Divina Commedia: Paradiso, Canto VII
Salvatore Postiglione (1861-1906), Dante e Beatrice, 1906
Dopo aver ascoltato il sermone di Giustiniano, Dante è dubbioso circa l’equità del castigo d’una, ai tempi, ritenuta giusta vendetta, nello specifico riferendosi alla punizione inferta per la crocifissione di Gesù, perplessità per la quale l’Alighieri prova intenso desiderio di chiederne all’adorata Beatrice, ostacolato però nell’intento dalla profonda e limitante devozione nei confronti d’ella che, ancora e sempre intuisce, amorevolmente apprestandosi a dissiparne le incertezze senza attender domanda.
Lungo argomentare parte dall’incarnazione del Figlio di Dio in Cristo, scindendo la duplice natura, umana e divina, indi imputando lecita la vendetta sulla carnale essenza in virtù del peccato originale, al pari dell’intera umanità, viceversa immotivata se rapportata all’entità suprema.
Dissolta tal perplessità, in Dante sorge allora brama di saper ragion per cui l’Altissimo scelse di sacrificare il proprio figlio e Beatrice, nuovamente cogliendone intimo dilemma, ne offre delucidazione legandosi al concetto della bontà divina come realtà scevra di qualsivoglia livore e da cui ciò che viene creato è libero, immortale e a lei rassomigliante, caratteristiche che negli umani sono state macchiate agli albori della vita dal peccato originale, per riscattare il quale la magnificenza dell’Onnipotente ha deciso di non avvalersi del semplice perdono, ma di partecipare attivamente facendosi uomo e immolandosi per l’intera umanità.
Al percepir, per la terza volta, confusione mentale nell’Alighieri — derivata dal chiedersi come sia possibile che i quattro elementi quali acqua, fuoco, aria e terra, di per se stessi alterabili, possano sottostare all’affermazione secondo cui ciò che vien creato dal Padre Eterno sia incorruttibile — Beatrice, in procinto di concludere la sua approfondita esposizione, traccia differenziazione fra materia prima, direttamente plasmata dal Signore e influenze celesti che influiscono sulla forma di talun cose create, ecco perché quest’ultime sono degradabili mentre così non è per i corpi umani, che risorgeranno nel giorno del Giudizio.
In piena didascalia, il settimo Canto oscilla fra dottrina e poeticità, quella infusa dalla carità nei cuori puri, gli unici ai quali sarà concesso di raggiunger l’amore eterno, quell’orizzonte per Dante sempre più prossimo ed il cui conseguimento getterà nell’oblio ogni pregressa sofferenza e fatica, all’animo donando rigenerante pace, desiata beatitudine e caldo ristoro.
«Osanna, sanctus Deus sabaòth, | |
superillustrans claritate tua | |
3 | felices ignes horum malacòth!». |
“Osanna, santo Dio degli eserciti (sanctus Deus sabaòth), che sovraillumini con il tuo splendore (superillustrans claritate tua) le felici fiamme di questi regni (felices ignes horum malacòth!)”.
Così, volgendosi a la nota sua, | |
fu viso a me cantare essa sustanza, | |
6 | sopra la qual doppio lume s’addua; |
Così, volteggiando al ritmo del proprio canto (volgendosi a la nota sua), all’Alighieri sembra (fu viso a me) che canti quell’anima (cantare essa sustanza), sopra la quale un duplice bagliore si congiunge (doppio lume s’addua);
Per bocca di Giustiniano s’effondono nell’etere le solenni note d’un inno di dantesca ideazione, sulla falsariga del liturgico Sanctus dell’Osanna; al “doppio lume” che staziona sopra dell’imperatore sono state attribuite varie interpretazioni, fra le quali l’insieme della sua luminosità con quella divina oppure del vincolo fra il regnante e il guerriero o ancora dell’unione tra la grazia e la moralità imperiale.
ed essa e l’altre mossero a sua danza, | |
e quasi velocissime faville | |
9 | mi si velar di sùbita distanza. |
poi l’anima (ed essa) e gli altri spiriti si uniscono (l’altre mossero a sua) alla danza e come vorticose scintille (quasi velocissime faville) improvvisamente (sùbita) scompaiono (mi si velar) sfumando in lontananza (distanza).
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ | |
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna | |
12 | che mi diseta con le dolci stille’. |
L’Alighieri, è combattuto tra profonda deferenza e voce interiore (Io dubitava e dicea fra me) esortante ad aprirsi con colei (‘dille’ dicea, ‘a la mia donna) che di conoscenza, soavemente ne placa desiderio (diseta con le dolci stille).
Ma quella reverenza che s’indonna | |
di tutto me, pur per Be e per ice, | |
15 | mi richinava come l’uom ch’assonna. |
Ma quel senso di reverenza che di lui prende possesso (s’indonna di tutto me), solamente (pur) per Be e per ice, lo ripiega su se stesso al pari di un uomo assonnato (mi richinava come l’uom ch’assonna).
Dante, come accaduto in più d’un occasione, è suddiviso fra la smania di chiedere delucidazioni alla donna amata ed il timore di farlo, frenato dalla sua connaturata indole a riverirla, al punto da abbassare il capo al sol pronunciar o udir le sillabe in principio e fine al suo incantevole nome.
Poco sofferse me cotal Beatrice | |
e cominciò, raggiandomi d’un riso | |
18 | tal, che nel foco faria l’uom felice: |
Beatrice tollera per breve tempo il veder il suo protetto in siffatto stato d’animo (Poco sofferse me cotal), indi iniziando a parlare (e cominciò), irraggiandolo (raggiandomi) d’un tal sorriso (riso) da render gioia ad un uomo che si trovi fra le fiamme (che nel foco faria l’uom felice):
La beata come sempre lo intercetta in ogni titubanza, con dedita amorevolezza prendendo parola e sorridendogli, al fin di tranquillizzarlo, a lui rendendo indescrivibile gaiezza.
«Secondo mio infallibile avviso, | |
come giusta vendetta giustamente | |
21 | punita fosse, t’ha in pensier miso; |
“Secondo mio infallibile avviso, t’è sorta perplessità (t’ha in pensier miso) la question di come sia possibile che una giusta vendetta sia stata (fosse) giustamente punita;
S’allude al novantaduesimo e noventatreesimo versetto del precedente Canto: “poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico”.
ma io ti solverò tosto la mente; | |
e tu ascolta, ché le mie parole | |
24 | di gran sentenza ti faran presente. |
ma io ti libererò (solverò) la mente; e tu ascoltami attentamente, poiché il mio discorso (ché le mie parole) ti farà dono (ti faran presente) di un grande dogma (sentenza).
Per non soffrire a la virtù che vole | |
freno a suo prode, quell’uom che non nacque, | |
27 | dannando sé, dannò tutta sua prole; |
Quell’uomo che non nacque, per il semplice fatto di non tollerar (soffrire) le limitazioni (freno) ai propri desideri (a la virtù che vole), prescritte a suo vantaggio (prode), condannandosi, condannò l’intera progenie umana (dannando sé, dannò tutta sua prole);
La locuzione “uom che non nacque” indica Adamo il quale, in quanto primo uomo creato, non venne al mondo partorito da una donna.
onde l’umana specie inferma giacque | |
giù per secoli molti in grande errore, | |
30 | fin ch’al Verbo di Dio discender piacque |
u’ la natura, che dal suo fattore | |
s’era allungata, unì a sé in persona | |
33 | con l’atto sol del suo etterno amore. |
di conseguenza l’umanità (onde l’umana specie) rimase (giacque) inabissata (inferma giù) per molti secoli nel grave peccato (in grande errore), fintantoché al Verbo di Dio piacque discender ove (u’) all’umana natura, che dal suo artefice (fattore) s’era allontanata (allungata), si congiunse (unì a sé) nella sua persona divina per pura azione dello Spirito Santo (con l’atto sol del suo etterno amore).
Il “Verbo di Dio”, come riportato dall’evangelista Giovanni, sarebbe la seconda persona della Santissima Trinità, ovvero colui che si fece carne.
Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona: | |
questa natura al suo fattore unita, | |
36 | qual fu creata, fu sincera e buona; |
Or convoglia l’attenzione (drizza il viso) a ciò che sto per spiegarti (quel ch’or si ragiona): la natura umana (questa), in quanto unita al suo ideatore, fu integra (sincera) e magnanima (buona) come all’atto della creazione (qual fu creata);
ma per sé stessa pur fu ella sbandita | |
di paradiso, però che si torse | |
39 | da via di verità e da sua vita. |
ma per sé stessa ella era comunque (pur fu) quella esiliata dal (sbandita di) Paradiso, avendo deviato il percorso dalla (però che si torse da) via della verità e dalla perfezione alla quale avrebbe dovuto tendere nel corso della sua vita.
La santa guida spiega al suo discepolo come la natura umana fosse pura e leale, a somiglianza di chi la formò, ma contemporaneamente marchiata del peccato originale.
La pena dunque che la croce porse | |
s’a la natura assunta si misura, | |
42 | nulla già mai sì giustamente morse; |
Se dunque la pena che venne imposta (porse) dalla croce è commisurata (si misura) all’umana natura che il Cristo assunse, giammai fio punì con cotanta giustizia (nulla già mai sì giustamente morse);
e così nulla fu di tanta ingiura, | |
guardando a la persona che sofferse, | |
45 | in che era contratta tal natura. |
tuttavia, al contempo, niente fu parimenti iniquo (e così nulla fu di tanta ingiura), se si sonsidera (guardando a) la persona che ne fu vittima (sofferse), nella quale (in che) la natura umana (tal) s’era amalgamata (contratta) a quella divina.
Secondo quest’assunto la crocifissione dev’esser considerata legittima se riferita alla natura umana di Cristo e parallelamente ingiusta se rapportata alla sua natura divina.
Però d’un atto uscir cose diverse: | |
ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte; | |
48 | per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse. |
Questa la cagion per la quale da un unico evento scaturirono effetti ben distinti (Però d’un atto uscir cose diverse): e come d’un medesima (una) morte s’appagarono tanto il Padre Eterno quanto gli Ebrei (ch’a Dio e a’ Giudei); per lei per lei tremò la terra e il cielo s’aprì (’l ciel s’aperse).
Questo spiega perché da un unico avvenimento derivò, sebben per motivi differenti, una doppia soddisfazione, i Cieli schiudendosi alla purificazione dell’umanità e simultaneamente un sisma — di cui narra il Vangelo secondo Matteo — verificandosi ad ammonimento della punizione dalla quale sarebbero stati castigati gli Ebrei.
Non ti dee oramai parer più forte, | |
quando si dice che giusta vendetta | |
51 | poscia vengiata fu da giusta corte. |
a questo punto (oramai) non ti deve in alcun modo apparir ostico (dee oramai parer più forte) l’affermar (quando si dice) che una giusta vendetta venne in seguito vendicata (vengiata) dal tribunale della giustizia divina (da giusta corte).
La suddetta asserzione sottace accusa di deicidio per gli Ebrei, di conseguenza avallando la devastazione del Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito.
Ma io veggi’ or la tua mente ristretta | |
di pensiero in pensier dentro ad un nodo, | |
54 | del qual con gran disio solver s’aspetta. |
Ma io adesso noto (veggi’ or) che la tua mente, di pensiero in pensiero, rimane ancora imbrigliata (ristretta) in un dubbioso ginepraio (dentro ad un nodo), da cui fortemente vuole liberarsi (del qual con gran disio solver s’aspetta).
Fin dai primi passi nella selva oscura, nella mente di Dante, alquanto spesso, sulle ceneri d’un dubbio risolto ne germina un successivo e Beatrice non manca di percepirlo, dimostrandosi disponibile e comprensiva ad accorrergli in soccorso.
Tu dici: ‘Ben discerno ciò ch’i’ odo; | |
ma perché Dio volesse, m’è occulto, | |
57 | a nostra redenzion pur questo modo’. |
Tu affermi (dici): ‘Ben comprendo quanto ascolto (discerno ciò ch’i’ odo); ma m’è arcano (occulto) perché Dio abbia voluto (volesse) redimerci in tal maniera (a nostra redenzion pur questo modo)’.
Difatti all’Alighieri non è ancor del tutto chiara la scelta di redenzione optata dall’Eterno.
Questo decreto, frate, sta sepulto | |
a li occhi di ciascuno il cui ingegno | |
60 | ne la fiamma d’amor non è adulto. |
Questo decreto celeste, fratello (frate), resta celato agli (sta sepulto a li) occhi di tutti coloro (ciascuno) il cui intelletto (ingegno) non sia cresciuto (è adulto) nella fiamma della carità (d’amor).
Veramente, però ch’a questo segno | |
molto si mira e poco si discerne, | |
63 | dirò perché tal modo fu più degno. |
Ciò nondimeno (Veramente), dato che riguardo a codest’argomentazione (però ch’a questo segno) si tratta (mira) molto e poco si conclude (discerne), t’illustrerò (dirò) perché tal modo fu più idoneo (degno).
Verosimilmente Beatrice intende dire che in molti s’arrovellarono su questioni ancor irrisolte.
La divina bontà, che da sé sperne | |
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla | |
66 | sì che dispiega le bellezze etterne. |
La bontà divina, che da sé respinge qualsivoglia sentimento d’invidia (sperne ogne livore), ardendo in sé, tanto sprizza scintille (sfavilla sì), da irradiare (dispiega) per l’intero creato la sua beltà senza tempo (le bellezze etterne).
La carità viene dipinta in una sorta di sublime autocombustione avvolgente il tutto.
Ciò che da lei sanza mezzo distilla | |
non ha poi fine, perché non si move | |
69 | la sua imprenta quand’ ella sigilla. |
Ciò che da lei è direttamente (sanza mezzo) originato (distilla) è immortale (non ha poi fine), perché la sua impronta (imprenta), una volta posta a suggello (quand’ ella sigilla) divien inamovibile (non si move).
Imprimendosi in ciò ch’ella stessa crea, quanto viene alla luce automaticamente gode d’immortalità.
Ciò che da essa sanza mezzo piove | |
libero è tutto, perché non soggiace | |
72 | a la virtute de le cose nove. |
Ciò che dalla stessa (essa) direttamente proviene (piove) è totalmente (tutto) libero, perché non assoggettato (soggiace) all’influenza dei Cieli (a la virtute de le cose nove).
Quanto nasce dalla mano di Dio non è sottoposto a secondaria influenza celeste.
Più l’è conforme, e però più le piace; | |
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia, | |
75 | ne la più somigliante è più vivace. |
Quanto più una creatura è conforme alla bontà divina, tanto più è ad essa prediletta (Più l’è conforme, e però più le piace); poiché la carità dell’Onnipotente (ché l’ardor santo) che si spande su tutto il creato (ch’ogne cosa raggia), rifulge più vivamente in ciò che più gli somiglia (ne la più somigliante è più vivace).
Trattasi dell’anima razionale della quale già accennato fra il sessantottesimo e il settantacinquesimo verso del venticinquesimo Canto purgatoriale (e sappi che, sì tosto come al feto l’articular del cerebro è perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant’arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un’alma solache vive e sente e sé in sé rigira), nonché alla trentaseiesima terzina del primo Canto di codesta Cantica (Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il qual è fine al quale è fatta la toccata norma).
Di tutte queste dote s’avvantaggia | |
l’umana creatura, e s’una manca, | |
78 | di sua nobilità convien che caggia. |
Gli uomini (l’umana creatura) si giovano (s’avvantaggia) di tutte queste doti, e qualora una d’esse mancasse (s’una manca), essi inevitabilmente decadrebbero (convien che caggia) dai propri privilegi (di sua nobilità).
Le “dote” citate sono rispettivamente l’immortalità (non ha poi fine), la libertà (libero è tutto) e la rassomiglianza al Creatore (Più l’è conforme / più somigliante).
Solo il peccato è quel che la disfranca | |
e falla dissimìle al sommo bene, | |
81 | per che del lume suo poco s’imbianca; |
Solo il peccato ha facoltà di privarlo della libertà (è quel che la disfranca) e di renderlo (falla) dissimile all’Altissimo (al sommo bene), su du lui stingendo la luce della grazia (per che del lume suo poco s’imbianca);
e in sua dignità mai non rivene, | |
se non rïempie, dove colpa vòta, | |
84 | contra mal dilettar con giuste pene. |
ed egli mai sarà in grado di riscattare (rivene) la sua originaria dignità, se non colmando il vuoto solcato dal vizio (rïempie, dove colpa vòta), controbilanciando con corrispettive (giuste) pene che siano in antitesi ai fallaci piaceri (contra mal dilettar).
Vostra natura, quando peccò tota | |
nel seme suo, da queste dignitadi, | |
87 | come di paradiso, fu remota; |
La vostra natura, quando peccò in toto (tota) nel suo progenitore (seme), venne privata (fu remota) dei suddetti benefici (da queste dignitadi) e rimossa dal (di) Paradiso Terrestre;
né ricovrar potiensi, se tu badi | |
ben sottilmente, per alcuna via, | |
90 | sanza passar per un di questi guadi: |
se tu mediti con estrema accortezza (badi ben sottilmente), queste concessioni non potevano esser recuperate (né ricovrar potiensi) in nessun modo (per alcuna via) che non fosse il transitar per uno di questi due passaggi obbligati (sanza passar per un di questi guadi) ovvero:
o che Dio solo per sua cortesia | |
dimesso avesse, o che l’uom per sé isso | |
93 | avesse sodisfatto a sua follia. |
o che Dio, esclusivamente mosso da innata misericordia (solo per sua cortesia), rimettesse (dimesso avesse) ogni peccato, oppure che l’uomo fosse riuscito da sé (per sé isso avesse) ad espiare le proprie colpe (sodisfatto a sua follia).
Ficca mo l’occhio per entro l’abisso | |
de l’etterno consiglio, quanto puoi | |
96 | al mio parlar distrettamente fisso. |
Rivolgi ora accuratamente lo sguardo (Ficca mo l’occhio) nell’illimitata profondità (per entro l’abisso) dei divini decreti (de l’etterno consiglio), per quanto più ti sia possibile (puoi) seguendo passo per passo il mio ragionamento (al mio parlar distrettamente fisso).
Non potea l’uomo ne’ termini suoi | |
mai sodisfar, per non potere ir giuso | |
99 | con umiltate obedïendo poi, |
quanto disobediendo intese ir suso; | |
e questa è la cagion per che l’uom fue | |
102 | da poter sodisfar per sé dischiuso. |
L’uomo mai avrebbe potuto (Non potea), nella sua natura (ne’ termini suoi), emendarsi (sodisfar) dal peccato originale, in quanto non poteva umiliarsi nell’obbedienza (per non potere ir giuso con umiltate obedïendo poi) nella stessa misura in cui s’era issato nel disobbedire (quanto disobediendo intese ir suso); questa l’unica ragione (è la cagion) per la quale ad egli fu preclusa (che l’uom fue dischiuso) la possibilità di porre rimedio da solo (da poter sodisfar per sé) ai propri errori.
All’uomo fu impossibile eguagliare umiltà a superbia.
Dunque a Dio convenia con le vie sue | |
riparar l’omo a sua intera vita, | |
105 | dico con l’una, o ver con amendue. |
Dunque a Dio non restava (convenia) che riabilitare l’umanità alla sua originaria compiutezza esistenziale (riparar l’omo a sua intera vita), dico, attraverso una delle due prerogative, o tramite entrambe (ver con amendue).
Ma perché l’ovra tanto è più gradita | |
da l’operante, quanto più appresenta | |
108 | de la bontà del core ond’ell’è uscita, |
la divina bontà che ’l mondo imprenta, | |
di proceder per tutte le sue vie, | |
111 | a rilevarvi suso, fu contenta. |
Ma essendo che l’azione (perché l’ovra) è tanto più gradita a chi la esegue (da l’operante), quanto meglio concretizza (più appresenta) la bontà del cuore dal quale è fuoriuscita (del core ond’ell’è uscita), al fin di ripristinarvi nella dignità originale (a rilevarvi suso), la celeste carità (divina bontà), che l’universo tutto impronta (’l mondo imprenta), si compiacque di percorrere ambedue le strade (fu contenta di proceder per tutte le sue vie).
La due “vie” sono pietà e giustizia; bontà divina decise di manifestarsi tanto in una, quanto nell’altra.
Né tra l’ultima notte e ’l primo die | |
sì alto o sì magnifico processo, | |
114 | o per l’una o per l’altra, fu o fie: |
Tra la notte del Giudizio (l’ultima) e l’alba della Creazione (’l primo die), mai venne o verrà (Né fu o fie) posto in essere un procedimento (processo) così nobile e munifico (sì alto o sì magnifico), o per l’una o per l’altra via.
ché più largo fu Dio a dar sé stesso | |
per far l’uom sufficiente a rilevarsi, | |
117 | che s’elli avesse sol da sé dimesso; |
poiché il Signore si dimostrò maggiormente caritatevole nel sacrificarsi (ché più largo fu Dio a dar sé stesso), in virtù dell’umano riscatto (per far l’uom sufficiente a rilevarsi), che non s’egli (elli) avesse agito per soggettivo atto di perdono (sol da sé dimesso);
e tutti li altri modi erano scarsi | |
a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio | |
120 | non fosse umilïato ad incarnarsi. |
e nessun altra modalità avrebbe soddisfatto (tutti li altri modi erano scarsi a la) giustizia celeste, se il Cristo (’l Figliuol di Dio) non si fosse umiliato nell’incarnarsi.
La prodigalità del tal atto di bontà, mai avvenne e mai avverrà in nessun tempo, avendo Dio fatto sacrificio del proprio Figlio a favor dell’umanità, valutando che questo fosse criterio in base al quale adempiere all’ultraterrena autorità giudiziaria.
Or per empierti bene ogne disio, | |
ritorno a dichiararti in alcun loco, | |
123 | perché tu veggi lì così com’ io. |
Adesso, per esaudire pienamente ogni tuo desiderio (Or per empierti bene ogne disio), ritorno a precisarti meglio un punto del discorso (dichiararti in alcun loco), affinché ti sia chiaro come lo è per me (perché tu veggi lì così com’ io).
Tu dici: ‘Io veggio l’acqua, io veggio il foco, | |
l’aere e la terra e tutte lor misture | |
126 | venire a corruzione, e durar poco; |
Tu dici: ‘Io vedo (veggio) che l’acqua, vedo il fuoco (foco), l’aria (aere), la terra e tutti i loro composti (tutte lor misture) sono deperibili (venire a corruzione) ed hanno breve durata (e durar poco);
e queste cose pur furon creature; | |
per che, se ciò ch’è detto è stato vero, | |
129 | esser dovrien da corruzion sicure’. |
eppure anche (pur) queste cose furono create dall’Ente Supremo (creature); pertanto (per che), se quanto appena detto corrisponde a verità (se ciò ch’è detto è stato vero), le stesse dovrebbero esser immuni alla deteriorabilità (esser dovrien da corruzion sicure)’.
Senza che Dante abbia proferito parola, Beatrice intercetta ogni suo pensiero, in questo frangente il suo considerare come i quattro elementi siano degradabili e pertanto chiedendosi come ciò sia possibile, essendo gli stessi creati da Dio e in quanto la realtà osservata parrebbe essere in antitesi con quanto affermato dalla sua adorata poco prima nel dichiarar che “sanza mezzo distilla non ha poi fine”.
Li angeli, frate, e ’l paese sincero | |
nel qual tu se’, dir si posson creati, | |
132 | sì come sono, in loro essere intero; |
Le creature angeliche, fratello, e l’immacolata regione in cui ti trovi (Li angeli, frate, e ’l paese sincero nel qual tu se’), si posson dir creati, e tali (sì come) sono, nella completezza (intero) del loro essere;
Il “paese sincero” è il Paradiso.
ma li alimenti che tu hai nomati | |
e quelle cose che di lor si fanno | |
135 | da creata virtù sono informati. |
ma gli elementi da te menzionati (li alimenti che tu hai nomati) ed ogni loro prodotto (e quelle cose che di lor si fanno) prendono forma (sono formati) da una seconda (creata) virtù.
Acqua, fuoco, aria e terra, sebben siano stati creati da Dio, prendono forma da una seconda causa, ovvero l’influenza determinante dei Cieli.
Creata fu la materia ch’elli hanno; | |
creata fu la virtù informante | |
138 | in queste stelle che ’ntorno a lor vanno. |
Creata direttamente da Iddio ne fu la materia primigenia (ch’elli hanno); come creata fu la virtù informativa (informante) in questi astri (stelle) che ruotano intorno ad essi (’ntorno a lor vanno).
Di diretta matrice divina fu anche il principio informatore in questi cieli che girano attorno a quegli elementi e ai loro eventuale derivati.
L’anima d’ogne bruto e de le piante | |
di complession potenzïata tira | |
141 | lo raggio e ’l moto de le luci sante; |
L’anima d’ogni animale, così come quella delle ( d’ogne bruto e de le) piante, viene ricavata (tira) dalla potenzialità complessiva (di complession potenzïata) della materia, dall’irradiazione (lo raggio) e dal moto delle sacre stelle (luci sante);
ma vostra vita sanza mezzo spira | |
la somma beninanza, e la innamora | |
144 | di sé sì che poi sempre la disira. |
Ma il vostro soffio vitale (vostra vita) ve lo alita (spira) dentro direttamente l’eccelsa (somma) benevolenza (beninanza) divina, e la innamora di sé per stimolarle irriducibile desiderio (sì che poi sempre la disira) nei suoi confronti.
È competenza della luce e del moto dei cieli ricavare l’anima sensitiva e quella vegetativa della materia che in potenza è a ciò è preordinata, mentre è la superlativa bontà di Dio ad instillare in presa diretta nell’uomo l’anima intellettiva, facendola infatuare di sé per modo da seminare in lei tenace aspirazione a colui che l’ha sagomata.
E quinci puoi argomentare ancora | |
vostra resurrezion, se tu ripensi | |
147 | come l’umana carne fessi allora |
148 | che li primi parenti intrambo fensi». |
Da tutto questo ti sarà possibile comprendere anche (E quinci puoi argomentare ancora) la resurrezione dei vostri corpi, se ben valuti (ripensi) alla genesi (come fessi) della carne umana quando vennero forgiati (allora che fensi) entrambi (intrambo) i vostri progenitori (li primi parenti).
Beatrice conclude sostenendo che all’Alighieri non sarà ora difficile afferrare il concetto della resurrezione dei corpi, qualora ponderi accuratamente come vennero realizzati quelli di Adamo ed Eva.
Mitologica apertura del successivo Canto reciterà che “Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo…”
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