raccesi) d’una nuova facoltà di visione (novella vista) tale, dal non sussistere nessuna (nulla) luce tanto potente (mera), dall’esser intollerante (che non si fosser difesi) al suo sguardo (che li occhi miei non si fosser difesi);
e vidi lume in forma di rivera | |
fulvido di fulgore, intra due rive | |
63 | dipinte di mirabil primavera. |
ed egli vede una luce in forma di fiume (rivera) — di rosseggiante (fulvido di) fulgore — fra due rive adornate (dipinte) di splendida fioritura primaverile (mirabil primavera).
Di tal fiumana uscian faville vive, | |
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, | |
66 | quasi rubin che oro circunscrive; |
Da tal fiumana escono luccicanti scintille (uscian faville vive) che s’adagiano sui (e si mettien ne’) fiori d’entrambe le sponde (d’ogne parte), come fossero rubini nell’oro incastonati (circunscrive);
poi, come inebrïate da li odori, | |
riprofondavan sé nel miro gurge, | |
69 | e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. |
poi, come inebriate dalla floreal profumazione (da li odori), tornano ad inabissarsi nella meravigliosa corrente (riprofondavan sé nel miro gurge), entrate e fuoriuscite dall’acque delle stesse, corrispondendosi (e s’una intrava, un’altra n’uscia fori).
Sulla scia del discorrer di Beatrice, l’Alighieri si percepisce rinforzato in maniera sovrumana nelle proprie doti visuali, un attimo dopo a lui aprendosi una fresca e fragrante scena, ossia quella d’un fiume di luce che fluisce fra due argini ricoperti di primaveril flora, sulla quale si depositano dorate fiammelle dalle rossicce sfumature, poi alternandosi le une con le altre nell’affiorar e sprofondar nel luminescente corso fluviale.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge, | |
d’aver notizia di ciò che tu vei, | |
72 | tanto mi piace più quanto più turge; |
“Il possente desiderio ch’ora t’arde ed incita (L’alto disio che mo t’infiamma e urge) al comprender quanto vedi (d’aver notizia di ciò che tu vei), tanto mi garba quanto più in te si spande (turge);
ma di quest’acqua convien che tu bei | |
prima che tanta sete in te si sazi»: | |
75 | così mi disse il sol de li occhi miei. |
ma convien che tu t’imbeva (bei) di quest’acqua prima che cotanta sete di sapere in te s’affievolisca (si sazi)”: così dice a Dante il Sole dei suoi occhi.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi | |
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe | |
78 | son di lor vero umbriferi prefazi. |
Inoltre aggiungendo (Anche soggiunse): “Il fiume e le preziose gemme (topazi) ch’entrano ed escono, nonché i ridenti fiori (’l rider de l’erbe), non son che umbratili anticipazioni (umbriferi prefazi) della verità che’ombreggiano (di lor vero).
Non che da sé sian queste cose acerbe; | |
ma è difetto da la parte tua, | |
81 | che non hai viste ancor tanto superbe». |
E questo non perché ciò ch’osservi sia in sé avventato (che da sé sian queste cose acerbe); ma poiché il difetto è in te insito (da la parte tua), dato il tuo esser ancor privo d’una capacità visiva (che non hai viste) adeguatamente potente (tanto superbe).
L’estasiato Dante è smanioso di capir cosa stia succedendo, il suo celar curiosità nel silenzio non impedendo a colei ch’egli amorevolmente definisce “il sol de li occhi miei” di leggere i suoi bramosi pensieri e degli stessi ella lautamente compiacendosi, tuttavia spronandolo a concentrarsi ancora un poco sul brioso spettacolo a lui manifestatosi, in quanto simboleggiante ulteriore verità che la vista dell’Alighieri non è ancor perfettamente in grado di reggere appieno e la briosa danza delle smaglianti favelle, fungendo da passaggio introduttivo e preparatorio alla futura ed imminente apparizione.
Non è fantin che sì sùbito rua | |
col volto verso il latte, se si svegli | |
84 | molto tardato da l’usanza sua, |
come fec’io, per far migliori spegli | |
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda | |
87 | che si deriva perché vi s’immegli; |
Non v’è fantolino (fantin)che — destatosi in abbondante ritardo rispetto al solito (se si svegli molto tardato da l’usanza sua) — si precipiti tanto celermente (sùbito rua) col volto verso il latte come fa Dante piegandosi verso l’auree acque (chinandomi a l’onda) che scaturiscono e scorrono (si deriva) affinché coloro che le contemplino ne traggano perfezione (si deriva perché vi s’immegli) e per permettere ai suoi occhi di divenir migliori specchi (spegli) in riflesso a quanto scrutato;
e sì come di lei bevve la gronda | |
de le palpebre mie, così mi parve | |
90 | di sua lunghezza divenuta tonda. |
e non appena (come) il bordo (gronda) delle sue palpebre se ne abbevera (di lei bevve), così il corso del fiume gli appare (mi parve la sua lunghezza divenuta) tondo.
L’Alighieri — seguendo alla lettera il suggerimento di Beatrice — si volge all’indorato fiume con maggior velocità di quella che sarebbe propria ad un lattante in ritardo sull’orario della poppata, che cerchi voracemente il materno capezzolo per nutrirsi e parimenti il poeta dissetandosi nelle palpebre e, nell’immediati istanti successivi, notando la conformazione allungata del torrente tondeggiarsi.
Il termine “fantin” rimanda al ‘fantolino’, vale a dire arcaico e poetico sostantivo atto a designare un fanciullo con peculiari sfumature di tenerezza.
Poi, come gente stata sotto larve, | |
che pare altro che prima, se si sveste | |
93 | la sembianza non sua in che disparve, |
così mi si cambiaro in maggior feste | |
li fiori e le faville, sì ch’io vidi | |
96 | ambo le corti del ciel manifeste. |
Poi, come chi si sia presentato mascherato (gente stata sotto larve), una volta svestitasi delle fasulle sembianze sotto le quali si celava (se si sveste la sembianza non sua in che disparve), appaia differente da (che pare altro che) prima, così, a Dante, fiori e scintille appaiono trasmutati in un accresciuta esultanza (mi si cambiaro in maggior feste), per modo da distintamente discernere ambedue le milizie celesti (sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste).
O isplendor di Dio, per cu’io vidi | |
l’alto trïunfo del regno verace, | |
99 | dammi virtù a dir com’io il vidi! |
O grazia illuminante (isplendor) di Dio, per volontà della quale mi fu concesso di vedere (per cu’io vidi) l’eletto (alto) trionfo del regno della verità (verace), forniscimi la capacità di riportarne in fedeltà a come ne visionai (dammi virtù a dir com’io il vidi)!
Smisurata magnificenza s’apre al cospetto d’un Dante rinnovatosi nelle capacità visive, i policromi fiori svelandosi come beati e le indefesse faville smascherandosi e mostrandosi come angeli, il sublime tripudio portando nell’immediato l’Alighieri a supplicar l’Onnipotente di concedergli appropriata abilità scrittoria per degnamente riferirne.
Lume è là sù che visibile face | |
lo creatore a quella creatura | |
102 | che solo in lui vedere ha la sua pace. |
Lassù v’è un lume che rende (face) visibile il Creatore a quella creatura che sol nella di Lui contemplazione raggiunge un pacifico stato di benessere (solo in lui vedere ha la sua pace).
E’ si distende in circular figura, | |
in tanto che la sua circunferenza | |
105 | sarebbe al sol troppo larga cintura. |
E quel lume — assumendo circolar conformazione (in circular figura) — si distende a tal punto (in tanto) che la sua circonferenza sarebbe la cintura più che abbondante dell’orbita solare (troppo larga al sol).
Fassi di raggio tutta sua parvenza | |
reflesso al sommo del mobile primo, | |
108 | che prende quindi vivere e potenza. |
E la sua totale visibilità (tutta sua parvenza) s’origina da un’univoco irraggiamento (Fassi di raggio) in riflesso sulla cupola (al sommo) del Primo Mobile, cha da quel raggio acquisisce (prende) potenza e vitalità (vivere).
In Paradiso, la tonda superficie beneficia a ciascuna creatura della visione del proprio Creatore ed il luminescente disco è talmente esteso da potenzialmente esser in grado di farsi cintola “al sol”, in aggiunta visibile attraverso un solo “raggio” rifrangente in apice al Primo Mobile — vivifica e virtuosa sorgente dello stesso — che a sua volta irradia ai Cieli sottostanti il bene assorbito.
E come clivo in acqua di suo imo | |
si specchia, quasi per vedersi addorno, | |
111 | quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, |
sì, soprastando al lume intorno intorno, | |
vidi specchiarsi in più di mille soglie | |
114 | quanto di noi là sù fatto ha ritorno. |
E come un declivio (clivo) che si specchia nell’acqua che lo rasenta (in acqua di suo imo), quasi si compiacesse nel vedersi adorno, nel periodo in cui raggiunge la massima floridezza (quando è nel verde e ne’ fioretti opimo), similmente, sovrastandolo tutt’intorno (sì, soprastando al lume intorno intorno), Dante vede specchiarsi, in migliaia di dislivelli (in più di mille soglie), tutti uomini (quanto di noi) che lassù han fatto ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie | |
sì grande lume, quanta è la larghezza | |
117 | di questa rosa ne l’estreme foglie! |
E se il livello più basso (l’infimo grado) in sé custodisce una tanto copiosa quantità di luce (raccoglie sì grande lume), s’immagini la completa estensione larghezza) di questa rosa nell’estremità de suoi petali (foglie)!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza | |
non si smarriva, ma tutto prendeva | |
120 | il quanto e ’l quale di quella allegrezza. |
La vista dell’Alioghieri non si smarrisce in tanta ampiezza e profondità (ne l’ampio e ne l’altezza) di campo, riuscendo ad afferrare nella globalità (tutto prendeva) quantità (il quanto) e qualità (’l quale) di quella beatitudine (allegrezza).
Presso e lontano, lì, né pon né leva: | |
ché dove Dio sanza mezzo governa, | |
123 | la legge natural nulla rileva. |
Vicinanza (Presso) e lontano (lontananza), lassù (lì), nulla aggiungono, tantomeno sottreggono (né pon né leva): dacché dove Dio governa direttamente (sanza mezzo), le leggi naturali non hanno alcun valore (nulla rileva).
Potenziato dalla celeste misericordia nelle doti fisiche, Dante è ora in grado di perfettamente riconoscere la Candida Rosa nella cui luce si rispecchiano appagate le beate anime, posizionandosi in migliaia di gradini e sol guardando la grandezza di quello inferiore è possibile anche al lettore visualizzare la vastità dell’insieme, nella quale un soddisfatto e privilegiato Alighieri si destreggia senza alcun impedimento visivo, lì ove l’amministrazione celeste si propaga senza alcun framezzo a rallentarla.
Nel giallo de la rosa sempiterna, | |
che si digrada e dilata e redole | |
126 | odor di lode al sol che sempre verna, |
qual è colui che tace e dicer vole, | |
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira | |
129 | quanto è ’l convento de le bianche stole! |
Beatrice conduce l’Alighieri (mi trasse) — che se ne sta zitto, pur volendo parlare (qual è colui che tace e dicer vole) — nel giallo di quella rosa sempiterna che si sviluppa digradando, ampliandosi (digrada e dilata) ed odorando (redole) al profumo (odor) di lode al Sole ch’origina incessante primavera (sempre verna), poi dicendo: “Osserva (Mira) quant’è immensa la comunità (’l convento) delle bianche stole!
Il colore “giallo” — che dipinge stame e pistilli della Candida Rosa — s’effonde in tutta la sua solarità nell’incantevole freschezza d’un immagine tratteggiata a regola d’arte, quasi che dalla danza dei versetti, si possano percepire gli effluvi magistralmente raccontati.
Delle “bianche stole” e dell’adunanza dei corpi al momento della resurrezione accennarono trentunesima e trentaduesima terzina del venticinquesimo canto di questa Cantica (Dice Isaia che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta e la sua terra è questa dolce vita e ’l tuo fratello assai vie più digesta, là dove tratta de le bianche stole, questa revelazion ci manifesta).
Vedi nostra città quant’ella gira; | |
vedi li nostri scanni sì ripieni, | |
132 | che poca gente più ci si disira. |
Vedi come s’estende tutt’in tondo (quant’ella gira) la nostra città; vedi i nostri seggi (scanni) così occupati (ripieni), che pochi altri ormai attendiamo (poca gente più ci si disira).
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni | |
per la corona che già v’è sù posta, | |
135 | prima che tu a queste nozze ceni, |
sederà l’alma, che fia giù agosta, | |
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia | |
138 | verrà in prima ch’ella sia disposta. |
E in quel gran seggio sul quale hai fissato lo sguardo (a che tu li occhi tieni) per la corona che v’è già sovrapposta, prima che tu venga assunto in Paradiso (a queste nozze ceni), siederà l’anima (alma) — che sul mondo (giù) sarà imperatore (fia agosta) — del nobile (alto) Arrigo, che giungerà a raddrizzare (ch’a drizzare verrà) l’Italia prima ch’essa sia disposta a lasciarsi ristabilire.
Giunti al centro della Candida Rosa, Beatrice incita Dante a concentrarsi sulla “città” intesa come Gerusalemme celeste ed i cui “scanni” vacanti sono ormai pochissimi, poiché altrettanto rari gli umani destinati alla salvezza, su uno d’essi — peraltro fissato da Dante — s’accomoderà Arrigo VII di Lussemburgo (1273-1313), imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 fino alla morte.
La cieca cupidigia che v’ammalia | |
simili fatti v’ha al fantolino | |
141 | che muor per fame e caccia via la balia. |
La cieca cupidigia che v’ammalia vi ha resi (fatti) simili al fantolino che, sebben affamato, caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino | |
allora tal, che palese e coverto | |
144 | non anderà con lui per un cammino. |
Ed allora sarà preposto alla Santa Sede (prefetto nel foro divino) uno (tal) che con Arrigo (lui) non avrà medesimo atteggiamento (anderà con lui per un cammino) in pubblico (palese) e in segreto (coverto).
Ma poco poi sarà da Dio sofferto | |
nel santo officio; ch’el sarà detruso | |
147 | là dove Simon mago è per suo merto, |
148 | e farà quel d’Alagna intrar più giuso». |
Ma Dio non lo sopporterà per lungo tempo (poco poi sarà sofferto) nella santa carica (officio); poich’egli verrà conficcato a testa in giù (ch’el sarà detruso) là dove Simon mago ha ciò che si merita (è per suo merto), facendo scivolar (farà intrar) più in basso (giuso) quello d’Agnana”.
Dunque Beatrice, in conclusion di sermone dopo il quale silenzierà la sua amabile voce, biasima l’avidità degli umani — sconsiderati al punto da somigliar ad un lattante che allontani la balia nutrice purché in preda alla fame — poi citando il pontefice Clemente V (1264-1314), subdola ed infida personalità più volte deplorata, in ultimo nel diciassettesimo Canto di Paradiso, che con Arrigo VII mantenne un atteggiamento scorretto ed equivoco, ragione per la quale verrà scagliato nelle Malebolge, dove già si trova il “Simon mago” di cui si parla nel diciannovesimo Canto infernale, con il suo arrivo spingendo più in basso papa Bonifacio VIII (1230-1303), ad ogni dannato venendo destinata pena in base ai peccati commessi.
Magnificente immagine della candida rosa di beati risplenderà in prossima apertura di Canto: “In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa…”
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