Divina Commedia: Paradiso, Canto XXIII
Bartolomeo Pinelli (1781-1835), Le schiere del Trionfo di Cristo, 1826
Nel Cielo delle Stelle Fisse, Canto si dischiude in delicata immagine di Beatrice che, assorta e palpitante, è dal Dante silenziosamente contemplata, dibattendosi tra desiderio di conoscerne ragion di cotal tangibile trepidazione e discrezione, in ultimo decidendo di nulla domandare, ma d’attendere e d’un tratto, improvviso ravvivarsi della volta celeste preludia il sopraggiungere di brillanti anime, il cui arrivo esplode ardor sul viso della donna ed ella esortando l’Alighieri a concentrarsi sugli esultanti beati, seguitamente apparendo la gloriosa e abbacinante figura di Cristo, ch’egli però non può coglier nitidamente, dacché rilucente visione consentita esclusivamente ai santi spiriti.
Avendo potuto rivolger sguardo, seppur parziale, al Redentore, il vate è ora in grado di tollerare il sorriso di Beatrice ed è lei stessa a comunicarglielo, in lui deflagrando una gratitudine difficile a contenersi e tatuata in memoria, purtroppo di quel “riso” tanto bello ed elevato non sentendosi in grado di narrare, più volte rinunciando ad alcune descrizioni ed attuando una selezione degli argomenti da affrontare nel “sacrato poema”, considerata l’elevatezza della materia.
Ancora una volta la beata guida sprona il suo innamorato ad affrancarsi dal di lei volto ed a concentrarsi altrove, indi Dante, come sempre assecondandone richieste, orientando occhi alla volta dell’ottavo Cielo e contemplando la Vergine Maria, attorniata dei dodici apostoli, in ultimo dall’alto calandosi una smagliante corona alla probabile identità dell’arcangelo Gabriele, cantore omaggiante la Madonna e la sua melodia seguita dal corale inno di tutte le anime, a spettacolo concluso il Cristo e la Santissima madre ascendendo, infine il drappello dei beati cantando il ‘Regina celi’ al cospetto d’un Alighieri intimamente stupefatto e compiaciuto da cotanta grazia, san Pietro chiudendo l’ultimo versetto come “colui che tien le chiavi di tal gloria”.
Come l’augello, intra l’amate fronde, | |
posato al nido de’ suoi dolci nati | |
3 | la notte che le cose ci nasconde, |
che, per veder li aspetti disïati | |
e per trovar lo cibo onde li pasca, | |
6 | in che gravi labor li sono aggrati, |
previene il tempo in su aperta frasca, | |
e con ardente affetto il sole aspetta, | |
9 | fiso guardando pur che l’alba nasca; |
Come l’uccello (augello) il quale, riposatosi (posato) fra (intra) l’amate fronde — durante la notte che tutte le cose nasconde — accanto al nido dei suoi teneri piccoli (dolci nati), per rivederne le desiate sembianze (li aspetti disïati) e per trovar loro cibo di cui nutrirli (onde li pasca) — ricerca per la quale non v’è fatica che gli pesi (in che gravi labor li sono aggrati) — previene il tempo appollaiato su un ramo scoperto (in su aperta frasca), attendendo il Sole con fervente trepidazione (ardente affetto), fissando lo sguardo al nascente albeggiar (fiso guardando pur che l’alba nasca);
così la donna mïa stava eretta | |
e attenta, rivolta inver’ la plaga | |
12 | sotto la quale il sol mostra men fretta: |
così Beatrice s’erige con attenzione (la donna mïa stava eretta e attenta), rivolta verso quella zona del Cielo (inver’ la plaga) sotto la quale il Sole par che moderi il proprio corso (mostra men fretta):
sì che, veggendola io sospesa e vaga, | |
fecimi qual è quei che disïando | |
15 | altro vorria, e sperando s’appaga. |
per modo che, Dante vedendola tanto assorta ed ansiosa (veggendola io sospesa e vaga), si comporta come colui il quale, desiderando quanto vorrebbe avere (fecimi qual è quei che disïando altro vorria), s’appaga di speranze.
In similitudine tra Beatrice e premurosa genitorialità d’alato, con ispirata grazia l’Alighieri tratteggia l’adorata ricolma d’amorevole misericordia, ponendosi, al pari dei piccoli inermi all’esistere, pellegrino fidente sulla beata guida intanto rivolta ai Cieli alla ricerca d’un’estatica visione e il punto in cui ella fissa sguardo verosimilmente essendo lo zenit, sul cui passaggio, verso mezzogiorno, dalla Terra il Sole appare rallentato nel suo corso.
Ma poco fu tra uno e altro quando, | |
del mio attender, dico, e del vedere | |
18 | lo ciel venir più e più rischiarando; |
Ma brevissimo tempo trascorre fra i due momenti (Ma poco fu tra uno e altro quando), l’Alighieri intendendo (dico) quello riguardante la sua attesa (del mio attender) e quello del veder il Cielo rischiararsi.
Brevissimi sono gli attimi intercorrenti fra l’attendere l’evento ed il suo verificarsi.
e Bëatrice disse: «Ecco le schiere | |
del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto | |
21 | ricolto del girar di queste spere!». |
e Beatrice afferma (disse): “Ecco le schiere del trionfo di Cristo e la totalità dei frutti raccolti negli influssi di queste sfere celesti (e tutto ’l frutto ricolto del girar di queste spere!
Il “frutto ricolto” si riferisce probabilmente alla totalità delle anime giunte a salvezza eterna e celebranti il “trionfo” della Chiesa in Cristo, nel tripudio delle stesse non essendovi tuttavia certezza interpretativa s’esse siano tutte quelle presenti in Paradiso o solamente una parte.
Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto, | |
e li occhi avea di letizia sì pieni, | |
24 | che passarmen convien sanza costrutto. |
All’Alighieri sembra (Pariemi) che il di lei viso avvampi completamente (ardesse tutto) ed i suoi occhi talmente colmi di gioia (avea di letizia sì pieni), da vedersi costretto (che convien) a passar oltre senza fiatare (passarmen sanza costrutto).
Il gaudio di Beatrice raggiunge livelli tali da scoraggiare Dante riguardo a qualsivoglia tentativo descrittivo, nel timor di non averne gli adeguati strumenti scrittori e tal dubbio, più volte lo frenerà.
Quale ne’ plenilunïi sereni | |
Trivïa ride tra le ninfe etterne | |
27 | che dipingon lo ciel per tutti i seni, |
vid’i’ sopra migliaia di lucerne | |
un sol che tutte quante l’accendea, | |
30 | come fa ’l nostro le viste superne; |
Come nei pleniluni sereni Diana (Trivïa) sorride fra l’eterne ninfe che pennellano il cielo in ogni regione (dipingon lo ciel per tutti i seni), parimenti l’Alighieri vede sopra di lui migliaia di spiriti lucenti e un Sole che li accende tutti quanti, esattamente come l’astro terrestre (’l nostro) può con le stelle;
L’epiteto Trivia — comune alla dea Ecate — è in attributo a Diana, mitologica divinità italica, latina e romana correlata alla Luna, la quale durante le serene nottate di plenilunio rifulge fra le ninfe “etterne” identificate con le stelle, abbinamento già esplicitato nel trentunesimo Canto purgatoriale: “Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle” e tali sono anche le “viste superne”, letteralmente “aperture altissime”, da errata credenza astronomico-medievale dell’epoca, descritte illuminate dal Sole posto al disotto dell’orizzonte, astro anche dipinto a rappresentazione di Cristo.
e per la viva luce trasparea | |
la lucente sustanza tanto chiara | |
33 | nel viso mio, che non la sostenea. |
ed attraverso quella vivifica (viva) luce traspare la luminosissima sostanza divina, talmente abbagliante alla vista di Dante (tanto chiara nel viso mio), da risultargli insostenibile (che non la sostenea).
La “lucente sustanza” corpo del Cristo risorto — nell’arcano enigma della resurrezione — la cui tersa visione è accessibile solamente ai santi, dunque l’Alighieri tollerandone una percezione confusa.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara! | |
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza | |
36 | è virtù da cui nulla si ripara. |
Oh Beatrice, dolce e cara guida! Ella gli dice: “colui che ti sopraffà (sobranza) è virtù alla quale nessun’altra resiste (da cui nulla si ripara).
Quivi è la sapïenza e la possanza | |
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra, | |
39 | onde fu già sì lunga disïanza». |
Qui vi son la saggezza (sapïenza) e la potenza (possanza) che ripristinarono il collegamento (ch’aprì) delle strade fra Cielo e Terra, desiderio da lungo tempo in seno a genere umano (onde fu già sì lunga disïanza)”.
L’amorevole Beatrice prende parola a rimarcare la magnificenza divina, il riavvicinamento fra l’uomo ed il regno celeste messo in atto dal Figlio d’Iddio, ristabilendo quanto infranto dal peccato originale.
Come foco di nube si diserra | |
per dilatarsi sì che non vi cape, | |
42 | e fuor di sua natura in giù s’atterra, |
la mente mia così, tra quelle dape | |
fatta più grande, di sé stessa uscìo, | |
45 | e che si fesse rimembrar non sape. |
Come una saetta (foco) prorompe (si diserra) da una nube, dilatandosi a punto da non poter dalla stessa esser contenuta (per dilatarsi sì che non vi cape) e piomba sul mondo (in giù s’atterra), al di fuori della propria natura, così la mente di Dante — accresciutasi (fatta più grande) fra quelle vivande (dape) celesti — uscendo (uscìo) da se stessa ed non essendo in grado di ricordarne le azioni (e che si fesse rimembrar non sape), per la seconda volta — in tal Canto — rinunciando a scriverne.
«Apri li occhi e riguarda qual son io; | |
tu hai vedute cose, che possente | |
48 | se’ fatto a sostener lo riso mio.» |
“Apri gli occhi e riguarda il mio aspetto (qual son io); tu hai visto cose che ora ti rendono possibile (possente s’è’ fa sostenere anche il mio sorriso)!
Avendo l’Alighieri potuto visionare, seppur parzialmente, la luce dell’Altissimo, or sarà perfettamente in grado di sostenere il sorriso della donna amata, che ne è il riflesso.
Io era come quei che si risente | |
di visïone oblita e che s’ingegna | |
51 | indarno di ridurlasi a la mente, |
quand’io udi’ questa proferta, degna | |
di tanto grato, che mai non si stingue | |
54 | del libro che ’l preterito rassegna. |
All’udir (io udi’) codesta proposta (questa proferta) — degna d’immensa gratitudine al punto da non cancellarsi mai dal libro del passato (degna di tanto grato che mai non si stingue
del libro che ’l preterito rassegna) — Dante si percepisce come colui che si ridesti da un sogno sbiadito (quei che si risente di visïone oblita) e che s’ingegni invano di riaffiorarlo alla memoria (indarno di ridurlasi a la mente).
Se mo sonasser tutte quelle lingue | |
che Polimnïa con le suore fero | |
57 | del latte lor dolcissimo più pingue, |
per aiutarmi, al millesmo del vero | |
non si verria, cantando il santo riso | |
60 | e quanto il santo aspetto facea mero; |
Se in questo istante suonassero (mo sonasser) tutte quelle voci (lingue) che Polimnia e le sorelle (suore) impreziosirono col più soave latte della loro ispirazione (fero del latte lor dolcissimo più pingue), per aiutarmi, l’Alighieri non sarebbe in grado di riportare più d’un millesimo di verità (al millesmo del vero non si verria), nel decantare (cantando) il santo sorriso di Beatrice e quanto lo stesso facesse risplendere facea mero);
e così, figurando il paradiso, | |
convien saltar lo sacrato poema, | |
63 | come chi trova suo cammin riciso. |
e dopotutto, la figurazione del (figurando il) Paradiso implica un procedere a balzi (convien saltar) per il sacro (lo sacrato) poema, come chi si trovi ostacolato nel percorso (suo camin reciso).
Il pellegrino trabocca una riconoscenza tale per il poter di nuovo contemplare il sorriso della sua aggraziata signora, d’aver questa sensazione indelebile alla memoria, al contempo non ricordandone che un “millesmo”, non abbastanza per tratteggiarne e per la terza volta posando penna fra queste terzine, ritenendo che nemmeno l’unione delle più insigni voci poetiche, anche qualora ispirate da Polimnia e le sue sorelle — rispettivamente musa della poesia lirica ed altre Muse — sarebbero in grado di venirgli in soccorso e d’altronde la compiuta figurazione del Paradiso portandolo facendo procedere il “sacrato poema” con intermittenza, per la quarta Dante oltrepassando argomento, causa il non sentirsi adeguato.
Ma chi pensasse il ponderoso tema | |
e l’omero mortal che se ne carca, | |
66 | nol biasmerebbe se sott’esso trema: |
Ma chi valutasse la gravosa tematica (pensasse il ponderoso tema) e le mortali spalle (omero) che se ne fanno carico (carca), mai le biasimerebbe al lor tremar sotto tal peso (nol biasmerebbe se sott’esso trema):
non è pareggio da picciola barca | |
quel che fendendo va l’ardita prora, | |
69 | né da nocchier ch’a sé medesmo parca. |
non è rotta da piccola imbarcazione (pareggio da picciola barca) quella che va fendendo l’ardita prua (prora), tantomeno a un timoniere che risparmi forze (né da nocchier ch’a sé medesmo parca).
D’altronde a chiunque considerasse le difficoltà argomentative della terza Cantica, sarebbe impossibile avanzare deploranti critiche, essendo l’impresa non destinata a chiunque e, soprattutto, avventata per coloro che tentino ardue rotte poetiche, qualora non provvisti d’opportuni strumenti lirici, nella metafora della “picciola barca” l’autore della Commedia richiamandone la somigliante citazione contenuta nel capoverso delle prime due terzine del secondo Canto di Paradiso: “O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, ché forse, perdendo me, rimarreste smarriti”.
«Perché la faccia mia sì t’innamora, | |
che tu non ti rivolgi al bel giardino | |
72 | che sotto i raggi di Cristo s’infiora? |
“Perché il mio volto tanto t’innamora in tal maniera, da non farti rivolgere al bel giardino che s’infiora sotto i raggi di Cristo?”
Quivi è la rosa in che ’l verbo divino | |
carne si fece; quivi son li gigli | |
75 | al cui odor si prese il buon cammino.» |
Qui v’è la rosa nella quale s’incarnò (carne si fece) il Verbo Divino; qui vi sono i gigli sul cui effluvio s’intraprese la retta via (al cui odor si prese il buon cammino).”
Di fronte all’evidente ed infinito innamoramento dell’Alighieri, Beatrice lo sprona a deviar sguardo oltre il femmineo viso, viceversa volgendolo al bagliore del Cristo-Sole asceso ai Cieli, colui che irraggia di luce la collettività delle anime beate come fossero fidenti e devoti fiori che sbocciano nel “bel giardino” da lui nutrito ed in cui si distingue una sovrastante “rosa” nella quale è incarnato il “verbo divino”, nonché dei “gigli”, vale a dire la Beata Vergine ed una corona di dodici apostoli, quest’ultimi, tramite il loro profumo, conducendo gli uomini sulla via della salvezza, la terzina incantevolmente abbandonandosi alla bellezza della naturale e fresca metafora.
Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli | |
tutto era pronto, ancora mi rendei | |
78 | a la battaglia de’ debili cigli. |
Queste le parole di Beatrice; e Dante — che con tutto se stesso è pronto a seguire ogni suo consiglio — ancora una volta arrendendosi alla battaglia della sua debole vista (de’ debili cigli).
L’Alighieri torna a posare sguardo su quanto aveva soggiogato la sua facoltà visiva.
Come a raggio di sol, che puro mei | |
per fratta nube, già prato di fiori | |
81 | vider, coverti d’ombra, li occhi miei; |
Come gli occhi di Dante, protetti (coverti) dall’ombra, già videro un prato fiorito sotto un raggio di sole che si propaga limpido (puro mei) per mezzo della smagliatura d’una nuvola (per fratta nube);
vid’io così più turbe di splendori, | |
folgorate di sù da raggi ardenti, | |
84 | sanza veder principio di folgóri. |
così allor vede più drappelli (turbe) di splendenti spiriti, fulgidi per effetto di fiammeggianti raggi provenienti dall’alto (di sù), senza veder la fonte (principio) della folgore.
Ciò che vede l’Alighieri è una miriade d’anime sfavillanti, illuminate da raggi, spioventi dall’alto, dei quali non si riesce a vedere l’origine, ovverosia il già citato Sole-Cristo, oscurato da un lontano nugolo.
O benigna vertù che sì li ’mprenti, | |
sù t’essaltasti, per largirmi loco | |
87 | a li occhi lì che non t’eran possenti. |
O benevola (benigna) virtù che in tal modo suggelli quei beati (sì li ’mprenti), verso l’alto t’elevasti (sù t’essalstasti), per conceder ai miei occhi di vedere lì dove non ne avevano la forza di reggere il tuo chiarore (non t’eran possenti).
Il nome del bel fior ch’io sempre invoco | |
e mane e sera, tutto mi ristrinse | |
90 | l’animo ad avvisar lo maggior foco; |
Il nome del bel fior che sempre, dalla mattina alla sera, invoco, m’incoraggia (mi ritrinse) l’animo ad osservar (avvisar) la luce più scintillante di tutte (lo maggior foco);
Dante ringrazia la misericordia divina per avergli dato la possibilità, elevandosi, di rimirar Maria, quel “bel fior” al quale egli s’appella quotidianamente.
e come ambo le luci mi dipinse | |
il quale e il quanto de la viva stella | |
93 | che là sù vince come qua giù vinse, |
per entro il cielo scese una facella, | |
formata in cerchio a guisa di corona, | |
96 | e cinsela e girossi intorno ad ella. |
e non appena copiosità e radianza (ambo le luci) della vivida stella — che primeggia tanto nei Cieli quanto sulla Terra (là sù vince come qua giù vinse) — s’effondono negli occhi dell’Alighieri (mi dipinse), dal cielo scende una rilucente fiammella (facella) circolare (formata in cerchio), a forma di corona, che la circonda e le ruota intorno (cinsela e girossi).
Non v’è certezza interpretativa su chi possa essere la “facella” discendente dalla volta celeste, sebben taluni ipotizzino possa trattarsi dell’arcangelo Gabriele.
Qualunque melodia più dolce suona | |
qua giù e più a sé l’anima tira, | |
99 | parrebbe nube che squarciata tona, |
comparata al sonar di quella lira | |
onde si coronava il bel zaffiro | |
102 | del quale il ciel più chiaro s’inzaffira. |
Qualunque melodia che sul mondo (qua giù) suoni tanto dolcemente d’attirar a sé gli ascoltatori (l’anima tira), parrebbe una tronante (tona) nube squarciata, se messa a confronto con il suono di quella lira che corona il bello zaffiro che inzaffira l’Empireo.
L’angelo disceso viene definito “lira”, per il suo esser plausibilmente un cantor celeste e lo “zaffiro” è pietra preziosa simbolo di purezza, qui metaforicamente figurante la Vergine.
«Io sono amore angelico, che giro | |
l’alta letizia che spira del ventre | |
105 | che fu albergo del nostro disiro; |
“Io sono amore angelico che ruota attorno alla nobile (alta) letizia che soffia (spira) dal ventre che ospitò (fu albergo) del nostro desiderio;
e girerommi, donna del ciel, mentre | |
che seguirai tuo figlio, e farai dia | |
108 | più la spera supprema perché lì entre.» |
e continuerò a ruotare (girerommi) finché tu, signora (donna) del Ciel, non seguirai tuo figlio e così, al tuo entrarci, rendendo il Cielo supremo ancor più radioso (dia).
Il “nostro disiro” è Gesù ed “alta letizia” è espressione utilizzata ad indicar la Madonna sua madre, che seguirà l’ascesa del figlio.
Così la circulata melodia | |
si sigillava, e tutti li altri lumi | |
111 | facean sonare il nome di Maria. |
Così, il rotatorio canto (circulata melodia) dell’angelo va sigillandosi su se stesso, e tutte le altre anime riecheggiano il nome della Vergine Maria.
Lo real manto di tutti i volumi | |
del mondo, che più ferve e più s’avviva | |
114 | ne l’alito di Dio e nei costumi, |
avea sopra di noi l’interna riva | |
tanto distante, che la sua parvenza, | |
117 | là dov’io era, ancor non appariva: |
L’involucro regale (Lo real manto) di tutti i Cieli rotanti dell’Universo (volumi del mondo), che più s’infervora (ferve) e più si vivifica (s’avvia) nello spirito (alito) di Dio e nei suoi costumi, sovrasta Dante e Beatrice con la sua superficie (riva) interna così distante che, dal punto in cui si trova l’Alighieri, non gli appare nemmeno (là dov’io era, ancor non appariva):
però non ebber li occhi miei potenza | |
di seguitar la coronata fiamma | |
120 | che si levò appresso sua semenza. |
pertanto i suoi occhi non hanno (ebber) la potenza di seguitar la coronata fiamma che s’è innalzata (si levò) appresso a proprio figlio (sua semenza).
La “coronata fiamma” è sempre Maria e il “real manto” il Primo Mobile, o nono Cielo, che attornia tutti gli altri, ossia la concava volta dell’ottavo Cielo, quello delle Stelle Fisse.
E come fantolin che ’nver’ la mamma | |
tende le braccia, poi che ’l latte prese, | |
123 | per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; |
e come il lattante (fantolin) che tende le braccia verso la mamma dopo aver poppato (poi che ’l latte prese), per il suo affetto che si manifesta palese (per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma);
ciascun di quei candori in sù si stese | |
con la sua cima, sì che l’alto affetto | |
126 | ch’elli avieno a Maria mi fu palese. |
ognuna di quegli infervorati spiriti protrae verso l’alto la propria punta di fiamma (ciascun di quei candori in sù si stese), così evidenziando a Dante il loro smisurato amore nei confronti della Beata Vergine (sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese).
Indi rimaser lì nel mio cospetto, | |
‘Regina celi’ cantando sì dolce, | |
129 | che mai da me non si partì ’l diletto. |
Indi rimangono alla presenza dell’Alighieri (rimaser lì nel mio cospetto), cantando ‘Regina celi’ con siffatta dolcezza (sì dolce), in lui originando un piacere mai obliato (che mai da me non si partì ’l diletto).
‘Regina celi’ è l’incipit dell’antifona pasquale lodante la Madonna nota al titolo di ‘Regina Caeli’, dacché la grafia scevra di dittongo tipica del periodo tardomedievale.
Oh quanta è l’ubertà che si soffolce | |
in quelle arche ricchissime che fuoro | |
132 | a seminar qua giù buone bobolce! |
Oh quant’è l’abbondanza (ubertà) che s’ammonticchia (si soffocle) in quelle ricchissime arcate (arche) celesti che sulla terra (qua) seminarono (fuoro a seminar) benefici influssi!
Quivi si vive e gode del tesoro | |
che s’acquistò piangendo ne lo essilio | |
135 | di Babillòn, ove si lasciò l’oro. |
Nei Cieli (Qui) si vive godendo dei tesori che s’accumularono (s’acquistò) piangendo nell’esilio babilonese, ove vennero lasciati i beni materiali (si lascò l’oro).
Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio | |
di Dio e di Maria, di sua vittoria, | |
138 | e con l’antico e col novo concilio, |
139 | colui che tien le chiavi di tal gloria. |
Quivi — sotto l’immenso Figlio (alto Filio) di Dio e di Maria — celebra la propria (trïunfa di sua) vittoria, insieme ai beati dell’Antico e del Nuovo Testamento (e con l’antico e col novo concilio), colui che detiene (tien) le chiavi del Paradiso (di tal gloria).
Le ultime tre terzine sono da sempre oggetto di svariati disaccordi, ad ogni modo “lo essilio di Babillòn” menzionando la nota ‘cattività babilonese’, subita dal popolo d’Israele nel IV secolo avanti Cristo e “colui che tien le chiavi di tal gloria” individuato ovviamente in San Pietro (I a.C. – 64/67).
Sarà la dolce voce di Beatrice a far da incipit al successivo Canto: “O sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba sì, che la vostra voglia è sempre piena…”
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