Divina Commedia: Paradiso, Canto XIX
Giovanni di Paolo di Grazia (1398-1482), Manoscritto Yates Thompson, 1444-1450
Nel Cielo di Giove, la maestosa raffigurazione dell’aquila precedentemente formatasi dall’aggregarsi dei beati, si posiziona davanti all’Alighieri ad ali estese e la voce delle anime ne fuoriesce all’unisono dalla parte del becco, rendendo a Dante la sensazione che a parlare sia davvero il rapace, una visione sensazionale ch’egli tenta di realisticamente riportare, insieme al contenuto di quanto rivelato, ovvero che gli spiriti al suo interno furono giusti in vita ed esemplare memoria per i postumi.
L’Alighieri — ben consapevole d’esser interpretato nel pensiero ed indi non ritenendo necessario esprimerlo — coglie occasione di chiedere che venga sciolta una profonda perplessità in lui albergante da tempo sull’enigma della predestinazione e sulla giustizia divina, al quesito l’aquila gioiosamente agitando l’ali a conferma del proprio compiacimento nell’accondiscendere alla formulata richiesta e partendo col dir che il suggello del Creatore venne impresso nel Creato in maniera d’esser superiore a qualsivoglia capacità, ragion per la quale i decreti divini sono indecifrabili all’uomo, similmente a come il fondo oceanico appare imperscrutabile dalla superficie, la luce di Dio divenendo accessibile solo quando da Lui proveniente in maniera diretta, senza intermediari nel mezzo che ne annebbino la vera percezione.
A questo punto Dante si chiede come possa avvenir che la salvezza venga preclusa a coloro che nacquero in luoghi ove non giunse la parola di Cristo — di conseguenza terminando ciclo vitale senza fede e battesimo – sebben la loro condotta esistenziale sia sempre stata ineccepibile ed a tal domanda l’aquila risponde affermando come la giustizia divina sia legittima a priori e quanto all’intelletto umano sia impossibile leggerne a fondo la parte di verità che non comprende, quindi il volatile intonando un inno e svolazzando leggiadro intorno all’Alighieri, poi riprendendo che nel giorno del Giudizio Universale s’accosteranno al Padre Eterno solamente le anime pure ed elette, aggiungendo quanto non basti proclamarsi credenti per esser virtuosi ed a questo proposito traslando sui principi cristiani che s’allontanarono dalla retta via — lasciandosi corrompere — l’aquila ne delinea l’inevitabile dannazione, il Canto chiudendosi con la lista di taluni di loro e rispettivi peccati che ne svilirono l’animo, predestinandolo ad eterno tormento.
Parea dinanzi a me con l’ali aperte | |
la bella image che nel dolce frui | |
3 | liete facevan l’anime conserte; |
Al cospetto dell’Alighieri si mostra (Parea dinanzi a me) ad ali aperte la meravigliosa figura (bella image) che l’anime — fra loro fittamente intersecate (conserte) — avevano formato (facevan) nella gioia della soave contemplazione divina (dolce frui liete);
parea ciascuna rubinetto in cui | |
raggio di sole ardesse sì acceso, | |
6 | che ne’ miei occhi rifrangesse lui. |
ognuna d’esse sembra un piccolo rubino (parea ciascuna rubinetto) in cui un raggio di sole rifulge con tal splendore (ardesse sì acceso), da rifletterlo nello sguardo di Dante (che ne’ miei occhi rifrangesse lui).
La “bella image” è la raffigurazione dell’Aquila precedentemente costituitasi dal compatto intreccio degli spiriti giusti — sul disco del sesto Cielo — talmente sfolgoranti da parer minuscole gemme preziose in totale assorbimento e rifrazione della luce solare.
E quel che mi convien ritrar testeso, | |
non portò voce mai, né scrisse incostro, | |
9 | né fu per fantasia già mai compreso; |
E ciò ch’è opportuno che il poeta riporti testé (quel che mi convien ritrar testeso), nessuno lo riferì (non portò voce) mai, tantomeno ne mise ad inchiostro, né giammai venne concepito dalla mente umana (fu per fantasia già mai compreso);
ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, | |
e sonar ne la voce e ‘io’ e ‘mio’, | |
12 | quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’. |
difatti Dante vedendo ed anche udendo l’Aquila parlar attraverso il becco (lo rostro), e dalla sua voce risuonar ‘io’ e ‘mio’, al posto di (quand’era nel concetto) ‘noi’ e ‘nostro’.
L’esperienza visiva — già singolare di per sé, considerando il privilegio del viaggio riservato all’Alighieri — s’arricchisce d’un frangente incredibile ed estasiante, ovvero delle voci di tutti i beati le quali, perfettamente ed armonicamente accordate, rendono un effetto univoco, per l’appunto il rapace parlando in prima persona singolare e quanto verbalizzato sembrando fuoriuscirgli direttamente dal becco.
E cominciò: «Per esser giusto e pio | |
son io qui essaltato a quella gloria | |
15 | che non si lascia vincere a disio; |
E la stessa inizia a parlare (cominciò): “È grazie all’esser stato — durante l’esistenza — giusto e pio, ch’io mi trovo assunto in Paradiso (qui essaltato) a quella gloria che non si lascia soggiogare da nessun’altra smania (vincere a disio);
e in terra lasciai la mia memoria | |
sì fatta, che le genti lì malvage | |
18 | commendan lei, ma non seguon la storia». |
e in terra di me lasciai cosiffatta nomea (la mia memoria sì fatta), che sul mondo (lì) anche le persone meschine l’elogiano (genti malvage commendan lei), benché non ne emulino l’operato (ma non seguon la storia)”.
L’Aquila svela l’integerrima rettitudine che caratterizzò il percorso vitale dell’anime che la compongono, edificante al punto dall’esser elogiato persin da coloro che dalla retta via deviarono, tuttavia ben lontani dal mettere in opera quanto gli eccelsi esempi di virtù avrebbero dovuto spronar ad eguagliare.
Così un sol calor di molte brage | |
si fa sentir, come di molti amori | |
21 | usciva solo un suon di quella image. |
Al pari d’un unica calura che scaturisce da molteplici braci (Così un sol calor di molte brage si fa sentir), similmente dalla pluralità di quegli spiriti ardenti di carità (come di molti amori), proviene un’univoca voce per mezzo di quell’aquila (usciva solo un suon di quella image).
La stupefacente simultaneità vocale vien paragonata all’insieme di cocenti carboni nel loro effondere unico calore.
Ond’io appresso: «O perpetüi fiori | |
de l’etterna letizia, che pur uno | |
24 | parer mi fate tutti vostri odori, |
solvetemi, spirando, il gran digiuno | |
che lungamente m’ha tenuto in fame, | |
27 | non trovandoli in terra cibo alcuno. |
Pertanto Dante, in fulminea ribattuta (Ond’io appresso): “O perpetui fiori dell’eterna beatitudine (letizia), che tutti i vostri profumi (odori) sunteggiate in un unico effluvio a me percettibile (pur uno parer mi fate), scioglietemi (solvetemi), fiatando parole (spirando), il gran digiuno che da lungo tempo mi rende affamato (lungamente m’ha tenuto in fame), non trovando in terra cibo alcuno che lo appaghi.
Il pellegrino si descrive come colui al quale assillanti e durevoli titubanze abbiano reso la sensazione d’un prolungato digiuno di sapere, rivolgendosi ai beati come fossero profumati “fiori”, la beatitudine in tal caso sfiorando il senso olfattivo, come peraltro nel regno celeste il visivo, l’uditivo ed il tattile siano stati spesso stimolati, rispettivamente tramite sfavillanti visioni, melodici inni e variazioni di temperatura, nella globalità d’un vissuto emozionale più unico che raro.
Ben so io che, se ’n cielo altro reame | |
la divina giustizia fa suo specchio, | |
30 | che ’l vostro non l’apprende con velame. |
Son perfettamente consapevole del fatto (ben so io) che, ancorché in Paradiso (se ’n cielo) la giustizia divina si rifletta (fa suo specchio) in un’altra sfera celeste (altro reame), la vostra la trae senza offuscamento (che ’l vostro non l’apprende con velame).
È il settimo Cielo, quello di Saturno, a riflettere direttamente la luce divina, “altro reame” la cui potestà giudiziale — che nel Cielo di Giove è in capo alle Dominazioni — è affidata alla Gerarchia angelica dei Troni, la terza, ossia quella in cui il loro sguardo, insieme a quello di Cherubini e Serafini, è orientato in linea retta all’Onnipotente, mentre le Dominazioni, insieme a Virtù e Potestà, appartengono alla seconda Gerarchia, della prima facendo parte Principati, Arcangeli ed Angeli e ciò nonostante, alle Dominazioni è permesso raccogliere la grazia celeste senza velature che l’ombreggino, pertanto Dante a loro sapendo di poter tranquillamente chiederne a riguardo, certo d’appagante riscontro.
Sapete come attento io m’apparecchio | |
ad ascoltar; sapete qual è quello | |
33 | dubbio che m’è digiun cotanto vecchio». |
Sapete com’io m’appresti ad ascoltar con attenzione (come attento m’apparecchio); sapete qual è quel dubbio causa del mio antico digiuno (he m’è digiun cotanto vecchio)”.
In quel doppio “sapete” l’Alighieri sottolinea la capacità dell’anime — a lui ben nota — di leggere e comprendere i suoi pensieri, senza bisogno alcuno di svelarli.
Quasi falcone ch’esce del cappello, | |
move la testa e con l’ali si plaude, | |
36 | voglia mostrando e faccendosi bello, |
vid’io farsi quel segno, che di laude | |
de la divina grazia era contesto, | |
39 | con canti quai si sa chi là sù gaude. |
Come (Quasi) il falcone che, appena liberato del suo cappuccio (ch’esce del cappello), scrolla (move) la testa e par farsi plauso (si plaude) con l’ali — manifestando brama (voglia mostrando) e facendosi bello — l’Alighieri vede simile atteggiamento da parte di quella figura (vid’io farsi quel segno) d’Aquila, la quale è intrisa (era contesto) di spiriti che son lode (laude) della misericordia d’Iddio (de la divina grazia), tramite canti che son comprensibili esclusivamente a chi dimora nella letizia celeste (quai si sa chi là sù gaude).
I beati sono entusiasti nel poter accondiscendere alle richieste di Dante e muovendosi concordemente all’interno dell’Aquila in cui sono disposte, rendono le movenze d’un pavoneggiante falco da caccia appena liberato del copricapo, nel suo incontenibile desiderio di volo.
Poi cominciò: «Colui che volse il sesto | |
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso | |
42 | distinse tanto occulto e manifesto, |
non poté suo valor sì fare impresso | |
in tutto l’universo, che ’l suo verbo | |
45 | non rimanesse in infinito eccesso. |
Poi l’Aquila riprende a parlare: “Colui che tracciò col compasso (volse il sesto) i confini (a lo stremo) del mondo ed all’interno dello stesso frazionò (e dentro ad esso distinse) una parte occulta ed una manifesta, non potè portare a suggello la sua energia creativa in egual maniera nella totalità del creato (non poté suo valor sì fare impresso in tutto l’universo), affinché la perfezione della sua vitalità non eccedesse infinitamente (che ’l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso).
E ciò fa certo che ’l primo superbo, | |
che fu la somma d’ogne creatura, | |
48 | per non aspettar lume, cadde acerbo; |
E ciò e dimostrato (fa certo) dal fatto che il primo superbo, ch’era la più elevata fra tutte le creature ( fu la somma d’ogne creatura), nell’impazienza d’attender che la luce della grazia lo investisse completamente (per non aspettar lume), capitolò ad imperitura dannazione (cadde acerbo);
e quinci appar ch’ogne minor natura | |
è corto recettacolo a quel bene | |
51 | che non ha fine e sé con sé misura. |
e da qui s’evince (quinci appar) come qualsiasi (ch’ogne) altra natura a lui inferiore (minor) sia limitato ricettacolo nel racchiudere quella bontà divina infinita e comparabile sol a se stessa (è corto a quel bene che non ha fine e sé con sé misura).
L’archetipo dell’Eterno che tratteggiò l’universo in maniera geometrica è tipico dell’iconografia medievale e proprio nell’atto della creazione Iddio distinse tanto parti intellegibili quanto arcane all’umano intelletto, affinché il suo “verbo” — vale a dire l’idea di Dio palesatasi nel di lui Figlio — argomentazione ampiamente trattata nel tredicesimo Canto di Paradiso — non straripasse dai confini del Creato ed il concetto d’ “infinito eccesso” è precisamente riscontrabile in Lucifero, il “primo superbo”, precedentemente il Serafino più bello, che si dannò per precipitosa frenesia, prima d’essersi perfezionato nella misericordia celeste, questo il motivo per cui qualsiasi creatura inferiore all’angelo ribelle non possa che esser ristretto contenitore della bontà divina.
Dunque vostra veduta, che convene | |
esser alcun de’ raggi de la mente | |
54 | di che tutte le cose son ripiene, |
non pò da sua natura esser possente | |
tanto, che suo principio non discerna | |
57 | molto di là da quel che l’è parvente. |
Dunque l’intelligenza umana (vostra veduta) — che altro non è se non uno dei (convene esser alcun de’) raggi propagati dalla mente dell’Altissimo e della cui luce (di che) son infuse (ripiene) tutte le cose — non può (pò da) per sua natura esser provvista al punto (possente tanto) da ravvisare nel suo Creatore (che suo principio non discerna) più di quanto non gli venga reso esplicito (molto di là da quel che l’è parvente) dalla di Lui volontà.
Però ne la giustizia sempiterna | |
la vista che riceve il vostro mondo, | |
60 | com’occhio per lo mare, entro s’interna; |
Perciò alla percezione visiva fornita in dote all’umanità (Però la vista che riceve il vostro mondo) è dato d’addentrarsi nel merito (entro s’interna) dei decreti divini (ne la giustizia sempiterna) nella medesima misura in cui agli umani occhi sia possibile penetrar attraverso gli abissi marini (com’occhio per lo mare);
che, ben che da la proda veggia il fondo, | |
in pelago nol vede; e nondimeno | |
63 | èli, ma cela lui l’esser profondo. |
essendo che lo sguardo, sebben dalla riva riesca a scorgerne il fondale (ben che da la proda veggia il fondo), in alto mare (pelago) non è più in grado di vederlo (nol vede); e nondimeno il fondo ci sia (èli), ma nascondendolo la profondità (cela lui l’esser profondo) delle sua acque.
Lume non è, se non vien dal sereno | |
che non si turba mai; anzi è tenèbra | |
66 | od ombra de la carne o suo veleno. |
Non esiste luce di verità (Lume non è) al di fuori di quella che origina dall’inalterabile serenità celeste (se non vien dal sereno che non si turba mai); tutto il resto (anzi) è tenebra o fallace proiezione dei sensi (od ombra della carne) oppur percezione dagli stessi avvelenata (o suo veleno).
Il fatto di non veder il letto marino, qualora coperto dalle sue acque, non significa ch’esso non esista quindi, in parallelo di similitudine, la giustizia celeste sussiste a priori, indipendentemente dalla sua illusoria interpretazione da parte degli uomini, ad ogni modo impossibilitati a decodificarla esattamente, in quanto i suoi effetti riprova dell’unico “Lume” assoluto e incorruttibile.
Assai t’è mo aperta la latebra | |
che t’ascondeva la giustizia viva, | |
69 | di che facei question cotanto crebra; |
Ora ti sarà stata alquanto schiusa (Assai t’è mo aperta) la tana (latebra) nella quale si celava (che t’ascondeva) la giustizia divina (viva) sulla quale ti facevi domande tanto martellanti (di che facei question cotanto crebra);
ché tu dicevi: ‘Un uom nasce a la riva | |
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni | |
72 | di Cristo né chi legga né chi scriva; |
dato che, fra te e te, dicevi: ‘Un uomo nasce sulle rive dell’Indo, ed in codesto luogo (quivi) non v’è nessuno che porti la parola (chi ragioni) di Cristo, tantomeno chi ne insegni (legga) o scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni | |
sono, quanto ragione umana vede, | |
75 | sanza peccato in vita o in sermoni. |
ed ogni suo proposito o buona azione (e tutti suoi voleri e atti buoni) sono — per quanto sia possibile umanamente appurarne (ragione umana vede) — senza peccato in opere (vita) o parole (sermoni).
Muore non battezzato e sanza fede: | |
ov’è questa giustizia che ’l condanna? | |
78 | ov’è la colpa sua, se ei non crede?’. |
Costui muore non battezzato e senza fede: che giustizia sarebbe quella (ov’è questa) che lo condanna? in cosa consisterebbe (ov’è) la sua colpa, s’egli (ei) è ignaro della fede (non crede)?’.
Dopo una prima delucidazione, all’Alighieri dovrebbero essersi dipanati parecchi dubbi, nondimeno l’Aquila preferendo approfondir questione, addentrandosi ancor più nei danteschi meandri mentali e sviscerandone in maniera certosina ulteriore dilemma, ovverosia quello della salvezza ricusata a chi non abbia avuto modo di conoscere la fede, di conseguenza non essendo stato unito al Santissimo Spirito in fonte battesimale, nonostante un’irreprensibile e lodevole condotta esistenziale.
L’espressione “a la riva de l’Indo” viene utilizzata a livello generale per indicare posti lontani ed agli estremi del pianeta.
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, | |
per giudicar di lungi mille miglia | |
81 | con la veduta corta d’una spanna? |
Ora, chi ti credi d’esser (se’) tu, che che t’arroghi il diritto di montare in cattedra (vuo’ sedere a scranna) per giudicare a mille miglia di distanza (lungi) con un palmo di vista (veduta corta d’una spanna)?
Certo a colui che meco s’assottiglia, | |
se la Scrittura sovra voi non fosse, | |
84 | da dubitar sarebbe a maraviglia. |
Indubbiamente (Certo) avrebbe straordinariamente (a maraviglia) ragion di dubitare colui che, su di me, imposta sottili ragionamenti (meco s’assottiglia), qualora non aveste avuto a guida e tutela le Sacre Scritture (se la Scrittura sovra voi non fosse).
Oh terreni animali! oh menti grosse! | |
La prima volontà, ch’è da sé buona, | |
87 | da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. |
Oh creature terrestri (terreni animali)! oh menti grossolane (grosse)! La volontà assoluta (prima) — ch’è buona in sé e per sé — mai si disgiunse (non mosse) dal sommo bene con il quale collima.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona: | |
nullo creato bene a sé la tira, | |
90 | ma essa, radïando, lui cagiona». |
Equo è tutto quanto le si uniforma (Cotanto è giusto quanto a lei consuona): nessun (nullo) bene l’attrae (tira) a sé, vicecersa è lei stessa che l’origina, irraggiandosi (ma essa, radïando, lui cagiona).
La perentoria risposta dell’Aquila riprende, con duro rimprovero, la personale riflessione di Dante, fra le righe tacciandolo d’irrispettosa insolenza ed adducendo che legittimato a dubitare sarebbe esclusivamente colui che sia inconsapevole di tutto, in quanto non raggiunto ed illuminato dalle Sacre Scritture, a seguire una di lei animosa esternazione in rimprovero alla rozzezza della mente umana nel non afferrare quanto il bene supremo risieda e s’origini unicamente in Dio.
Quale sovresso il nido si rigira | |
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, | |
93 | e come quel ch’è pasto la rimira; |
Come (Quale) la cicogna svolazza sopra al (si rigira sovresso il) nido dopo aver nutrito (poi c’ha pasciuti) i suoi piccoli (figli), e come il saziato cicognino (quel ch’è pasto) che la rimira;
cotal si fece, e sì leväi i cigli, | |
la benedetta imagine, che l’ali | |
96 | movea sospinte da tanti consigli. |
in tal modo si comportò (cotal si fece) la sacra (benedetta) immagine, agitando (movea) l’ali vivificate da multiple ed armoniche volontà (sospinte da tanti consigli).
Roteando cantava, e dicea: «Quali | |
son le mie note a te, che non le ’ntendi, | |
99 | tal è il giudicio etterno a voi mortali». |
Roteando, l’aquila canta e dice: “Come tu recepisci il mio testo cantato (sono le mie note a te), che non lo comprendi (’ntendi), tale è percepita la giustizia di Dio (il giudicio etterno) da voi mortali”.
L’Aquila, forniti ulteriori chiarimenti al famelico Alighieri, inizia a svolazzargli sopra ed intorno come fosse una mamma cicogna sui piccoli appena sfamati, in seguito dedicando un inno al Signore e, sulla ormai nota inidoneità di Dante a comprenderne il disegno melodico, portandone a raffronto l’inabilità alla decrittazione dell’autorità giudiziaria celeste.
Poi si quetaro quei lucenti incendi | |
de lo Spirito Santo ancor nel segno | |
102 | che fé i Romani al mondo reverendi, |
esso ricominciò: «A questo regno | |
non salì mai chi non credette ’n Cristo, | |
105 | né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. |
Dopo che quelle luccicanti fiammate dello (quei lucenti incendi de lo) Spirito Santo si son ristabilite (quetaro) nella croce (ancor nel segno) grazie alla quale i Romani vennero stimati nel (che fé i Romani reverendi al) mondo, l’Aquila riprende a parlare: “Al Paradiso (questo regno) mai ascese (non salì) chi non ebbe fede (credette) in Cristo, tanto prima quanto in seguito alla sua crocifissione (né pria né poi ch’el si chiavasse al legno).
Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’, | |
che saranno in giudicio assai men prope | |
108 | a lui, che tal che non conosce Cristo; |
Ma rifletti su questo (vedi): molti fra quelli che gridarono ‘Cristo, Cristo!’, nel giorno del Giudizio gli saranno meno vicini (saranno in giudicio assai men prope a lui), rispetto a chi non lo conosca;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe, | |
quando si partiranno i due collegi, | |
111 | l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe. |
e tali (tai) Cristiani verranno biasimati (dannerà) dagli Etiopi nel momento in cui le due compagini verranno suddivise (quando si partiranno i due collegi), l’una eternamente ricca e l’altra indigente (inòpe).
Le anime, pervase d’ardente carità, si ricompongono nell’Aquila ad emblema e, dopo breve silenziarsi, invitano l’Alighieri a meditare sul fatto che non sia sufficiente professarsi credenti per risorgere alla salvezza eterna, ragion per la quale chi non abbia conosciuto la fede, ma si sia distinto per irreprensibile contegno, sarà più meritorio di qualsiasi cristiano allontanatosi dall’integrità; questo non significa che il pagano probo otterrà la salvezza, riservata ai fedeli morigerati, ma che sarà men distante da Dio rispetto al battezzato fuorviato.
“Etïòpe” è termine utilizzato al richiamare la divergenza di credo.
Che poran dir li Perse a’ vostri regi, | |
come vedranno quel volume aperto | |
114 | nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? |
Cosa potranno mai dire i Persiani ai (poran dir li Perse a’) vostri regnanti (regi), non appena (come) vedranno quel volume aperto nel quale vengono registrate (si scrivon) tutte le loro deplorevoli azioni (tutti suoi dispregi)?
Con il vocabolo “regi” s’intendono i principi cristiani regnanti viziosi ed il termine “li Perse” ricalca, nel significato dell’uso, l’ “Etïòpe” summenzionato.
Il “volume aperto” è metaforico testo sul quale vengono registrate le disonorevli azioni d’ogni uomo, alle quali conseguirà corispettivo fio alla lettura dello stesso, nel giorno del Giudizio Universale.
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, | |
quella che tosto moverà la penna, | |
117 | per che ’l regno di Praga fia diserto. |
Al suo interno si leggerà (Lì si vedrà), tra le gesta (l’opere) d’Alberto, quanto a breve verrà annotato (tosto moverà) dalla penna divina ed a causa di cui il regno di Praga subirà usurpazione (fia diserto).
Fra questi “regi” l’aquila ne accenna quattordici, a partir da Alberto I d’Asburgo (1255-1308), colui il quale — al noventasettesimo verso del sesto Canto purgatoriale viene nominato come “Alberto tedesco” — fra il 1303 ed il 1304 occupò la Boemia, devastandola sulla scia d’una deprecabile ingordigia d’espansione.
Il regno di Boemia fu monarchia dell’Europa centrale — dipendente dal Sacro Romano Impero — dal 1198 al 1918 e Praga ne era capitale.
Lì si vedrà il duol che sovra Senna | |
induce, falseggiando la moneta, | |
120 | quel che morrà di colpo di cotenna. |
Al suo interno si leggerà dell’afflizione (il duol) indotta, sulle sponde (sovra) della Senna, falsificando denaro (falseggiando la moneta) da parte di colui (quel) che morirà improvvisamente urtato da un cinghiale (morrà di colpo di cotenna).
Trattasi del sovrano francese — fortemente inviso alla Chiesa cattolica e per i sui contrasti con la stessa più volte richiamato alla memoria in corso di Commedia, precisamente nel settimo, ventesimo e trentaduesimo Canto di Purgatorio— Filippo IV di Francia (1268-1314) detto ‘il Bello’, scaltro falsificatore il quale, per controbilanciare le spese belliche conseguite alla dispendiosa guerra di Fiandra — conflitto franco-fiammingo protrattosi dal 1297 al 1305 — si narra diffuse monete con titolo aureo inferiore al nominale, per la disperazione dei poveri risparmiatori.
Fonti storiche ne attribuiscono la morte non tanto ad un colpo di sopraggiunto cinghiale (cotenna), ma da un’accidentale caduta di Filippo in conseguenza all’infilarsi dell’animale fra le zampe del destriero da lui cavalcato o, secondo alternativa ricostruzione, in seguito ad improvvisa patologia cerebrale.
Lì si vedrà la superbia ch’asseta, | |
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, | |
123 | sì che non può soffrir dentro a sua meta. |
Al suo interno si leggerà la superbia che, fra re il di Scozia ed il folle re d’Inghilterra (fa lo Scotto e l’Inghilese) — li asseta a tal punto da non riuscir a contenerli entro i propri confini (sì che non può soffrir dentro a sua meta).
Non v’è inconfutabile certezza su chi possano essere i due re citati, ma fra le varie ipotesi spiccando perlomeno un abbozzo teorico sull’inglese Edoardo Plantageneto (1239-1307), alias Edoardo I d’Inghilterra, all’epoca del colloqui fra l’Aquila e l’Alighieri, riferibili all’anno 1300, affaccendato in guerreschi scontri con i baroni scozzesi capeggiati da Robert I Bruce re di Scozia (1274-1329) e se così fosse, non ci si capacita come tal Edoardo possa esser tanto bistrattato in codesto Canto quando, nella valletta dei principi, le sue lodi vennero amorevolmente tessute dal solitario padre Arrigo, o Enrico, III d’Inghilterra (1207-1272) nella quarantaquattresima terzina dl sesto canto del Purgatorio: “Vedete il re de la semplice vita seder là solo, Arrigo d’Inghilterra: questi ha ne’ rami suoi migliore uscita”.
Edoardo I viene inoltre storicamente considerato un regio prode, equanime e savio, ad ogni modo non potendo identificare il protagonista del centoventiduesimo versetto nel figlio Edoardo II (1284-1327) dacché, tratteggiando l’Aquila le peripezie di governanti in carica ed egli essendo salito al trono nel 1307, i tempi non corrisponderebbero, a meno che il fiorentin autore avesse a disposizione informazioni errate sull’Oltremanica, il mistero comunque destinato a restar tale.
Vedrassi la lussuria e ’l viver molle | |
di quel di Spagna e di quel di Boemme, | |
126 | che mai valor non conobbe né volle. |
Si vedrà (Vedrassi) la lussuria e l’esistenzial indolenza (’l viver molle) del sovrano di Spagna e di quello di Boemia, che mai ambirono o guadagnarono virtù (valor non conobbe né volle).
Ferdinando IV re di Castiglia (1285-1312) e Venceslao II re di Boemia (1271-1305), riottosi all’adempimento dei propri doveri, all’opposto tacciati come dediti al vizio ed il Vanceslao denigrato — sempre nella succitata valletta d’Antipurgatorio — dal padre Ottocaro II di Boemia (1230/1233-1278), nella trentaquattresima terzina del settimo Canto della Cantica di mezzo: “Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce”.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme | |
segnata con un i la sua bontate, | |
129 | quando ’l contrario segnerà un emme. |
Si vedrà lo Zoppo (al Ciotto) di Gerusalemme il cui buon operato (la sua bontate) sarà segnato con una i, mentre le sue malefatte opposte (’l contrario) segneranno una emme.
Il “Ciotto di Ierusalemme” fu Carlo II d’Angiò (1254-1309), personalità più volte chiamata in causa nel Sommo Poema e qui tirata in ballo come colui le cui buone azioni staranno 1 (i) a 1000 (emme) a sottolinearne l’innumerevoli mascalzonate.
Vedrassi l’avarizia e la viltate | |
di quei che guarda l’isola del foco, | |
132 | ove Anchise finì la lunga etate; |
Si vedranno l’avarizia e la viltà (viltate) di colui che governa (guarda) l’isola vulcanica (del foco) ove Anchise trascorse l’ultimo periodo della sua vita;
e a dare ad intender quanto è poco, | |
la sua scrittura fian lettere mozze, | |
135 | che noteranno molto in parvo loco. |
e per farti ben capir la sua pochezza (a dare ad intender quanto è poco), quanto scritto su di lui verrà appuntato con abbreviazioni (la sua scrittura fian lettere mozze), al fin d’accalcare molta roba (che noteranno molto) in poco spazio (parvo loco).
Colui che “guarda l’isola del foco” fu il re di Sicilia Federico II d’Aragona (1272-1337) e la sua penuria verrà trascritta nel celeberrimo libro del Giudizio con lettere sottoposte ad abbreviazione che ne simbolizzino la pochezza e per modo che in ridotta capienza si possa ammassare tutte le debolezze che lo caratterizzarono.
L’isola — la medesima nella quale, come decantato nella virgiliana Eneide, morì il vecchio e mitologico principe Anchise — è detta “del foco” per la presenza dell’Etna.
E parranno a ciascun l’opere sozze | |
del barba e del fratel, che tanto egregia | |
138 | nazione e due corone han fatte bozze. |
Ed a tutti appariranno (parrano) le sconcezze (l’opere sozze) dello zio (del barba) e del fratello, che hanno imbastardito (fatte bozze) una tanto insigne nazione e due corone.
Zio e fratello di Federico furono i pusillanimi Giacomo II di Maiorca (1243-1311) e Giacomo II d’Aragona (1267-1327), detto ‘il Giusto’, ambedue ignobili disonori per lignaggio e corona.
E quel di Portogallo e di Norvegia | |
lì si conosceranno, e quel di Rascia | |
141 | che male ha visto il conio di Vinegia. |
E lì si conosceranno il re della Norvegia, quello del Portogallo e quello di Serbia (Rascia), che negativo ritorno (male) ha avuto dal conio di Venezia (Vinegia).
Rispettivamente Dioniso (1261-1325), o Dionisi, detto ‘l’Agricola’;
Acone V (1270-1319), o Haakon, detto ‘il Gambalunga’;
infine Stefano II Uroš Milutin, (1253-1321), invero un trio di notevoli sovrani, provetti e trainanti, dei quali verosimilmente Dante ebbe a disposizione notizie errate, benché, in realtà, per quanto riguarda “quel di Rascia” si rammenta il suo fraudolento e documentato alterar la moneta veneziana, con negativo contraccolpo.
La “Rascia”, o Raška, è montuosa regione della Serbia meridionale.
Oh beata Ungheria, se non si lascia | |
più malmenare! e beata Navarra, | |
144 | se s’armasse del monte che la fascia! |
Oh beata sia Ungheria se non si facesse (lascia) più opprimere (malmenare)! e beata Navarra, se si facesse scudo (s’armasse) del monte che l’avvolge (la fascia)!
Il sermone s’avvia alla conclusione nel benevolo e fiducioso auspicio all’Ungheria d’esser pacificamente e sapientemente governata — come poi avverrà di lì a qualche anno — da Carlo Roberto ‘Caroberto’ d’Angiò (1288-1342), figlio di Carlo martello d’Angiò (1271-1295), differente sorte sarà purtroppo per la Navarra ove, l’ispanica regione — impotente nel proteggersi in abbraccio ai Pirenei — alla dipartita di Giovanna I di Navarra (1273-1305), consorte di Filippo il Bello, passerà in mani francesi, di storia ungherese e navarrese già parlando i Canti nono di Paradiso e settimo di Purgatorio.
E creder de’ ciascun che già, per arra | |
di questo, Niccosïa e Famagosta | |
147 | per la lor bestia si lamenti e garra, |
148 | che dal fianco de l’altre non si scosta». |
E ciascuno deve tener bn presente (de’ credere) che già, come anticipo (per arra) di questo, Niccosia e Famagosta avanzano lamentele (si lamenti)e recriminazioni (garra) per la bestia che le amministra, che va di pari passo (non si scosta) con gli altri (dal fianco de l’altre) sovrani citati.
Il termine “arra” — letteralmente ‘caparra’ — in tal contesto assume il significato d’anticipazione, ch’è nei quella captata su lagnanze e reclami di Nicosia e Farmagosta, principali cittadine dell’isola di Cipro, nei confronti della brutale attività di governo del suo licenzioso e svogliato re, Enrico II di Lusignano (1271-1324), preso ad esempio della disgrazia conseguente all’esser guidati da un principe francese, origini che l’accomunano ai precedenti connazionali elencati.
A partir dalla trentanovesima terzina, nove capoversi formeranno l’acrostico ‘LLLVVVEEE’, corrispondenti alla ripetizione di tre “Lì si vedrà” e “Vedrassi”, poi seguiti da tre “E”, i chiosatori moderni immaginandolo in un semplificato ‘LVE’ — da leggersi ‘LUE’, nome d’una malattia betterica — che taluni interpretano a paradigmatica investitura dei sovrani a flagello della cristianità.
Al tacer della santa aquila in balzo di Canto, nella mente dell’Alighieri sorge naturale e variopinta immagine solare: “Quando colui che tutto ’l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende, che ’l giorno d’ogne parte si consuma…”
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