Divina Commedia: Paradiso, Canto XV
Raffaello Sorbi (1844-1931), Dante sulle rive dell’Arno
Ancor nel Cielo di Marte, Dante assiste esterrefatto all’estemporanea ed inaspettata interruzione del melodico cantar da parte degli spiriti militanti interni alla rilucente croce, ammutolitisi nel sincero desiderio d’accoglier le sue richieste — munifico atteggiamento che pervade l’Alighieri d’un profondo e commosso senso di gratitudine — quando, contemporaneamente al suo riflettere riguardo alla benevolenza lui elargita, ecco una sfavillante anima scivolar e scorrer in tutta celerità sulla superficie della splendente insegna di Cristo, senza mai staccarsi dalla stessa, con mirabile ed inenarrabile delicatezza offrendosi alla sua vista ed a lui rivolgendosi in estrema dolcezza, spronandolo a parlare e ad esprimere quanto vorrebbe sapere.
Come sempre dapprima incrociando l’amato sguardo della sua Beatrice alla ricerca di consenso al proferir parola — aggiunta ad un’immane dose d’infatuazione che perennemente si rigenera all’osservarla — l’Alighieri, di nuovo incentivato, parla temerario e riguardoso, al beato domandando di render nota la sua identità terrena.
In tutta risposta— dopo alcune frasi a tutta prima arcane alla mente umana poi, in un secondo momento, intellegibili ed afferrabili dallo stesso Dante — lo spirito inizia con lo svelar d’una lontana parentela fra i due, in seguito srotolando sermone su undici terzine dedicate alla pura beltà della Firenze ancor scevra dal decadimento e, materializzando agli occhi la sacrale immagine del suo battesimo, l’anima presentandosi al nome di Cacciaguida, trisavolo di Dante e progenitore del di lui lignaggio.
Brevemente accennando ad alcuni suoi vissuti terreni ed alla conclusion del suo tragitto sul mondo, l’affabile ed affettuoso Cacciaguida s’avvia in chiusura di Canto, serrandolo con un poetico e struggente volo dal “dal martiro a questa pace”, alla sua voce il fiorentin verseggiatore affidando anche i due Canti che verranno, affinché alle parole del beato egli possa infondere il suo esasperato grido d’insofferenza, traboccante il più doloroso sdegno nei confronti dell’ignominioso degrado fagocitante la sua tanto adorata e desiata Firenze.
Benigna volontade in che si liqua | |
sempre l’amor che drittamente spira, | |
3 | come cupidità fa ne la iniqua, |
silenzio puose a quella dolce lira, | |
e fece quïetar le sante corde | |
6 | che la destra del cielo allenta e tira. |
La volontà d’operare il bene (Benigna volontade), nella quale (in che) sempre si palesa (liqua) l’amore che s’orienta (spira) alla rettitudine (drittamente), al pari di quanto la cupidigia (come cupidità) si manifesta nella volontà del male (fa ne la iniqua), silenzia (silenzio puose) quella dolce lira, chetando (e fece quïetar) le sante corde che l’Onnipotente (che la destra del cielo) allenta e tende (tira).
Le “sante corde” sono i beati intenti nel lodar il Signore attraverso il loro lirico canto il cui eufonico accordo da Lui proviene.
Come saranno a’ giusti preghi sorde | |
quelle sustanze che, per darmi voglia | |
9 | ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? |
Dante si chiede come potranno mai esser (saranno) sorde alla preghiere (a’ preghi) dei giusti quelle entità le quali (sustanze che), per spronarlo ad interpellarle (darmi voglia ch’io le pregassi), s’accordano nell’unanime zittirsi (a tacer fur concorde).
L’Alighieri resta estaticamente basito al notar il loro improvviso e simultaneo silenziarsi al fin di dedicarsi in toto all’ascolto delle sue richieste, al contempo il pellegrino domandandosi, in assoluta retorica, come sarebbe possibile che a cosiffatta disponibilità corrisponda loro indifferenza alle orazioni dei “giusti”.
Bene è che sanza termine si doglia | |
chi, per amor di cosa che non duri | |
12 | etternalmente, quello amor si spoglia. |
Sacrosanto (Bene) è che sia soggetto a perenne tormento (sanza termine si doglia) chi, per amor d’effimere materialità (di cosa che non duri etternalmente), ricusi (si spoglia) quell’amor divino.
Ne consegue una sorta di contrappasso esclamativo sulla linea del quale Dante augura meritato tormento a tutti coloro che ripudino codesta magnanimità, in maniera corrispondente all’allontanarsi dalla stessa a favor di fallacità terrene.
Quale per li seren tranquilli e puri | |
discorre ad ora ad or sùbito foco, | |
15 | movendo li occhi che stavan sicuri, |
e pare stella che tramuti loco, | |
se non che da la parte ond’e’ s’accende | |
18 | nulla sen perde, ed esso dura poco: |
Come nella serenità di cieli (Quale per li seren), placidi (tranquilli) e lindi (puri), di quando in quando (ad ora ad or) una fulminea scia di fuoco (sùbito foco) saetta (discorre) — così da smuover lo sguardo (movendo li occhi) che se ne stava quieto (sicuri) — sembrando (e pare) una stella in fase di trasloco (che tramuti loco), se non fosse che, nella zona in cui essa s’è infuocata (da la parte ond’e’ s’accende), nulla sparisce (sen perde), oltre all’improvviso suo smorzarsi (ed esso dura poco):
tale dal corno che ’n destro si stende | |
a piè di quella croce corse un astro | |
21 | de la costellazion che lì resplende; |
tale e quale — dal braccio (corno) che s’estende verso la parte destra (’n destro si stende) di quella croce, fino alla sua base (a piè) — corre un astro della costellazione che lassù (lì) risplende;
né si partì la gemma dal suo nastro, | |
ma per la lista radïal trascorse, | |
24 | che parve foco dietro ad alabastro. |
la gemma non s’affranca (né si partì) dal suo nastro, ma procede scorrendo (trascorse) lungo gli assi radiali (per la lista radïal), ricordando un vivace fulgore (che parve foco) dietro una superficie d’alabastro.
L’Alighieri, all’osservar il movimento d’una luce che si sposta sulla croce illuminata dagli spiriti, slittando sui bracci, prima da destra verso il centro e poi verso il basso, senza mai scollarsi dagli stessi, la paragona ad una stella cadente, repentina traccia di fuoco che si disegna nella placida volta celeste, senza che il suo dissolversi corrisponda all’assenza d’un astro e ciò poiché, per l’appunto, essa altro non è che un vapore incendiatosi in quota.
La similitudine con l’alabastro, verosimilmente consegue a qualche esperienza diretta del poeta, nel vedere una qualsivoglia fonte luminosa trapassare dallo stesso, tipicità del materiale essendo quella di lasciar trapelare bagliori.
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse, | |
se fede merta nostra maggior musa, | |
27 | quando in Eliso del figlio s’accorse. |
Con medesima amorevolezza (Sì pïa) l’anima (ombra) d’Anchise si presentò (porse) — sottinteso che il più insigne poeta d’Italia (se nostra maggior musa) sia meritevole (merta) di fede — quando nei Campi Elisi (in Eliso) riconobbe (s’accorse) il figlio.
Quel beato marcia verso Dante al quale la delicatezza della visione rimembra lo spirito d’Anchise al suo discernere Enea nell’Elisio, per la mitologia greco-romana luogo ove risiedevano le anime benvolute dagli dèi, dopo la loro dipartita.
Con “nostra maggior musa” s’indica l’italico eminente poeta quale fu Virgilio, l’episodio citato uno fra i più languidi dell’Eneide.
«O sanguis meus, o superinfusa | |
gratïa Deï, sicut tibi cui | |
30 | bis unquam celi ianüa reclusa?». |
“O sangue mio (sanguis meus), profusamente intriso della grazia di Dio (superinfusa gratïa Deï), a chi mai come a te (sicut tibi cui) sarà stata dischiusa (reclusa) due volte (bis unquam) la porta del Cielo (celi ianüa)?”
L’espressione “sanguis meus” fu quella utilizzata da Anchise nel consultare lo spirito del pronipote Giulio Cesare ed il fatto di ricalcarla da parte dal beato affacciatosi dalla croce, lascia intendere possa essere un lontano parente dell’Alighieri, al quale viene chiesto, con lampante sbalordimento, a chi mai, come a lui, venne aperta due volte la porta dei Cieli e l’unico a giovarsi di medesimo privilegio fu san Paolo.
Così quel lume: ond’io m’attesi a lui; | |
poscia rivolsi a la mia donna il viso, | |
33 | e quinci e quindi stupefatto fui; |
Questo quanto detto dall’anima (Così quel lume): pertanto Dante prestandole attenzione (ond’io m’attesi a lui); poi rivolgendo sguardo alla sua signora (poscia rivolsi a la mia donna il viso), d’ambedue le parti stupefacendosi (e quinci e quindi stupefatto fui);
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso | |
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo | |
36 | de la mia gloria e del mio paradiso. |
poiché nei di lei occhi arde un tal sorriso, da far percepire all’Alighieri (ch’io pensai), con i suoi (co’ miei) d’aver sfiorati il culmine (toccar lo fondo) della propria gloria e beatitudine (del mio paradiso).
Dante si ritrova come cullato fra due lembi di meraviglia, da un lato l’avvolgente garbatezza dello spirito, dall’altro il calamitico sguardo di Beatrice e proprio permeando nei di lei incantevoli occhi, egli s’immerge in una vivifica dimensione che gli sconquassa il cuore, al toccar inebrianti livelli di letizia e misericordia, mai raggiunti prima.
Indi, a udire e a veder giocondo, | |
giunse lo spirto al suo principio cose, | |
39 | ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo; |
Indi, il beato che rende gioia (giocondo) al sol udirlo e vederlo, aggiunge (giunse) al proprio prologo (principio) cose che l’Alighieri non riesce a capire (ch’io non lo ’ntesi), data l’eccessiva profondità delle parole dette (sì parlò profondo).
né per elezïon mi si nascose, | |
ma per necessità, ché ’l suo concetto | |
42 | al segno d’i mortal si soprapuose. |
il significato di quanto asserito non viene celato al discepolo (né mi si nascose) volontariamente (per elezïon), ma per necessità, essendo il pensiero espresso dall’anima (ché ’l suo concetto) eccedente (si soprapuose) il limite della mente terrena (al segno d’i mortal).
Inizialmente lo spirito è incomprensibile a Dante, tuttavia lo stesso non avendo colpa alcuna, data l’elevatezza delle sue argomentazioni no afferrabile dall’intelligenza umano.
E quando l’arco de l’ardente affetto | |
fu sì sfogato, che ’l parlar discese | |
45 | inver’ lo segno del nostro intelletto, |
la prima cosa che per me s’intese, | |
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, | |
48 | che nel mio seme se’ tanto cortese!». |
E quando la tensione (l’arco) dell’ardente carità (affetto) s’è così (fu sì) sfogata — per modo che il suo discorrere sia abbordabile dal terreno intelletto (che ’l parlar discese inver’ lo segno del nostro) intelletto — la prima cosa che l’Alighieri intende (che per me s’intese) sono (fu) le due l espressioni “Benedetto sia tu” e “trino e uno che nel mio seme se’ tanto cortese!”.
Non appena scemato l’ardor di carità che nei beati è proporzionata allo spessore dell’esperienza divina, il linguaggio dell’anima si fa maggiormente accessibile e dalle prime affermazioni captate da Dante, s’evince come la stessa stia di lui discorrendo con l’Altissimo.
E seguì: «Grato e lontano digiuno, | |
tratto leggendo del magno volume | |
51 | du’ non si muta mai bianco né bruno, |
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume | |
in ch’io ti parlo, mercé di colei | |
54 | ch’a l’alto volo ti vestì le piume. |
E il beato prosegue (seguì) dicendo: “Figlio mio, hai soddisfatto (solvuto) gradevole (Grato) e prolungato (lontano) desiderio (digiuno), suscitato (tratto) leggendo il grande libro (magno volume) dove tutto è immutabilmente scritto nero su bianco (du’ non si muta mai bianco né bruno) , dentro a codesta luce dalla quale (a questo lume ch’io) ti parlo, grazie a (mercé di) colei che t’ha attrezzato d’ali (ti vestì le piume) al fin d’ascendere in cotanta elevatezza (ch’a l’alto volo).
L’anima si dichiara soddisfatta nelle sue aspirazioni, originatesi dal “magno volume”, ovvero il libro dell’onniscienza del Padre Eterno, sul quale gli spiriti del Paradiso leggono il futuro come fosse passato, come peraltro già rivelato da Farinata nella trentaquattresima terzina del decimo Canto infernale — “Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose”, disse, “che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce” — nonché riportato dal pontefice Niccolò III al cinquantaquattresimo verso del diciannovesimo Canto dell’Inferno: “Di parecchi anni mi mentì lo scritto”.
Tratteggiando “ch’a l’alto volo ti vestì le piume” si parla ovviamente di Beatrice, guida suprema all’ascesa ai Cieli dell’Alighieri.
Tu credi che a me tuo pensier mei | |
da quel ch’è primo, così come raia | |
57 | da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei; |
Tu sei certo (credi) che il tuo pensiero in me trasfonda direttamente dal Creatore (mei da quel ch’è primo), così come, considerando la cognizione dell’unità, il cinque ed il sei s’irradiano dall’uno (da l’un);
e però ch’io mi sia e perch’io paia | |
più gaudïoso a te, non mi domandi, | |
60 | che alcun altro in questa turba gaia. |
e pertanto (però) tu non mi domandi chi io sia ed il motivo per cui t’appaio (perch’io paia a te) il più gioioso (gaudïoso) di tutti (che alcun altro) in questa festosa (gaia) schiera (turba).
Il beato spiega come in Dante sia radicata la convinzione che il suo pensiero s’effonda nell’anima parlante attraverso Iddio, al pari di come dal concetto dell’unità derivano gli altri numeri, ragion per la quale l’Alighieri non chiede apertamente ciò che vorrebbe sapere, ossia l’identità del suo interlocutore ed il motivo della sua briosità, maggiore rispetto a quella di tutti gli altri spiriti.
Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi | |
di questa vita miran ne lo speglio | |
63 | in che, prima che pensi, il pensier pandi; |
Quanto pensi corrisponde a verità (Tu credi ’l vero); poiché la totalità dei beati, a qualsivoglia grado di paradisiaca beatitudine (i minori e ’ grandi di questa vita), guardano nello specchio (miran ne lo speglio) in cui tu, ancor prima di pensare, palesi (pandi) il tuo pensiero;
Lo “speglio” è l’Ente Supremo, specchio di tutti gli specchi dal quale tutto s’irradia e immagine nella quale si riflette la totalità delle anime indipendentemente dal loro livello di grazia, le quali, nel divino, hanno facoltà di percepire i pensieri di Dante ancor prima ch’egli li abbia strutturati.
ma perché ’l sacro amore in che io veglio | |
con perpetüa vista e che m’asseta | |
66 | di dolce disïar, s’adempia meglio |
la voce tua sicura, balda e lieta | |
suoni la volontà, suoni ’l disio, | |
69 | a che la mia risposta è già decreta!». |
ma affinché (perché) l’ardor della santa carità (’l sacro amore in che io veglio) — che mi mantiene in perenne veglia nella sua contemplazione (in che io veglio con perpetüa vista) e che mi rende assetato (m’asseta) di soave desiderio (dolce disïar) — sia maggiormente appagato (s’adempia meglio), la tua voce, sicura, ardimentosa (balda) e lieta, dichiari volere e desiderio (suoni la volontà, suoni ’l disio), ai quali la mia risposta è prestabilita (è già decreta)!”
Tuttavia, benché lo spirito sappia già perfettamente quali siano le questioni sospese dell’Alighieri, in lui strugge la voglia di sentirgliele manifestare verbalmente.
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio | |
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno | |
72 | che fece crescer l’ali al voler mio. |
Dante si volge a Beatrice ed ella, udendolo ancor prima ch’egli parli (e quella udio pria h’io parlassi), gli dona assenso con sorridente (e arrisemi) cenno, che si fa sprone di crescita (fece crescer) d’ali al di lui desiderare (al voler mio).
Il consenso della sua amata, deflagra nell’Alighieri in emotivo slancio, rendendogli la sensazione di chi allarghi appieno le proprie ali, in procinto d’alzarsi in volo diretto al tanto agognato orizzonte.
Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno, | |
come la prima equalità v’apparse, | |
75 | d’un peso per ciascun di voi si fenno, |
però che ’l sol che v’allumò e arse, | |
col caldo e con la luce è sì iguali, | |
78 | che tutte simiglianze sono scarse. |
Poi Dante prende parola asserendo (cominciai così): “Fin da quando v’apparve l’originaria identità divina (come la prima equalità v’apparse), sentimento (L’affetto) e intelligenza (’l senno) in ciascun di voi armonicamente si corrisposero (fenno d’un peso), dal momento che quel Sole per effetto del quale s’illuminò (però che ’l sol che v’allumò) l’intelletto (però che ’l sol che v’allumò) e s’arse il vostro amore, è così uguale (sì iguali) in ardor di carità (col caldo) e sfolgorio di sapienza (con la luce), da privar di significato qualsivoglia altro esempio d’uguaglianza (che tutte simiglianze sono scarse).
L’Alighieri sostiene come, nei beati, le loro sfumature emotiva ed intellettive siano entrate in perfetto equilibrio dopo l’interazione con l’identità originaria divina, fra amore e sapienza, giacché l’Eterno — che li infiammò in mente e cuore — le irraggia in egual misura, come in nessun altro caso avviene.
Ma voglia e argomento ne’ mortali, | |
per la cagion ch’a voi è manifesta, | |
81 | diversamente son pennuti in ali; |
Tuttavia, nell’umanità (Ma ne’ mortali) propositi di sentimento ed azion (voglia e argomento), per esplicito motivo a voi certamente noto (la cagion ch’a voi è manifesta), hanno differente apertura (diversamente son pennuti) d’ali;
ond’ io, che son mortal, mi sento in questa | |
disagguaglianza, e però non ringrazio | |
84 | se non col core a la paterna festa. |
ond’ io, che son mortale, mi percepisco in codesto disequilibrio (sento in questa disagguaglianza), e proprio per questo a me non è possibile ringraziar della festosa ed amorevole accoglienza ricevuta, che dal più profondo del cuore (e però non ringrazio se non col core a la paterna festa).
Ben supplico io a te, vivo topazio | |
che questa gioia prezïosa ingemmi, | |
87 | perché mi facci del tuo nome sazio». |
Nondimeno ti prego (Ben supplico io a te), vivifica pietra (vivo topazio) che questa preziosa croce (gioia) ingemmi, d’appagarmi del tuo rivelarti (perché mi facci del tuo nome sazio)”.
«O fronda mia in che io compiacemmi | |
pur aspettando, io fui la tua radice»: | |
90 | cotal principio, rispondendo, femmi. |
“O mio discendente (fronda) in cui mi compiacqui (che io compiacemmi) già durante l’attenderti (pur aspettando), io fui il capostipite della stirpe dalla quale provieni (la tua radice)”: con tal incipit lo spirito parlante risponde all’Alighieri (cotal principio, rispondendo, femmi).
Ciò non significa che negli uomini buone intenzioni ed acume nel metterle in pratica siano parimenti bilanciate e Dante, da buon mortale, si sente trascinato da questo vortice asimmetrico, perciò profusamente ringraziando della giubilante accoglienza riservatagli, infine decidendosi a chiedere apertamente di conoscere le generalità della cortese anima, la stessa riprendendo parola e dichiarandosi progenitore della sua casata di provenienza, inoltre attestando d’averlo atteso per lungo tempo.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice | |
tua cognazione e che cent’anni e piùe | |
93 | girato ha ’l monte in la prima cornice, |
mio figlio fu e tuo bisavol fue: | |
ben si convien che la lunga fatica | |
96 | tu li raccorci con l’opere tue. |
Poi aggiunse (Poscia mi disse): “Colui che trasmise il nome al tuo parentado (Quel da cui si dice tua cognazione) e che da più di cent’anni sta marciando intorno alla (girato ha in la) prima Cornice del Purgatorio (’l monte), fu mio figlio e ti fu bisnonno (tuo bisavol fue): sarebbe opportuno (ben si convien) che tu interceda affinché la sua prolungata penitenza (lunga fatica) si possa accorciare grazie ai tuoi suffragi (li raccorci con l’opere tue).
Sull’istante lo spirito non svela identità, però permette al vate di comprendere la loro relazione di parentela, confidandogli d’esser il padre di Alighiero I, ovvero del poeta il bisavolo che, vissuto fra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, fu artefice della trasmutazione a cognome del patronimico e verso il quale, dimorante da oltre cent’anni nella Cornice dei superbi, l’anima chiede al Dante d’implorare sentita e favorevole prece.
Fiorenza dentro da la cerchia antica, | |
ond’ella toglie ancora e terza e nona, | |
99 | si stava in pace, sobria e pudica. |
La Firenze interna alle sue antiche cinta carolingie (Fiorenza dentro da la cerchia antica), dalle quali la stessa (ond’ella) ancor carpisce (toglie) la terza e la nona ora, se ne stava in pace, sobria e pudica.
La “terza e nona ora” sono le canoniche d’inizio e fine lavoro, indi le nove del mattino e le tre del pomeriggio; a suonarle erano le campane di Badia, una chiesa in prossimità delle antiche mura fiorentine, ovverosia quelle antecedenti la nascita dell’Alighieri, invero le vecchie, risalenti al nono e decimo secolo, erano più contenute rispetto alla cinta muraria eretta nel 1173, ad ogni modo successiva alla morte del suo trisavolo.
I tre richiami a pace, sobrietà e pudore riagganciano le antiche virtù medievali.
Non avea catenella, non corona, | |
non gonne contigiate, non cintura | |
102 | che fosse a veder più che la persona. |
Non v’erano (avea) monili (catenella), non diademi (corona), non gonne ricamate (contigiate), non cinture che dessero nell’occhio (che fosse a veder) più di chi le indossasse (che la persona).
Gioielli, abiti od accessori di vario genere, nella vecchia Firenze valevano più dell’individuo come persona e l’apparenza era ancor ben lungi dal vincere sulla sostanza.
Non faceva, nascendo, ancor paura | |
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote | |
105 | non fuggien quinci e quindi la misura. |
Tantomeno era fonte di preoccupazione la nascita (Non faceva, nascendo, ancor paura) della figlia per il di lei padre, dacché l’età (’l tempo) e la dote, da una parte e dall’altra (quinci e quindi), non erano soggette a smoderatezze (fuggien la misura).
Era prassi, fra 1200 e 1300, che le ragazze di buona famiglia si maritassero poco prima dell’adolescenza, con annessa e copiosa dote per accumular la quale il venir alla luce d’una femmina collimava all’apprensione paterna a riguardo, tanto in ragione all’età della fanciulla quanto all’imponenza della spesa prevista per adeguatamente corredarla.
Non avea case di famiglia vòte; | |
non v’era giunto ancor Sardanapalo | |
108 | a mostrar ciò che ’n camera si puote. |
Non v’erano abitazioni (avea case) privi (vòte) di figliolanza (famiglia); ancor non v’era giunto Sardanapalo a mostrar tutto quanto si potesse (puote) fare in una camera da letto.
Sottinteso quanto la smodata ricerca del benessere riduca la natalità, nei sani confini fiorentini le dimore pullulavano d’infanti, ancor non esplosa la depravazione sessuale che di lì a pochi decenni avrebbe travolto l’intera cittadina ed a rappresentarla l’anima nomina il leggendario sovrano assiro Sardanapalo — simbolicamente alludente allo storico re Assurbànipal — che si favoleggia fosse particolarmente femmineo, al punto da condurre esistenza come fosse una donna e sfrenatamente abbandonandosi ai piaceri di gola e lussuria.
Non era vinto ancora Montemalo | |
dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto | |
111 | nel montar sù, così sarà nel calo. |
Ancor il Montemalo non era stato surclassato (vinto) dal vostro Uccellatoio che, com’è stato superato nell’ascensione (montar sù), così sarà nella declino (calo).
Sul fatto che il monte Uccellatoio, che s’innalza alle porte di Firenze, ancor non avesse sovrastato il Monte Mario, a sua volta antistante Roma, è plausibilmente indicativo dello sfarzo di lussuose ville che ne ricoprirono i versanti nel tardo Impero, sebben l’autore della Commedia potrebbe altresì aver voluto allegorizzare il generale decadimento politico-morale dei propri concittadini.
Bellincion Berti vid’io andar cinto | |
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio | |
114 | la donna sua sanza ’l viso dipinto; |
Io vidi Bellincione Berti indossare una cintura (andar cinto) di cuoio e d’osso, e la sua sposa (donna) staccarsi dallo (a venir da lo) specchio con il volto privo di trucco (sanza ’l viso dipinto).
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio | |
esser contenti a la pelle scoperta, | |
117 | e le sue donne al fuso e al pennecchio. |
e vidi un dei (quel d’i) Nerli e un (quel) del Vecchio compiacersi (esser contenti) nell’indossar giubbe di pelle senza fodera (scoperta), e le loro mogli (sue donne) dedite al fuso ed al pennecchio.
L’abbigliamento, maschile o femminile che fosse, rientrava in canoni di decenza e morigeratezza, così come il trucco delle donne, inesistente ed ad archetipo di moderato, seppur dignitoso vestiario, viene citato l’autorevole e nobile cavaliere Bellincione Berti — componente dell’aristocratica casata fiorentina dei Ravignani, una delle dinastie più apprezzate del dodicesimo secolo — per il suo abbigliarsi con cinture di cuoio con fibbia in osso, la di lui moglie appunto completamente struccata.
Bellincione fu il padre di colei che, al trentasettesimo verso del sedicesimo Canto di prima Cantica, viene presentata come “la buona Gualdrada”, nella stessa terzina apparendo il nome di “Guido Guerra” — bisnipote del Berti — il quale “in sua vita fece col senno assai e con la spada”.
In base a quanto sostenuto dal magistrato e critico letterario Pietro Alighieri (1300-1364), uno dei figli di Dante, Bellincione fu anche bisnonno della consorte d’Alighiero I, indi consuocero dello spirito che sta parlando e che, nel giro di sette terzine, finalmente scioglierà il mistero sulla propria identità.
I Nerli e i Vecchietti erano due antiche famiglie d’ideologia guelfa nelle quali parrebbe vigesse l’abitudine d’indossare vesti sfoderate, le donne di casa intitolandosi al telaio: il “pennecchio”, anche detto ‘conocchia’ o ‘chioma’, era di fatto un fiocco di lino, lana od altro tessuto che veniva avviluppato sulla rocca, per poi esser filato al “fuso”.
Oh fortunate! ciascuna era certa | |
de la sua sepultura, e ancor nulla | |
120 | era per Francia nel letto diserta. |
Oh fortunate! ciascuna d’esse aveva certezza della propria sepoltura, e ancor nessuna fra loro (nulla) era stata lasciata sola (diserta) nel letto coniugale a favor di Francia.
Il beato prosegue nostalgicamente invocando quei bei vecchi tempi durante i quali l’assenza di guerriglie civili non obbligava all’esilio, da qui la sicurezza d’esser seppelliti in terra natia e nessuna moglie era stata abbandonata dal marito, dato il rimanere in loco delle attività commerciali, prima che spopolasse la tendenza ad espandersi all’estero, specialmente in Francia;
L’una vegghiava a studio de la culla, | |
e, consolando, usava l’idïoma | |
123 | che prima i padri e le madri trastulla; |
L’una vegliava con premura sulla (vegghiava a studio de la) culla del neonato e, al fin di rincuorarlo (consolando), gli parlava con quel linguaggio (usava l’idïoma) infantile che, a tutta prima, rallegra i genitori (trastulla i padri e le madri).
l’altra, traendo a la rocca la chioma, | |
favoleggiava con la sua famiglia | |
126 | d’i Troiani, di Fiesole e di Roma. |
l’altra, nell’atto d’avvolger sulla (traendo a la) rocca la chioma, narrando ai propri familiari le antiche favole dei (favoleggiava con la sua famiglia d’i) Troiani, di Fiesole e di Roma.
La donna giovane (L’una) s’occupava del proprio figlioletto, calmandone eventuali pianti parlandogli in una maniera talmente tenera e bambinesca da far sorridere anche gli adulti, mentre quella più anziana s’alternava fra conocchia (rocca) e “chioma” ed il favoleggiar ad ampio raggio.
Saria tenuta allor tal maraviglia | |
una Cianghella, un Lapo Salterello, | |
129 | qual or saria Cincinnato e Corniglia. |
Ai tempi (allor) una Cianghella, un Lapo Salterello avrebbero provocato alquanto sblordimento (Saria tenuta tal meraviglia), similmente a quello che oggi susciterebbero (qual or saria) Cincinnato e Corniglia.
I Della Tosa, o Tosinghi, furono una delle famiglie fiorentine più rilevanti fra il tredicesimo ed il quattordicesimo secolo e Cianghella di Arrigo della Tosa (?-1339) — figlia di messer Arrigo della Tosa e cugina del politico Rossellino della Tosa (1260-1330), quest’ultimo capeggiante la fazione guelfa di parte nera e mandante dell’assassinio del condottiero e politico Corso Donati (1250 circa – 1308) – fu vedova alquanto libertina, dall’Alighieri portata ad esempio primo dell’ammorbamento morale, mentre il giurista, politico, poeta e rimatore Lapo Salterelli (?-1320) condusse vita in modo vezzoso e intrallazzante.
I due vengono menzionati in contrapposizione al despota romano, la cui nomea riecheggiante per regolatezza e spirito di servizio, Luzio Quinzio Cincinnato (520 a.C. circa – 430 a.C.) — già facente capolino in sedicesima terzina del sesto Canto di Paradiso (onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi ebber la fama che volontier mirro) — ed alla matrona romana Cornelia (189 a.C. circa – 110 a.C. circa), celeberrima nel suo esser integerrima e meritevole madre dei Gracchi, i due fratelli, politici romani e riformisti ampiamente conosciuti.
Il paragone si sviluppa per spiegare come una meretrice ed un faccendiere, in tempi ancor non avvelenati dalla corruzione, stupito quanto un gentiluomo od una madre edificante in epoche traviate.
A così riposato, a così bello | |
viver di cittadini, a così fida | |
132 | cittadinanza, a così dolce ostello, |
Maria mi diè, chiamata in alte grida; | |
e ne l’antico vostro Batisteo | |
135 | insieme fui cristiano e Cacciaguida. |
A così pacifica (riposato), a così civile convivenza (bello viver di cittadini), a così proba (fida) cittadinanza, a così soave dimora (dolce ostello), m’assegnò (mi diè) la Vergine Maria, invocata da acute (chiamata in alte) grida; e nel Battistero di San Giovanni (ne l’antico vostro Batisteo) venni battezzato al nome di (insieme fui cristiano e) Cacciaguida.
In un finale slancio di serenità, l’anima rimembra la bellezza della terra fiorentina negli anni in cui allo stesso vennero concessi i natali, alla fonte battesimale posandosi sul suo capo, in unione al Santissimo Spirito, il nome di Cacciaguida.
La terzina è solenne ed elevata, traboccante malinconica ed elegiaca astinenza della Firenze che fu.
Moronto fu mio frate ed Eliseo; | |
mia donna venne a me di val di Pado, | |
138 | e quindi il sopranome tuo si feo. |
Moronto ed Eliseo furono miei fratelli (frate); la mia sposa (donna) mi giunse dalla val Padana (venne a me di val di Pado) e da lei discese il cognome della tua famiglia (e quindi il sopranome tuo si feo).
Cacciaguida degli Elisei (1091-1148), nato da una famiglia di media nobiltà feudale, si dichiara fratello di Moronto ed Eliseo, ma in assenza di notizie certe su quest’ultimo, alternative interpretazioni azzardano considerarne nome, corrispettivo del casato ‘degli Elisei’ ed altrettanto oscura, è l’identità della “donna (…) di val di Pado”, della quale unicamente s’ipotizzano, origini ferraresi.
Poi seguitai lo ’mperador Currado; | |
ed el mi cinse de la sua milizia, | |
141 | tanto per bene ovrar li venni in grado. |
Poi fui al seguito dell’imperatore Corrado (seguitai lo ’mperador Currado); ed gli (el) mi nominò cavaliere imperiale (cinse de la sua milizia), dal tanto il mio essergli in grazia (li venni in grado) per merito del mio buon operare (bene ovrar).
Dietro li andai incontro a la nequizia | |
di quella legge il cui popolo usurpa, | |
144 | per colpa d’i pastor, vostra giustizia. |
Ne fui seguace (Dietro li andai) nel comune contrastare l’iniquità (incontro a la nequizia) di quella religione (legge) il cui popolo, per colpa dei pontefici (d’i pastor), s’impadronisce (usurpa) di quanto vi spetta di diritto (vostra giustizia).
Cavaliere al seguito di Corrado III Hohenstaufen (1093-1152), o di Svevia, che insieme a Luigi VII di Francia (1120-1180), detto ‘il Giovane’, capitanò la seconda crociata, Cacciaguida si spese al combattere contro la religione del popolo musulmano e sul campo, in Siria, perì
Quivi fu’ io da quella gente turpa | |
disviluppato dal mondo fallace, | |
147 | lo cui amor molt’anime deturpa; |
Nel preciso frangente (Quivi), per mano di quella turpe (turpa) gentaglia (gente) io venni affrancato (disviluppato) dalle fallacità mondane (dal mondo fallace), dedizione alle quali (lo cui amor) deteriora (deturpa) una moltitudine d’anime.
148 | e venni dal martiro a questa pace». |
e dal martirio venni a questa pace”.
Il sipario cala ricalcando le parole pronunciate da san Tommaso, al tratteggiar Severino Boezio, al centoventinovesimo rigo del decimo Canto del Paradiso: “e da essilio venne a questa pace”.
In procinto di rivolgersi a Cacciaguida, in passaggio di Canto l’Alighieri esordirà osservando: “O poca nostra nobiltà di sangue, se glorïar di te la gente fai qua giù dove l’affetto nostro langue…”
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