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Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVI

Moritz von Schwind (1804-1871) Dante e Cupido, ca. 1830

 
Ancora nell’ottavo Cielo delle Stelle Fisse, l’Alighieri, dopo aver esaudito gli interrogativi su Fede e Speranza rispettivamente postigli dai santi Pietro e Giacomo, è da Giovanni Evangelista chiamato a rispondere sulla terza virtù teologale: la Carità.

Innanzitutto l’Apostolo si premura di rasserenar il viandante riguardo l’abbacinamento, garantendogli appunto esser condizione temporanea e persuadendolo a fidar sulla ragione al fine di sopperire alla privazione, ricordandogli inoltre che Beatrice, in possesso di medesimo dono manifestato da Anania di Damasco nei confronti di Paolo di Tarso, potrà restituirgli la vista, dopodiché, principia esortandolo ad esporre dettagliatamente quanto sappia e in cuor provi sul sentimento ch’è dichiarazione d’amore a Dio e al prossimo per amore del Padre Eterno stesso. Il vate, illustra e con tempestività risponde ai quesiti, in ultimo — sulla melodia di soave inno intonato dalle anime — da promessa recupera le proprie facoltà visive mediante lo sguardo dell’adorata sua guida e si accorge della presenza d’ulteriore luce: Adamo, primo spirito dall’Altissimo forgiato e col quale s’inabissa in lieta conversazione, ricevendo peraltro risposta a determinati interrogativi, tacitati, ma dal beato immancabilmente percepiti.

Poetica pertanto, compone ben distinti momenti in dedica alla santità di Giovanni Evangelista ed Adamo, tra loro però uniti dal Dante pellegrino, costantemente da Beatrice sostenuto, lungo il viaggio verso la sempre più vicina vetta celeste, dimora del Bene divino a cui il Sommo attinge, abbeverandosene con solenne arsura ed inesauribile emozione.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVI • Michael Parkes (1944), Dante Alighieri, 1993 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Michael Parkes (1944), Dante Alighieri, 1993

 

Mentr’io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
3 uscì un spiro che mi fece attento,
dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che hai in me consunta,
6 ben è che ragionando la compense.

Mentre Dante è in stato di dubbio riguardo al calar della propria vista (Mentr’io dubbiava per lo viso spento), dalla sfolgorante anima (de la fulgida fiamma) che l’ha abbacinato (lo spense) fuoriesce un sospiro calamitante la sua attenzione (uscì un spiro che mi fece attento), dicente (dicendo): “Intanto che tu ti riappropri del senso visivo (ti risense de la vista) che hai consumato nel guardarmi (in me consunta), è necessario che la compensi attraverso la ragione.

Ad annebbiamento visivo con cui sul finir del precedente Canto l’Alighieri si rese conto di non poter vedere le fisicità dell’adorata Beatrice, segue un richiamo di san Giovanni, il beato spronando il pellegrino all’uso della ragione ed apprestandosi a saggiarne conoscenza della carità, terza virtù teologale.

Comincia dunque; e dì ove s’appunta
l’anima tua, e fa ragion che sia
9 la vista in te smarrita e non defunta:

Dunque comincia; e dimmi (dì) verso dove tende (ove s’appunta) la tua anima, tenendo ben presente (e fa ragion che sia) quanto la tua vista sia in te smarrita e non definitivamente perduta (defunta):

perché la donna che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
12 la virtù ch’ebbe la man d’Anania».

perché la donna che ti fa da guida (conduce) per questo mondo (regïon) divino (dia), ha nello sguardo la facoltà (virtù) ch’ebbe la mano d’Anania”.

Rassicurandolo sul fatto che l’offuscamento della vista sia provvisorio, lo spirito inizia chiedendo a Dante quale sia il principale oggetto della sua affezione, nel mentre raffrontando Beatrice ad Anania, ovvero colui che —come narrato negli ‘Atti degli Apostoli’ — assecondando quanto prescritto in sogno da Gesù, pose le sue mani sul capo del Saulo di Tarso che, avviatosi in direzione Damasco al fin di trucidar cristiani, era stato accecato da un fulgore celeste, all’uomo Anania restituendo la facoltà visiva e convertendolo al ruolo d’apostolo, battezzato come Paulus.

Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
15 quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo.

L’Alighieri risponde: “Quando a lei garberà (Al suo piacere), repentino o lento che sia (e tosto e tardo), mi giunga (vegna) rimedio agli occhi, che le furono varco (fuor porte) quand’ella entrò in me col fuoco del quale perennemente avvampo (foco ond’io sempr’ardo).

Il poeta sottolinea la sua totale devozione alla beata sua guida, di buon grado accettandone qualsiasi tempistica a riguardo.

Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
18 mi legge Amore o lievemente o forte».

Il sommo bene che soddisfa (fa contenta) questa corte di beati è Alfa e Omega (O) di tutto ciò che l’amor di carità mi detta interiormente (quanta scrittura mi legge Amore) a qualsivoglia grado d’intensità (o lievemente o forte)”.

“Alfa e O” stanno a significare la totalità, dal principio alla fine, del “ben che fa contenta questa corte”, alias il Padre Eterno, del cui spirito di carità Dante è pervaso.

Quella medesma voce che paura
tolta m’avea del sùbito abbarbaglio,
21 di ragionare ancor mi mise in cura;

Quella medesima voce che ha tolto all’Alighieri ogni timore riguardo all’improvviso abbagliamento visivo (paura tolta m’avea del sùbito abbarbaglio), lo sprona di nuovo a parlare (di ragionare ancor mi mise in cura);

e disse: «Certo a più angusto vaglio
ti conviene schiarar: dicer convienti
24 chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».

poi dicendo: “Ma di certo ora è opportuno che tu schiarisca (Certo ti conviene schiarar) quanto sai, facendolo passare in un vaglio maggiormente stretto (a più angusto)”.

La “medesma voce” è sempre quella di san Giovanni, che incentiva il discepolo ad esprimersi senza timor alcuno, al contempo invitandolo ad approfondire il discorso.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVI • Raffaello Vanni (1587-1673), Allegoria della Carità, ca. 1670 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Raffaello Vanni (1587-1673), Allegoria della Carità, ca. 1670

 

E io: «Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
27 cotale amor convien che in me si ’mprenti:

E Dante: “Cotale amor s’imprime è in me suggellato per (convien che in me si ’mprenti) sia tramite dissertazioni razionali (filosofici argomenti) che per l’autorità che dal Paradiso s’effonde (quinci scende):

ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
così accende amore, e tanto maggio
30 quanto più di bontate in sé comprende.

poiché il bene, in quanto bene, non appena (come) lo s’intende nella sua vera essenza, accende amore nell’immediato ed è maggiore in proporzione alla bontà in esso contenuta (tanto maggio quanto più bontate in sé comprende).

Per “autorità che quinci scende” s’intendono le Sacre Scritture che diffondono negli uomini la parola di Dio, bene supremo — involucro della bontà assoluta — che nell’uman cuore tanto è più grande quanto più s’avvicina alla perfezione, in una sorta di celestiale proporzione i cui termini sono direttamente proporzionali.

Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
33 altro non è ch’un lume di suo raggio,
più che in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
36 il vero in che si fonda questa prova.

Dunque verso tal essenza, nella quale v’è uno smisurato vantaggio (ov’è tanto avvantaggio) di bontà, al punto da esser qualsiasi bene esterno un di lei riflesso (che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non è ch’un lume di suo raggio), deve orientarsi (convien che si mova) — più che verso qualsiasi (in) altra, ed amando — la mente d’ogni uomo che sappia riconoscere con precisione (di ciascun che cerne) la verità sulla quale si fonda quest’argomentazione (il vero in che si fonda questa prova).

Tal vero a l’intelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
39 di tutte le sustanze sempiterne.

Appiana (sterne) tal verità al mio intelletto colui che riesca a dimostrarmi l’oggetto primario dell’amore (il primo amore) di tutte le creature (sustanze) predestinate alla salvezza eterna (sempiterne).

Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
42 ‘Io ti farò vedere ogne valore’.

Ed appiana tal verità la voce del vero (verace) autore, che dice a Mosé, parlando di sé: ‘Io ti mostrerò ogni bene (ogne valore)’.

L’uomo che con la sua intelligenza riesca ad individuare e capire la verità sulla quale poggia il ragionamento in questione, altro non potrà far che propendere verso quell’essenza divina dalla quale tutte le altre derivano ed all’Alighieri “tal vero” s’evidenzia sia tramite insegnamenti filosofici che attraverso la Sacre Scritture, nello specifico ricollegandosi all’episodio che vide come protagonista Mosè supplicare il Signore, sul monte Sinai, di rivelarsi in tutta la sua misericordia: ‘Ego ostendam omne bonum tibi’ — ‘Ti mostrerò tutto il bene’.

Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
45 di qui là giù sovra ogne altro bando».

Tal verità me l’appiani (Sternilmi) anche (ancora) tu, al principio del tuo elevato annuncio (incominciando l’alto preconio) che proclama sulla Terra (grida là giù) il mistero divino (l’arcano di qui), surclassando qualsiasi altra promulgazione (sovra ogne altro bando)”.

Almeno due sono le interpretazioni di questa terzina, taluni leggendone aggancio al Vangelo secondo Giovanni, nel cui incipit viene tratteggiato l’assioma della reincarnazione divina nell’uomo, altri, sebben ipotesi meno accreditata, ricollegandola al ‘Libro dell’Apocalisse’.

E io udi’: «Per intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
48 d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.

E Dante sente in risposta: “Per mezzo di ragionamenti (intelletto) umani e per l’autorità che gli si accorda (autoritadi a lui concorde), il tuo amor prioritario (d’i tuoi amori il sovrano) è indirizzato (guarda) a Dio.

Ma dì ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
51 con quanti denti questo amor ti morde».

Ma dimmi ancor se in te vi siano altri impulsi (se tu senti altre corde) che t’instradino (tirarti) verso di Lui, per modo che tu possa rivelare chiaramente (suone) con quanti denti questo amor ti morde.”

San Giovanni indaga ulteriormente, la metafora dei “denti” riferendosi ad aggiuntive sollecitazioni presenti nell’Alighieri — a pungolarne l’amor di carità — oltre a quelle già riportate.

Non fu latente la santa intenzione
de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
54 dove volea menar mia professione.

A Dante non resta celata (fu latente) la santa intenzione dell’aquila (de l’aguglia) di Cristo, anzi ben comprende (m’accorsi) la direzione nella quale egli desideri volgere la sua (dove volea menar mia) professione di carità.

È ormai nota la capacità dei beati di leggere nel pensiero dell’Alighieri, tramite Iddio.

L’appellativo “aguglia di Cristo” è posto in capo a san Giovanni, difatti secondo l’esegesi medievale ai quattro Evangelisti corrispondendo corrispettive figurazioni — l’uomo, il leone, il vitello e, per l’appunto, l’aquila — apparsi nella sacra processione del ventinovesimo Canto di Purgatorio ed il termine “aguglia” occupando il centosettesimo versetto del diciottesimo Canto di Paradiso: “la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi”.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVI • Carlo Dolci (1616-1687), San Giovanni Evangelista, 1671 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Carlo Dolci (1616-1687), San Giovanni Evangelista, 1671

 

Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
57 a la mia caritate son concorsi:

Pertanto Dante riprende a parlare (Però ricominciai): “Tutti quegli stimoli (quei morsi) che sono in grado far convergere il cuore all’Altissimo (posson far lo cor volgere a Dio), hanno concorso ad accendere la mia carità (a la mia caritate son concorsi):

ché l’essere del mondo e l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’io viva,
60 e quel che spera ogne fedel com’io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
63 e del diritto m’han posto a la riva.

dacché l’esistenza (l’essere) del mondo e la mia stessa esistenza, la morte subita dal Cristo (ch’el sostenne) perch’io potessi continuare a vivere (viva), e la speranza di chiunque abbia fede come me (quel che spera ogne fedel com’io), m’hanno estrapolato (tratto) dal mare dell’amore mal diretto (torto), facendomi approdare sulla (m’han posto a la) riva di quello ove l’amore è rettamente volto (del diritto).

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano etterno, am’io cotanto
66 quanto da lui a lor di bene è porto».

Ed io amo le creature delle quali è popolato (Le fronde onde s’infronda) tutto il regno celeste (l’orto de l’ortolano etterno), in base al bene che il Creatore destina a ciascuna d’esse (cotanto quanto da lui a lor di bene è porto)”.

Ogni motivo che possa minimamente condurre il passo all’Eterno è nell’Alighieri fonte d’ispirazione, lui stesso riprendendo, fin dalla selva oscura, quella celebre “diritta via smarrita”; inondato di Grazia, Dante esplode amore puro nei confronti di tutte le creature ed allegoria s’affida a incantevole metafora agricola — di probabile ispirazione al Vangelo secondo Giovanni — più volte ‘presa a prestito’ nel dodicesimo Canto di Paradiso, precisamente al settantunesimo, settantaduesimo e centoquattresimo verso: “sì come de l’agricola che Cristo elesse a l’orto suo per aiutarlo” – “onde l’orto catolico si riga”.

Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
69 dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».

Non appena l’Alighieri si silenzia (Sì com’io tacqui), un dolcissimo inno (canto) risuona in tutto il Cielo e la sua signora (mia donna) s’unisce al coro, cantando (dicea con li altri): “Santo, santo, santo!”.

Trattasi d’inno lodante il Dio degli eserciti, ch’era incipit della liturgia gregoriana, oggigiorno introduzione al celebrar l’Eucarestia.

E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
72 a lo splendor che va di gonna in gonna,
e lo svegliato ciò che vede aborre,
sì nescia è la sùbita vigilia
75 fin che la stimativa non soccorre;

E come ci si affranca dal sonno (disonna) — a causa d’una prepotente luce (a lume acuto) — essendo che la vista (lo spirto visivo) scivola a ritroso (ricorre) verso lo stimolo luminoso (a lo splendor) che trapassa le varie membrane oculari (va di gonna in gonna), colui che si ridesta apparendo reticente di fronte a (e lo svegliato aborre) ciò che vede, dal tanto ch’è inconsapevole per effetto del brusco risveglio (sì nescia è la sùbita vigilia), fintantoché non gli arriva in soccorso la capacità di giudizio (fin che la stimativa non soccorre);

così de li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
78 che rifulgea da più di mille milia:

così Beatrice spazza (fugò) dagli occhi di Dante ogni scoria (de li occhi miei ogne quisquilia) con la luminosità (col raggio) dei suoi, che rifulge talmente da potersi scorgere anche si trovasse a più di mille miglia (milia):

onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
81 d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.

grazie al di lei intervento l’Alighieri riesce a vedere meglio di prima (onde mei che dinanzi vidi poi); e, quasi stupefatto, chiede delucidazioni (domandai) riguardo ad una quarta anima lucente ch’egli nota fra loro (d’un quarto lume ch’io vidi tra noi).

Gli occhi di Beatrice sembrano parlare, il lor sfavillio talmente possente da potersi vedere a che a lunghissime distanze.

E la mia donna: «Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l’anima prima
84 che la prima virtù creasse mai».

E la sua signora: “All’interno di quel chiarore (Dentro da quei rai) contempla il suo creatore (fattor), la prima anima creata dall’Ente Supremo (che la prima virtù creasse mai)”.

Si tratta dello spirito d’Adamo e, invero, non v’è certezza inopinabile su chi sia a contemplare e chi venga contemplato fra lui ed il “suo fattor”.

Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
87 per la propria virtù che la soblima,
fec’io in tanto in quant’ella diceva,
stupendo, e poi mi rifece sicuro
90 un disio di parlare ond’io ardeva.

Come l’albero che si flette in cima al passaggio (nel transito) del vento, poi tornando a drizzarsi (si leva), concordandosi con la propria inclinazione naturale all’essere eretto (per la propria virtù che la soblima), similmente fa Dante sulla scia delle parole di Beatrice (fec’io in tanto in quant’ella diceva) — sbalordendolo — e poi rinfrancandone l’ardente brama (mi rifece sicuro un disio ond’io ardeva) di parlare.

Ancora una volta l’Alighieri si dona al piacere di lasciare fra le righe la stretta relazione fra le proprie titubanze e il costante rincuorarle da parte della sua adorata, perenne incoraggiamento al suo proferir parola.

E cominciai: «O pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
93 a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
96 e per udirti tosto non la dico».

E Dante inizia dicendo: “O frutto (pomo) che, tu solamente (solo), fosti generato (prodotto) già maturo, o antico padre per il quale ogni sposa è figlia e nuora (nuro), con la massima devozione a me possibile (divoto quanto posso) a te mi rivolgo supplicandoti di parlarmi (supplìco perché mi parli): ti sei a conoscenza di quanto desidero (vedi mia voglia), e non la dichiaro (dico) per ascoltarti sull’istante (udirti tosto)”.

Ogni donna è ritenuta tanto figlia d’Adamo in quanto egli primo progenitore, quanto nuora poiché inevitabilmente maritata ad un di lui discendente.

Talvolta un animal coverto broglia,
sì che l’affetto convien che si paia
99 per lo seguir che face a lui la ’nvoglia;

Come talvolta un animale si dimena (broglia) se coperto da un panno, facendo sì che il suo stato d’animo si possa nitidamente percepire (sì che l’affetto convien che si paia) in quanto l’involto ne segue i movimenti (per lo seguir che face a lui la ’nvoglia);

e similmente l’anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
102 quant’ella a compiacermi venìa gaia.

similmente la prima anima forgiata (primaia) lascia trasparire dal proprio mantello (mi facea trasparer per la coverta) di luce quanto l’appaghi il fatto di compiacere l’Alighieri (quant’ella a compiacermi venìa gaia).

Egli dunque avanza richiesta di gentil colloquiare ad Adamo, il beato frizzando gioioso al sol pensiero di soddisfarla ed un balenante brillio confermandone e palesando la sua contentezza e l’Alighieri decidendo di lasciarsi leggere la mente per non perdere nemmen una frazione di secondo, nell’incontenibile voglia di sentire quanto prima cosa l’anima andrà svelandogli.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Paradiso, Canto XXVI • Giovanni Benedetto ‘Grechetto’ Castiglione (1609-1664), Creazione di Adamo, ca.1642 • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Giovanni Benedetto ‘Grechetto’ Castiglione (1609-1664), Creazione di Adamo, ca.1642

 

Indi spirò: «Sanz’essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
105 che tu qualunque cosa t’è più certa;

Indi affermando (spirò): “Senza che mi sia da te stata profferita (proferta) da te, ben comprendo (discerno) la tua smania (voglia) di sapere meglio di quanto tu non comprenda qualunque cosa ti sia assai evidente (t’è più certa);

perch’io la veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a l’altre cose,
108 e nulla face lui di sé pareglio.

perch’io la distinguo nello specchio della verità (nel verace speglio) che forgia a sua immagine e somiglianza qualsiasi altra cosa (fa di sé pareglio a l’altre cose), e nessuna d’esse può esserne identica copia (nulla face lui di sé pareglio).

Tu vuogli udir quant’ è che Dio mi puose
ne l’eccelso giardino, ove costei
111 a così lunga scala ti dispuose,

Tu vorresti sentirti dire quanto tempo è trascorso da quando (vuogli udir quant’ è che) Dio mi collocò (puose) nel Paradiso Terrestre (ne l’eccelso giardino) ove costei t’ha disposto (ti dispose) a cotanta ascesa (così lunga scala)

e quanto fu diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno,
114 e l’idïoma ch’usai e che fei.

e quanto quel luogo mi compiacque lo sguardo (fu diletto a li occhi miei), quindi l’esatta ragione della collera divina (e la propria cagion del gran disdegno), infine quale fu la lingua che ideai (e l’idïoma ch’usai) e che parlai (fei).

Adamo raccoglie con entusiasmo la proposta, dunque anticipando i quattro quesiti che premono sulle dantesche meningi, vale a dire: quand’egli venne collocato nell’Eden; per quanto tempo quel lussureggiante giardino gli fu gradevole; quale fu il motivo preciso dell’ira celeste e quale lingua egli utilizzò per esprimersi.

Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
117 ma solamente il trapassar del segno.

Ora, figliolo mio, non fu il fatto d’aver mangiato il frutto proibito (gustar del legno) a causar il lungo (per sé la cagion di tanto) esilio, ma solamente l’aver oltrepassato un divieto divino (il trapassar del segno).

Partendo con le varie spiegazioni Adamo dichiara che non fu il “gustar del legno” la causa del suo allontanamento, ma la non osservanza del decreto celeste.

Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
120 di sol desiderai questo concilio;

Quindi dal posto in cui (onde) Virgilio venne inviato da Beatrice (mosse tua donna) in tuo aiuto, per quattromilatrecentodue rivoluzioni solari (volumi di sol) desiderai quest’ordine (collegio) di santi;

e vidi lui tornare a tutt’i lumi
de la sua strada novecento trenta
123 fïate, mentre ch’io in terra fu’mi.

e, durante la mia esistenza terrestre (mentre ch’io in terra fu’mi), vidi il Sole (lui) ripetere il suo percorso per i segni zodiacali (tornare a tutt’i lumi de la sua strada) per novecentotrenta volte (fïate).

Il luogo “onde mosse tua donna Virgilio” è il Limbo, dove Adamo rimase per quattromilatrecentodue anni prima d’ascendere al Paradiso, per tutto il corso di quei millenni desiderando con tutto se stesso entrare a far parte della congregazione di spiriti beati, inoltre avendo vissuto novecentotrent’anni sul mondo.

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
126 fosse la gente di Nembròt attenta:

La lingua ch’io parlai era già completamente estinta (fu tutta spenta) prima che il popolo (gente) di Nembroth si dedicasse (fosse attenta) all’interminabile edificazione (a l’ovra inconsummabile) della Torre di Babele:

ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
129 seguendo il cielo, sempre fu durabile.

perché nessun prodotto della ragione (ché nullo effetto mai razïonabile) mai ebbe infinita durata (sempre fu durabile), vista la volubilità (piacere) umana che si rinnova secondo le influenze celesti (rinovella seguendo il cielo).

Opera naturale è ch’om favella;
ma così o così, natura lascia
132 poi fare a voi secondo che v’abbella.

È opera di natura che l’umanità parli (ch’om favella); ma, che lo faccia in una maniera o nell’altra (così o così), la natura vi concede libero arbitrio (lascia poi fare a voi) secondo vostro gradimento (che v’abbella).

Secondo errata credenza, la realizzazione della famigerata Torre di Babele venne ascritta al gigante Nembroth, mentre per quanto concerne la scelta di quale linguaggio assumere come proprio spettò agli uomini, in generale inconcludenti le loro opere in quanto estremamente incostanti.

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
135 onde vien la letizia che mi fascia;

Prima ch’io discendessi all’infernal regno (ambascia), il sommo bene da cui proviene la beatitudine (onde vien la letizia) che m’avvolge (mi fascia), in Terra si chiamava I;

e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
138 in ramo, che sen va e altra vene.

ed EL venne appellato in seguito (si chamò poi): giacché le abitudini degli uomini sono (ché l’uso d’i mortali è) come fronde sui rami, che una casca (sen va) e l’altra rinasce (vene).

“I” è verosimilmente nome d’invenzione dell’autore, viceversa “El” si narra fosse il primo nominativo assunto dagli ebrei per indicare Dio, nonché prima parole detta da Adamo, le sue variazioni ascrivibili alla tendenza umana a variare consuetudini.

Nel monte che si leva più da l’onda,
fu’ io, con vita pura e disonesta,
141 da la prim’ora a quella che seconda,
142 come ’l sol muta quadra, l’ora sesta».

Io dimorai (fu’) in apice al monte che più di tutti gli altri s’erge (si leva) sul mare (da l’onda), fra innocenza e colpevolezza (con vita pura e innocente), dalla prima ora fin a quella che seguita (seconda) la sesta, allorché (come) il Sole muta quadrante (quadra).

Il “monte che si leva più da l’onda” è il Purgatorio e l’espressione “con vita pura e disonesta” significa prima e dopo aver peccato.

La “prim’ora” è l’alba, mentre quella “che seconda l’ora sesta” è il mezzodì, pertanto dalle sei di mattina alle tredici, ossia quando la sfera solare passa dal primo al secondo quadrante.

Successivo Canto s’aprirà sulle note del Gloria: “ ‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’, cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso, sì che m’inebrïava il dolce canto…”
 
 
 
 

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