Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVIII
Bela Čikoš Sesija (1864-1931), Omero insegna a comporre a Dante, Shakespeare e Goethe, 1909
Nel Primo Mobile, non appena Beatrice termina invettiva contro l’umana corruzione, Dante scorge negli occhi dell’amata indugiar luce inverosimilmente intensa, dacché — parimenti a colui che difronte ad un specchio vede la fiamma d’un candelabro e si volta per constatarne la presenza — volge sguardo in direzione opposta ed immediatamente distingue l’insister d’un baglior, seppur minuscolo, di tal potenza d’abbagliar chiunque tenti fissarlo, inoltre attorniato da nove infuocati cerchi concentrici, dei quali, progressivamente allontanandosi da esso, splendore e rapidità del moto affievoliscono, viceversa alle dimensioni.
Beatrice sicché, percependo dell’Alighieri interrogativi a riguardo, s’appresta a rivelargli di trovarsi al cospetto di Dio, dai Cori Angelici attorniato, gli stessi, tanto più orbitando in prossimità del Divino, quanto più sospinti d’ardente Amore; ma il poeta, riscontrando contrapposizione con la disposizione dei cieli del mondo fisico, prova disorientamento e l’adorata guida, null’affatto sorpresa di siffatto disorientamento, giacché conseguente del terreno intelletto del vate, si prodiga a dissipar ulterior dubbio affermando che la relazione tra cerchi e sfere celesti si fonda sulle virtù e pertanto, perfetta corrispondenza sussiste nel rapporto di realtà sensibile ed ideale.
Chetati interrogativi in animo di Dante, Beatrice prosegue enumerando ed illustrando le Gerarchie Angeliche, annoverando nelle prime tre corone, Serafini: entità motrici del Cristallino al di sopra del quale si trova solo l’Empireo, sede della Trinità, dunque maggiormente vicine all’Onnipotente, da Egli ricevono movimento propagandolo ai sottostanti Cieli. A detti spiriti quindi succedono coloro posti a protezione di luce e stelle seguiti dagli esseri che, puri ed incorruttibili dalle tentazioni, mettono in atto la giustizia Suprema, ossia rispettivamente Cherubini e Troni. Dopodiché musa ispiratrice del vate enuncia le presenze della seconda terna, ovvero gli spiriti delle Dominazioni, delle Virtù e delle Potestà; infine, a dominar ultimo coro, Principati, Arcangeli ed Angeli gioiosi. Ogni ordine — in conclusione precisa — rimira l’Altissimo al contempo effondendo influssi verso il basso da calamitar a sé la dimensione inferiore e così attraendo in direzione di Dio.
Poscia che ’ncontro a la vita presente | |
d’i miseri mortali aperse ’l vero | |
3 | quella che ’mparadisa la mia mente, |
come in lo specchio fiamma di doppiero | |
vede colui che se n’alluma retro, | |
6 | prima che l’abbia in vista o in pensiero, |
e sé rivolge per veder se ’l vetro | |
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda | |
9 | con esso come nota con suo metro; |
Non appena colei ch’eleva a paradisiache letizie (Poscia che quella che ’mparadisa) la mente di Dante, gli ha svelato quanto si verificherà (aperse ’l vero) in contrapposizione (’ncontro) all’attuale esistenza della miserabile umanità (a la vita presente d’i miseri mortali), come chi noti (vede colui) la fiamma d’un doppiere che gli viene accesa alle spalle (se ne alluma retro) — mai avendola osservata, tantomeno immaginata precedentemente (prima che l’abbia in vista o in pensiero) — e si volti per appurare se la superficie riflettente (sé rivolge per veder se ’l vetro) gli stia dicendo la verità (li dice il vero), riscontrando come l’immagine riflessa sia conforme a quella reale (e vede ch’el s’accorda con esso), al pari del canto (come nota) con il proprio ritmo (suo metro);
così la mia memoria si ricorda | |
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi | |
12 | onde a pigliarmi fece Amor la corda. |
così la memoria dell’Alighieri gli rammenta com’egli agì (si ricorda ch’io feci) rigettando lo sguardo (riguardando) nei bellissimi occhi di Beatrice, dei quali l’amore si fece mezzo per legarlo a lei (onde a pigliarmi fece Amor la corda).
Con “la vita presente d’i miseri mortali” Dante si riferisce alla dilagante corruzione precedentemente menzionata, sulla scia delle spiegazioni a lui fornite dalla donna amata il pellegrino perdendosi per l’ennesima volta nei di lei ammalianti occhi, sguardo che lo calamitò fin dal primo istante e nel quale egli carpisce l’immagine del Supremo.
Il “doppiero” è una tipologia di torcia a due ceri.
E com’io mi rivolsi e furon tocchi | |
li miei da ciò che pare in quel volume, | |
15 | quandunque nel suo giro ben s’adocchi, |
un punto vidi che raggiava lume | |
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca | |
18 | chiuder conviensi per lo forte acume; |
E non appena l’Alighieri si volge (com’io mi rivolsi) ed i suoi occhi vengono attratti (e furon tocchi li miei) da ciò che si manifesta (pare) in quella sfera celeste (quel volume) — ogni qualvolta si scruti con attenzione (quandunque ben s’adocchi) la sua rotazione (nel suo giro) — egli vede un punto irraggiante luce (che raggiava lume) e talmente abbagliante (acuto sì), che l’occhio (’l viso), dallo stesso focosamente abbagliato (ch’elli affoca), viene indotto a chiudersi a causa dell’intenso bagliore (chiuder conviensi per lo forte acume);
e quale stella par quinci più poca, | |
parrebbe luna, locata con esso | |
21 | come stella con stella si collòca. |
e la stella che dalla Terra appare come la più minuscola (par quinci più poca), raffrontata a quel punto (locata con esso) — come stella s’accosta (si collòca) a stella — parrebbe grande quanto la Luna.
L’abbacinante punto luminoso che Dante vede nello splendore oculare di Beatrice è la sembianza dell’Altissimo, che il poeta non ha facoltà di veder direttamente.
Forse cotanto quanto pare appresso | |
alo cigner la luce che ’l dipigne | |
24 | quando ’l vapor che ’l porta più è spesso, |
distante intorno al punto un cerchio d’igne | |
si girava sì ratto, ch’avria vinto | |
27 | quel moto che più tosto il mondo cigne; |
Forse altrettanto (cotanto) distante quanto si veda (pare) l’alone (alo) cinger da vicino (cigner appresso) la luce che lo illumina (’l dipigne), quando il vapore che lo produce (’l porta) è più denso (spesso), intorno al punto un cerchio di fuoco (d’igne) rotea così celermente (sì ratto), da vincere (ch’avria vinto) sul moto di quel Cielo che rotea più veloce intorno alla sfera terrestre (più tosto il mondo cigne);
Il “cerchio d’igne” apparso all’Alighieri è caratterizzato da una lestezza rotante superiore a quella del Cielo che “più tosto il mondo cigne”, ovvero il Primo Mobile.
Con il termine “alo” viene designato come una sorta di vapore effuso dagli astri.
e questo era d’un altro circumcinto, | |
e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto, | |
30 | dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. |
e questo cerchio è attorniato (circumcinto) da un altro, e quello a sua volta da un terzo, ed il terzo poi da un quarto, il quarto da un quinto ed il quinto dal sesto.
La terzina descrive la concentricità dei Cieli.
Sopra seguiva il settimo sì sparto | |
già di larghezza, che ’l messo di Iuno | |
33 | intero a contenerlo sarebbe arto. |
Sopra segue il settimo Cielo, talmente espanso in ampiezza (sì sparto già di larghezza), che l’intero anello d’un arcobaleno (’l messo di Iuno) sarebbe troppo stretto (arto) per contenerlo.
Per rendere l’idea della superficie del settimo Cielo viene portato ad esempio un arcobaleno completo, vale a dire nel doppio arco che lo renderebbe tondo; esso viene definito “messo di Iuno” in quanto Iride, mitologica personificazione dello stesso, è ancella di Giunone, come accennato al dodicesimo verso del dodicesimo Canto di Paradiso: “quando Iunone a sua ancella iube”; portando i messaggi della dea sul mondo si narra difatti che la devota messaggera lasciasse, al suo passaggio, una variopinta scia nella volta celeste.
Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno | |
più tardo si movea, secondo ch’era | |
36 | in numero distante più da l’uno; |
Così l’ottavo ed il nono; e ciascuno (chiascheduno) muovendosi con velocità decrescente (più tardo si movea), in base a quanto il suo numero d’ordine disti dal primo (secondo ch’era in numero distante più da l’uno);
e quello avea la fiamma più sincera | |
cui men distava la favilla pura, | |
39 | credo, però che più di lei s’invera. |
e quel cerchio il cui punto luminoso (quello cui la favilla pura) è più prossima (men distava), possiede (avea) la fiamma più viva (sincera) in quanto — secondo quanto ne percepisce Dante — essendo più vicina all’Eterno, maggiore è la luce che ne assorbe e riflette (però che più di lei s’invera).
La rotazione dei Cieli aumenta in velocità in maniera direttamente proporzionale alla distanza dal primo d’essi, l’Alighieri immaginando che ciò sia dovuto al fatto del loro appressarsi sempre più all’Onnipotente.
La donna mia, che mi vedea in cura | |
forte sospeso, disse: «Da quel punto | |
42 | depende il cielo e tutta la natura. |
Beatrice (La donna mia), che nota il suo protetto fortemente assorto nelle proprie perplessità, asserisce (mi vedea in cura forte sospeso, disse): “Da quel punto dipendono il Cielo e tutta la natura.
Mira quel cerchio che più li è congiunto; | |
e sappi che ’l suo muovere è sì tosto | |
45 | per l’affocato amore ond’elli è punto». |
Osserva (Mira) quel cerchio che gli è maggiormente addossato (più li è congiunto); e sappi che il suo moto (’l suo muovere) è così celere (sì tosto) per l’ardente (affocato) amore dal quale (ond’elli) è stimolato (punto).
La savia ed amorevole guida, come sempre legge qualsivoglia pensiero abbia a concretizzarsi nella mente del suo titubante discepolo, indi delucidandolo riguardo alla fondamentale importanza del cerchio più interno — nonché più attiguo al famigerato punto lucente — nei confronti dei moti universali, dei quali è principio informativo e la sua impareggiabile rapidità derivante dal suo esser direttamente pungolato dal vivificante amore d’Iddio.
E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto | |
con l’ordine ch’io veggio in quelle rote, | |
48 | sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto; |
E Dante a lei: “Se il Creato presentasse la disposizione (’l mondo fosse posto con l’ordine) che vedo in quei cerchi rotanti (ch’io veggio in quelle rote), quanto m’hai rivelato (ciò che m’è proposto) mi soddisferebbe (avrebbe sazio);
ma nel mondo sensibile si puote | |
veder le volte tanto più divine, | |
51 | quant’elle son dal centro più remote. |
ma nell’Universo (mondo) sensibile si possono (puote) vedere le sfere (volte) celesti tanto più vicine e simili a Dio (divine), quanto più son distanti (remote) dal centro.
Onde, se ’l mio disir dee aver fine | |
in questo miro e angelico templo | |
54 | che solo amore e luce ha per confine, |
udir convienmi ancor come l’essemplo | |
e l’essemplare non vanno d’un modo, | |
57 | ché io per me indarno a ciò contemplo». |
Quindi (Onde), se ogni mia sete di sapere deve appagarsi (’l mio disir dee aver fine) in questo mirabile regno di Paradiso d’angeliche presenze popolato (miro e angelico templo) e circoscritto (ha per confine) solamente dall’amore e dalla luce celeste, è opportuno ch’io ascolti (udir convienmi) ancora il motivo per cui l’archetipo divino (come l’essemplo) e la di lui copia (l’essemplare) non funzionino alla medesima maniera (d’un modo), dato ch’io tento invano di comprendere il fenomeno (indarno a ciò contemplo) con le mie sole forze (per me)”.
L’Alighieri esprime ulteriore incertezza per quanto concerne la disposizione fisica delle sfere celesti ed il loro rapportarsi alla Divinità — ossia la relazione che intercorre fra il mondo sensibile e quello ideale — dunque chiedendone precisazioni aggiuntive al fin di capire appieno, nel Cielo in cui si trova, quanto ancor non completamente afferrato..
«Se li tuoi diti non sono a tal nodo | |
sufficïenti, non è maraviglia: | |
60 | tanto, per non tentare, è fatto sodo!». |
“Se le tue unghie (li tuoi diti) non son in grado (sufficïenti) di sbrigliare tal nodo, non meravigliartene: tanto s’è intricato (fatto sodo) a furia di non districarlo (per non tentare)!”.
Così la donna mia; poi disse: «Piglia | |
quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti; | |
63 | e intorno da esso t’assottiglia. |
Così Beatrice, poi aggiungendo: “Cogli attentamente quanto andrò dicendoti (Piglia quel ch’io ti dicerò, se te ne vorrai saziare; e concentra tutto il tuo ingegno (t’assottiglia) su quanto sto per dirti (intorno da esso).
Anticipando a Dante l’enigmaticità dell’argomento — dato il suo non esser mai stato affrontato da nessuno — ed appunto spronandolo ad un ascolto attento, la santa donna principia accurata decifrazione.
Li cerchi corporai sono ampi e arti | |
secondo il più e ’l men de la virtute | |
66 | che si distende per tutte lor parti. |
I Cieli fisici (Li cerchi corporai) sono ampi oppure stretti (e arti) in base al maggiore o minore (secondo il più e ’l men) influsso benefico (de la virtute) che in ognun di loro s’espande nell’insieme (si distende per tutte lor parti).
Maggior bontà vuol far maggior salute; | |
maggior salute maggior corpo cape, | |
69 | s’elli ha le parti igualmente compiute. |
Un maggior irraggiamento provvidenziale (bontà), corrisponderà ad una maggiore salvezza (salute) dispensata (vuol far); maggior corpo racchiude (cape) maggior salvezza, qualora esso sia compiutamente uniforme (s’elli ha le parti igualmente compiute).
Dunque costui che tutto quanto rape | |
l’altro universo seco, corrisponde | |
72 | al cerchio che più ama e che più sape: |
Dunque questo Cielo (costui) che con il proprio moto trascina (rape) il resto (l’altro) Universo con sé (seco), corrisponde al cerchio che maggiormente avvampa d’amore e sapienza (al cerchio che più ama e che più sape):
per che, se tu a la virtù circonde | |
la tua misura, non a la parvenza | |
75 | de le sustanze che t’appaion tonde, |
tu vederai mirabil consequenza | |
di maggio a più e di minore a meno, | |
78 | in ciascun cielo, a sua intelligenza». |
per cui (che), se direzioni (circonde) il tuo metro di misurazione (misura) alla virtù salvifica anzichè sulla collocazione spaziale (non a la parvenza) degli esseri celesti (de le sustanze) che t’appaion sotto forma di cerchi (tonde), ti sara possibile riscontrare la meravigliosa proporzione (tu vederai mirabil consequenza) del maggiore col più e del minore col meno, fra ciascun Cielo e la corrispettiva (sua) intelligenza angelica”.
La grandezza dei Cieli dipende dalla quantità dell’influenza caritativa in essi espansa, dalla quale dipende proporzionalmente la salvezza generata, perciò il Primo Mobile, essendo il più vasto, racchiudendo in sé la totalità dell’Universo, oltre che includendo la quantità massima, rispetto agli altri Cieli, d’amore e saggezza; semplicemente variando il proprio punto di vista, orientandolo alla virtù propria ad ogni sfera e non alla dimensione fisica che la contraddistingue, all’Alighieri sarà finalmente possibile concepire come sia esclusivamente la distanza da Dio ad influenzarne la velocità e non la superficie, valore di riferimento all’origine del malinteso in lui sorto poco prima.
Come rimane splendido e sereno | |
l’emisperio de l’aere, quando soffia | |
81 | Borea da quella guancia ond’è più leno, |
per che si purga e risolve la roffia | |
che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride | |
84 | con le bellezze d’ogne sua paroffia; |
Come la cupola celeste (l’emisperio de l’aere) si rischiara rasserenandosi (rimane splendido e sereno), quando il vento di tramontana (Borea) soffia da quella (guancia) zona ov’è (guancia ond’è) più temperato (leno), di conseguenza sbarazzando (per che si purga) e dissolvendo (risolve) l’ammasso di nuvole (roffia) che precedentemente l’opacizzava (turbava), per modo che il cielo sorrida di beltà in ogni sua (ne ride con le bellezze d’ogne) parte paroffia);
Soffia a destra della Tramontana, da nord-ovest, il Maestrale, dalle temperature meno rigide.
così fec’ïo, poi che mi provide | |
la donna mia del suo risponder chiaro, | |
87 | e come stella in cielo il ver si vide. |
similmente capita nell’Alighieri (così fec’ïo) — constatando la verità come si vede una stella nel cielo —in seguito alle risposte chiarissime (del suo risponder chiaro) elargitegli (mi provide) dalla sua signora (mia donna).
Dopo la precisa illustrazione ricevuta dalla sua adorata, nell’intelletto di Dante è come se una folata di rigenerante vento disgregasse la dubbiosa nebbia che lo attanagliava, ad egli apparendo la sacrosante verità in maniera cristallina, come fosse un astro stagliato e ben visibile nell’oscurità celeste.
E poi che le parole sue restaro, | |
non altrimenti ferro disfavilla | |
90 | che bolle, come i cerchi sfavillaro. |
E non appena terminato il suo discorso (poi che le parole sue restaro), i cerchi angelici sfavillano al pari (non altrimenti) dello sfavillio (disfavilla) d’un ferro arroventato (che bolle).
L’incendio suo seguiva ogne scintilla; | |
ed eran tante, che ’l numero loro | |
93 | più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla. |
Ogni singola scintilla segue il proprio cerchio fiammante (L’incendio suo); e sono così tante che il loro numero entra nell’ordine delle migliaia (s’inmilla) più del raddoppio (’l doppiar) degli scacchi.
Al terminar del sermone di Beatrice i cerchi angelici scintillano copiosamente in una sfolgorante miriade d’angeli, il cui numero è talmente elevato dall’oltrepassare il raddoppio delle caselle d’una scacchiera, il paragone riferendosi ad una risaputa favella in voga ai tempi e secondo la quale partendo da uno e raddoppiando ad ognuna delle sessantaquattro caselle, ne deriverebbe un numero stratosferico.
Io sentiva osannar di coro in coro | |
al punto fisso che li tiene a li ubi, | |
96 | e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro. |
Dante ode intonar ‘Osanna’ (Io sentiva osannar) di coro in coro, verso quel punto fisso che li lega (tiene) — e sempre li legherà (terrà) — alla rispettiva sede (a li ubi), nella quale (ne’ quai) sono (fuoro) da sempre.
L’inno corale è unitamente rivolto a Dio, unico e sommo sovrano dei Cieli.
E quella che vedea i pensier dubi | |
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi | |
99 | t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. |
E colei (quella) che legge le perplessità (vedea i pensier dubi) adagiate nella mente dell’Alighieri, dichiara: “I primi cerchi t’hanno mostrato Serafini e Cherubini.
Beatrice, per l’ennesima volta interpretando le controversie attanagliate nella testa di Dante, inizia a delineare schematicamente le Gerarchie Angeliche, come riportato nell’introduzione a questa Cantica:
III Gerarchia
1° Cielo, Luna:
Angeli e spiriti che mancarono ai voti
2° Cielo, Mercurio:
Arcangeli e spiriti attivi per desiderio di gloria
3° Cielo, Venere:
Principati e spiriti amanti
II Gerarchia:
4° Cielo, Sole:
Potestà e spiriti sapienti
5° Cielo, Marte:
Virtù e spiriti militanti
6° Cielo, Giove:
Dominazioni e spiriti giusti
I Gerarchia:
7° Cielo, Saturno:
Troni e spiriti contemplativi
8° Cielo, Stelle fisse:
Cherubini nel trionfo di Cristo, Maria e Beati
9° Cielo, Primo mobile:
Serafini nel trionfo degli Angeli
Così veloci seguono i suoi vimi, | |
per somigliarsi al punto quanto ponno; | |
102 | e posson quanto a veder son soblimi. |
Alquanto repentini s’adeguano al loro vincolo (Così veloci seguono i suoi vimi) primo, per rendersi a lui simili più che possono (per somigliarsi al punto quanto ponno); e possono, poiché surclassanti tutte le creature nella facoltà di visionar Iddio (quanto a veder son soblimi).
Al primo ordine della prima gerarchia — di cui al ventottesimo versetto del quarto Canto di Paradiso (D’i Serafin colui che più s’india) — appartengono i Serafini, fiduciari primi e trasformatori della carità divina che, come i Cherubini, irraggiano sapienza nei Cieli subordinati; ambedue avendo accesso alla visione di Dio più di qualsiasi altra creatura ed i due cerchi ruotando velocissimi poiché appunto a Lui ed al suo amore molto vicini.
Quelli altri amori che ’ntorno li vonno, | |
si chiaman Troni del divino aspetto, | |
105 | per che ’l primo ternaro terminonno; |
Quelle altre intelligenze amorose (Quelli altri amori) che gli girano (li vonno) intorno, si chiamano Troni della magnificenza (aspetto) divina, motivo per cui sono predestinati a concludere la prima terna di Cieli (per che ’l primo ternaro terminonno);
e dei saper che tutti hanno diletto | |
quanto la sua veduta si profonda | |
108 | nel vero in che si queta ogne intelletto. |
e devi sapere che tutti giovano di letizia (hanno diletto) in modo corrispettivo a quanto la loro contemplazione s’immerge (sua veduta si profonda) nella verità in cui ogni intelletto si cheta (queta).
A chiusura del “primo ternaro” stanno i Troni, riflettenti la giustizia celeste, già apparsi in ben tre Canti di Paradiso, ossia nel IX (Sù sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante), XIX (Ben so io che, se ’n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio) ed infine nel XXI.
Quinci si può veder come si fonda | |
l’esser beato ne l’atto che vede, | |
111 | non in quel ch’ama, che poscia seconda; |
Da ciò (Quinci) si può comprendere (veder) come l’esser beato sia radicato nell’atto della visione (che vede), non in quello della carità (quel che l’ama), che ne è conseguenza (poscia seconda);
e del vedere è misura mercede, | |
che grazia partorisce e buona voglia: | |
114 | così di grado in grado si procede. |
e parametro di misura della visione (del vedere) sono i merito (mercede) originatisi (partoriti) dalla grazia e dalla buona volontà (voglia): cosi s’incrementa gradatamente (di grado in grado si procede) lo stato di beatitudine.
L’altro ternaro, che così germoglia | |
in questa primavera sempiterna | |
117 | che notturno Arïete non dispoglia, |
perpetüalemente ‘Osanna’ sberna | |
con tre melode, che suonano in tree | |
120 | ordini di letizia onde s’interna. |
La seconda terna (altro ternaro) — che così germoglia in questa paradisiaca primavera, tanto perenne (sempiterna) da non esserci autunno (notturno Arïete) che abbia il potere di spogliarla (dispoglia) — canta l’eterno ‘Osanna’ su tre registri melodici (melode), che s’accordano (suonano) ai tre (tree) ordini di beatitudine (letizia) nei quali si fa triplice (s’interna).
In essa gerarcia son l’altre dee: | |
prima Dominazioni, e poi Virtudi; | |
123 | l’ordine terzo di Podestadi èe. |
In questa gerarchia (essa gerarcia) vi son le altre intelligenze angeliche (dee): prima le Dominazioni, e poi le virtù (Virtudi); nel terzo ordine stanno le Potestà (di Podestadi èe).
Dominazioni, Virtù e Potestà deliziano l’udito su osannanti note suddivise in tre differenti melodie, a loro volta armonizzate ai relativi ordini.
Il “notturno Arïete” dovrebbe verosimilmente riferirsi al periodo in cui la Costellazione primaverile non si trova in congiunzione con il Sole, indi potendola vedere di notte.
Poscia ne’ due penultimi tripudi | |
Principati e Arcangeli si girano; | |
126 | l’ultimo è tutto d’Angelici ludi. |
Poi, nel terzultimo e penultimo (Poscia ne’ due penultimi) ordine tripudiante d’angeli, volteggiano (si girano) Principati ed Arcangeli; l’ultimo ordine trabocca d’Angeli festanti (Angelici ludi).
Questi ordini di sù tutti s’ammirano, | |
e di giù vincon sì, che verso Dio | |
129 | tutti tirati sono e tutti tirano. |
Questi ordini stanno in totale contemplazione guardando in alto (di sù tutti s’ammirano), frattanto irraggiando i loro influssi verso il basso (e di giù vincon sì), per modo da venir tutti quanti calamitati da (tirati verso) Dio e tutti calamitando (tirano) a Lui.
E Dïonisio con tanto disio | |
a contemplar questi ordini si mise, | |
132 | che li nomò e distinse com’io. |
E fu Dioniso che, con immensa brama (tanto desio) di conoscenza, s’adoperò al fin di sondare (a contemplar si mise) questo ordini angelici, da nominarli (che li nomò) e classificarli come feci io stesso (distinse com’io).
Ma Gregorio da lui poi si divise; | |
onde, sì tosto come li occhi aperse | |
135 | in questo ciel, di sé medesmo rise. |
Ma, in seguito, san Gregorio da lui si dissociò (divise); ragion per la quale (onde) rise di se stesso (medesmo), non appena posato lo sguardo (sì tosto come li occhi aperse) in questo Cielo.
Descrizione degli ordini angelici fu opera del filosofo, teologo ed autore — vissuto nel quinto o quarto secolo — Dionigi Aeropagita, viceversa il pontefice Gregorio I (540 circa – 604), detto ‘Gregorio Magno’, ebbe a classificarli in discordante modalità, poi accorgendosi dell’errore commesso non appena asceso al Primo Mobile e per questo auto schernendosi.
E se tanto secreto ver proferse | |
mortale in terra, non voglio ch’ammiri: | |
138 | ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse |
139 | con altro assai del ver di questi giri». |
E non voglio che tu ti stupisca (ch’ammiri) se un mortale è riuscito a pronunciare (proferse) sulla terra una verità (ver) tanto enigmatica (secreto): dacché gli venne rivelata (gliel discoperse) da colui che l’appurò (chi ’l vide) quassù, insieme a molte altre verità (con altro assai del ver) riguardo a queste rotazioni angeliche (di questi giri)”.
Beatrice cala il sipario dicendo all’Alighieri di non stupefarsi del fatto che un mortale — nello specifico Dionigi Aeropagita — abbia trattato d’una materia tanto elevata esponendola al mondo, dacché ispirato da san Paolo di Tarso (4-67) attraverso la visione paradisiaca che l’apostolo e martire riportò nella ‘II Lettera ai Corinzi’ e di cui si menziona fin dal secondo Canto infernale.
Sole e Luna saranno d’incipit al successivo capitolo: “Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de l’orizzonte insieme zona…”
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