Divina Commedia: Inferno, Canto XXXIII
Joshua Reynolds (1723-1792), Count Ugolino and his Children in the Dungeon, 1773
Dopo aver peregrinato in zona Caina e giunto a fianco del suo maestro nell’Antenora, il pellegrino ivi scopre il dannato intento a divorare il cranio d’altro peccatore essere il conte pisano Ugolino della Gherardesca il quale, ben certo che il poeta, a maggior ragione riconoscendone l’accento fiorentino, sarà sicuramente a conoscenza dei suoi vissuti, preferisce renderlo partecipe di quella che fu la sua terrificante esperienza di prigionia e conseguente morte.
Dopo subitaneo svelar identità del traditore da lui voracemente addentato, egli prosegue nel delineare una malinconica storia intrecciata di paternità e dispiacere, nel compassionevole rimembrarne che si fa tarlo mentale e perenne condanna al punto che Dante, all’udirne il contenuto, sbotta in adirata invettiva contro la città di Pisa, reputandola feroce assassina d’innocenti, ovvero della figliolanza del conte.
Sull’eco di tal improperio, i due viandanti entrano in zona Tolomea, ove vengono puniti i traditori degli ospiti, sottoposti ad insopportabile dolore oculare dovuto a lacrime ghiacciate che ne devastano i globi e intenso conversar avviene con il genovese Alberigo dei Manfredi, conosciuto come frate Alberigo, con suo accenno all’anima che gli sta dietro, Branca Doria, e spiegazione d’un curioso “vantaggio” caratteristico della Tolomea.
Tra false promesse e vane speranze rimbalzate fra discepolo e peccatore, il Canto si chiude su nuova invettiva dantesca, stavolta diretta ai Genovesi.
Parte dell’esistenza d’Ugolino della Gherardesca è confermata da storici documenti, tuttavia, il merito d’aver gettato indulgente luce sull’orribili condizioni in cui lo stesso, con figlioli e nipoti accolti come figli, passò a miglior vita, spetta unicamente all’Alighieri, forse sospinto da un intimo desiderio di riscattarne la nomea, considerato l’inumano trattamento agli stessi rivolto, come parrebbe evincersi dallo smisurato risvolto paterno adagiato fra terzine, a testimonianza del peggior patimento che un genitore potrebbe provare, ovvero il sopravvivere, anche fosse per un solo istante, alla morte dei figli.
Malgrado ciò, come supposto da taluni studiosi, sembrerebbe improbabile che il conte sia perdurato alla prole, in considerazione dell’età avanzata, quasi per certo ben oltre il settantennio, dunque sinonimo di maggior debolezza e minor resistenza rispetto agli altri quattro ospiti della luttuosa gattabuia.
Dubbio che permarrà funambolo sull’infinito, insieme ad un altro, infilato dall’autore della Commedia come stuzzicante pulce nell’orecchio del mondo, ovverosia che Ugolino della Gherardesca possa essersi cibato dei cadaveri dei propri figli, qualora morti prima di lui.
Ipotesi di cannibalismo che ha solleticato le menti dei più rinomati dantisti, così come quelle degli appassionati lettori del poema e che il fiorentin verseggiatore, come innato in lui, ha saputo rimare ad inchiostro in un arcano supporre, tutt’altro che decifrabile, a partire dalla primissima visione proposta d’un dannato in vorace accanirsi sulle cervella del malcapitato, fino al rassegnato e sconvolto suo affermar “più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, quasi un flebile latrato rimbalzante fra oscure mura turrite e glacial superficie d’oltretomba.
Intrigante e particolare apporto alla questione è riportato fra le avvincenti pagine di Nove saggi danteschi, il saggio pubblicato, nel 1982, dello scrittore, traduttore, saggista, poeta, filosofo ed accademico argentino Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (1899-1986), al cui interno egli si dona in personale interpretazione delle ugoliniane vicissitudini, nelle stesse leggendovi una voluta enigmaticità da parte del rimatore toscano, acuto giocoliere fra dubbi sparpagliati fra le righe e certezze da velare, di versetto in versetto, di Cantica in Cantica, di secolo in secolo.
La bocca sollevò dal fiero pasto | |
quel peccator, forbendola a’ capelli | |
3 | del capo ch’elli avea di retro guasto. |
Il peccatore interpellato (quel peccator) solleva (sollevò) la bocca dal barbaro (fiero) pasto, pulendosela con i capelli (forbendola a’ capelli) del capo ch’egli ha sbranato nella parte posteriore (ch’elli avea di retro guasto).
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli | |
disperato dolor che ’l cor mi preme | |
6 | già pur pensando, pria ch’io ne favelli. |
Poi, inizia (cominciò) a parlare: “Tu desideri ch’io rinnovi lo straziante dolore che mi pesa sul cuore (vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme) al sol ripensarci (già pur pensando), ancor prima di raccontarne (pria ch’io ne favelli).
L’affermazione del dannato riaggancia un passo dell’Eneide sulla difficoltà di Enea nel soddisfare espressa richiesta della di lui innamorata Didone; la mitologica regina fenicia, fondatrice di Cartagine, lo sollecita infatti al raccontarle le sciagure di Troia ed il suo lungo errabondare, domanda alla quale l’eroe greco risponde con estrema sofferenza: “Infandum, regina, iubes renovare dolorem” – “Tu m’intimi, regina, di rinnovare un dolore indescrivibile”.
Ma se le mie parole esser dien seme | |
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, | |
9 | parlare e lagrimar vedrai insieme. |
Ma se le mie parole potranno essere (esser diem) seme che frutti infamante nomea (infamia) al traditore che sto divorando (traditor ch’i’ rodo), mi vedrai parlare e piangere (lagrimar) nello stesso momento (insieme).
Asserzione rimembrante l’amareggiate parole di Francesca, in triste eco quarantatreesima terzina del quinto Canto dell’Inferno: “Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice”.
Similitudine di testimonianze che, tuttavia, differisce nettamente nel rapporto del vorace spirito con la sua vittima, visceralmente detestata e costante stimolo sull’istinto di vendetta; al contrario, il cruccio di Enea e Francesca, derivava dall’acceso ed intimo ardore nei confronti, rispettivamente, della propria città e dell’uomo amato.
Io non so chi tu se’ né per che modo | |
venuto se’ qua giù; ma fiorentino | |
12 | mi sembri veramente quand’io t’odo. |
In non so chi tu sia (se’), tantomeno in (né per) che modo tu sia giunto quaggiù (venuto se’ qua giù); ma all’ascoltarti parlare (quand’io t’odo) mi sembri certamente (veramente) fiorentino.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, | |
e questi è l’arcivescovo Ruggieri: | |
15 | or ti dirò perché i son tal vicino. |
Tu devi sapere (dei saper) ch’io (i’) fui conte Ugolino, e costui (questi) è l’arcivescovo Ruggieri: ora (or) ti dirò perché gli sono (i son) compagno in questa maniera (tal vicino) così ferina.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, | |
fidandomi di lui, io fossi preso | |
18 | e poscia morto, dir non è mestieri; |
però quel che non puoi avere inteso, | |
cioè come la morte mia fu cruda, | |
21 | udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso. |
Narrar (dir) di come a conseguenza delle sue malvagie congetture (Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri), fidandomi di lui, venni catturato ed in seguito morii ( io fossi preso e poscia morto), è irrilevante (non è mestieri); pertanto (però) apprenderai ciò che ancor t’è ignoto (quel non puoi aver inteso), indi valuterai s’egli (e saprai s’e’) m’ha offeso.
Ugolino sa esser la sua storia ampiamente conosciuta, ritenendo pertanto uno spreco di tempo il parlarne, preferendo invece concentrare la propria esposizione sulle disumane condizioni in cui attese la morte.
Breve pertugio dentro da la Muda, | |
la qual per me ha ’l titol de la fame, | |
24 | e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, |
m’avea mostrato per lo suo forame | |
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno | |
27 | che del futuro mi squarciò ’l velame. |
Una ristretta feritoia nella torre della (Breve pertugio dentro da la) Muda, che, per mia esperienza fu la torre della (la qual per me ha ’l titol de la) fame, e nella quale sarebbe opportuno venisse rinchiuso ancora qualcuno (e che conviene ancor ch’altrui si chiuda), già m’aveva (m’avea) mostrato, tramite la sua minuscola apertura (per lo suo forame), più lunazioni (lune), dunque mesi, quand’io feci un sogno sinistro (’l mal sonno), che mi anticipò il (squarciò ’l velame del) futuro.
La “Muda” era come veniva appellata l’antica torre medievale dei Gualandi alle Sette Vie, nella provincia di Pisa e parrebbe che l’epiteto conferitole derivasse dal fatto che, in epoche passate, all’interno della stessa venissero segregate le aquile allevate dal comune pisano, durante la fase di muta delle penne; per Ugolino, nella Commedia, e per i posteri, nella realtà, il nomignolo “torre della fame” venne ad originarsi in seguito alla morte per inedia dello stesso.
Questi pareva a me maestro e donno, | |
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte | |
30 | per che i Pisan veder Lucca non ponno. |
Ruggieri (Questi) mi appariva in sogno come signore della caccia (pareva a me maestro e donno) nell’atto d’inseguire (cacciando) il lupo ed i lupacchiotti (’ lupicini) sul (al) monte a causa del quale i pisani non possono vedere (per che i Pisan veder non ponno) Lucca.
Trattasi del monte Pisano, o Monti Pisani, sistema montuoso del Subappennino Toscano, situato fra Lucca e Pisa.
Con cagne magre, studïose e conte | |
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi | |
33 | s’avea messi dinanzi da la fronte. |
In prima linea (dinanzi da la fronte) aveva collocato (s’avea messi) Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, con cagne scarne, accorte ed addestrate (magre, studïose e conte).
I Gualandi, i Sismondi ed i Lanfranchi, furono tre fra le più antiche ed influenti famiglie ghibelline della città.
In picciol corso mi parieno stanchi | |
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane | |
36 | mi parea lor veder fender li fianchi. |
A seguito d’una breve corsa (In picciol corso) il (lo) padre ed i figli mi sembravano (parieno) stanchi, e mi pareva di vedere (mi parea veder) le acute zanne addentarli ai (l’agute scane lor fender li) fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane, | |
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli | |
39 | ch’eran con meco, e dimandar del pane. |
Una volta risvegliatomi (Quando fui desto), prima dell’albeggiare (innanzi la dimane), udii piangere nel sonno i miei figlioli (pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli), ch’erano con me (meco), e chiedere (dimandar) del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli | |
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; | |
42 | e se non piangi, di che pianger suoli? |
Sei alquanto meschino (Ben se’ crudel) se non ti addolora (se tu già non ti duoli) pensar a quanto si profetizzava al mio cuore (pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava); e se non piangi, allor per quali ragioni sei solito piangere (di che pianger suoli)?
Già eran desti, e l’ora s’appressava | |
che ’l cibo ne solëa essere addotto, | |
45 | e per suo sogno ciascun dubitava; |
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto | |
a l’orribile torre; ond’io guardai | |
48 | nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. |
Gia s’eran risvegliati (eran desti), e s’avvicinava (l’ora s’appressava) l’orario in cui solitamente veniva portato il cibo; anche se, a causa del sogno d’ognuno (e per suo sogno) ciascun ne dubitava; ed io sentii chiudere a chiave la porta sotto la terribile (io senti’ chiavar l’uscio a l’orribile) torre; pertanto io osservai in (nel) viso i miei figlioli (a’ mie’ figliuoi) senza parlare (sanza far motto).
Io non piangëa, sì dentro impetrai: | |
piangevan elli; e Anselmuccio mio | |
51 | disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”. |
Io non piangevo dal tanto ch’ero impietrito nell’animo (Io non piangëa, sì dentro impetrai): piangevano loro (piangevan elli); e il mio Anselmuccio disse: ‘Tu ci osservi in un modo (Tu guardi sì), padre! cosa ti succede (che hai)?
Anselmuccio in realtà fu un nipote del conte, ch’egli prese in carico come figlio; era il più piccino, all’epoca probabilmente quindicenne.
Perciò non lagrimai né rispuos’io | |
tutto quel giorno né la notte appresso, | |
54 | infin che l’altro sol nel mondo uscìo. |
Perciò non piansi e nemmeno risposi (non lagrimai né rispuos’io) per tutto quel giorno né la notte seguente (appresso), fino a che l’altro sole (sol) non spuntò (uscio) nel mondo.
Come un poco di raggio si fu messo | |
nel doloroso carcere, e io scorsi | |
57 | per quattro visi il mio aspetto stesso, |
ambo le man per lo dolor mi morsi; | |
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia | |
60 | di manicar, di sùbito levorsi |
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia | |
se tu mangi di noi: tu ne vestisti | |
63 | queste misere carni, e tu le spoglia’. |
E non appena un flebile raggio penetrò all’interno della dolente prigione (Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere), ed io riconobbi (scorsi) nei (per) quattro volti (visi) il mio medesimo (stesso) aspetto smilzo, per la disperazione (lo dolor) mi morsi entrambe (ambo) le mani; ed essi (ei), credendo io lo facessi per brama di mangiare (pensando ch’io ’l fessi per voglia di manicar), immediatamente (di sùbito) s’alzarono in piedi (levorsi) e dissero (disser): ‘Padre, ci darebbe decisamente meno dolore (assai ci fia men doglia) se tu ti cibassi (mangi) di noi: tu ci (ne) vestisti di queste misere carni e tu delle stesse spogliaci (le spoglia)’.
Queta’ mi allor per non farli più tristi; | |
lo dì e l’altro stemmo tutti muti; | |
66 | ahi dura terra, perché non t’apristi? |
Allor io mi chetai al fin di non rattristarli ulteriormente (Queta’ mi allor per non farli più tristi); lo stesso giorno ed il successivo rimanemmo tutti quanti in silenzio (lo dì e l’altro stemmo tutti muti); ahi dura terra, perché non t’apristi?
Lo struggente quesito ricalca quello di Turno, l’antagonista dell’eroe greco Enea, riportato nel decimo libro dell’Eneide: quale terra si può aprire tanto addentro per ingollarmi (quae iam satis ima dehiscat, terra mini)?
Poscia che fummo al quarto dì venuti, | |
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, | |
69 | dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’. |
Una volta giunti al quarto giorno (Poscia che fummo al quarto dì venuti), Gaddo mi si gettò (gittò) disteso ai (a’) piedi, dicendo: ‘Padre mio, perché (che) non m’aiuti?
Gaddo era il quarto figlio di Ugolino, presumibilmente trentenne.
Quivi morì; e come tu mi vedi, | |
vid’io cascar li tre ad uno ad uno | |
72 | tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, |
già cieco, a brancolar sovra ciascuno, | |
e due dì li chiamai, poi che fur morti. | |
75 | Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno». |
Quindi perì (Quivi morì); e come tu vedi me (mi vedi), io vidi gli altri tre cader un dopo l’altro (vid’io cascar li tre ad uno ad uno) fra il quinto ed il sesto giorno (tra ’l quinto dì e ’l sesto); dunque io (ond’io), ormai (già) cieco, andai a tentoni (mi diedi a brancolar) sopra ognuno di loro (sovra ciascun), chiamandoli per due giorni dopo la loro morte (e due dì li chiamai, poi che fur morti). Poi (Poscia) il digiuno ebbe la meglio sulla sofferenza (più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno)”.
Il patrizio Ugolino della Gherardesca (1210 circa-1289), politico e conte di Donoratico, livornese frazione di Castagneto Carducci, ebbe natali in quel di Pisa all’interno d’un’antica casata di convinta ideologia ghibellina.
Acuta capacità politica e privilegi dinastici, ne permisero l’estensione delle feudali proprietà in più parti del territorio costiero toscano e siculo, lui arrivando a rimbalzare più volte fra le due contrapposte fazioni in conseguenza alle numerose diatribe con il Comune ghibellino pisano, indi patteggiando oculatamente con gli avversari dello stesso e spesso favorendone l’abbattimento delle salvaguardie; a favor d’estensione di territori giovò alla causa il matrimonio del suo primogenito, Guelfo della Gherardesca, con la figlia del re Enzo di Sardegna.
Dopo anni di clandestini intrighi con la parte guelfa, nel 1285 Ugolino venne nominato podestà di Pisa per una decade e capitano del popolo per un biennio; in quel lasso di tempo, cessione a Lucca di quattro fortezze ed a Firenze dei fortilizi di Ripafratta, Viareggio e Bientina, venne ritenuta dallo stesso la miglior tattica per disciogliere le tensioni con le medesime cittadine.
Qualche anno prima, ovvero nel 1278/79, il ghibellino Ruggieri degli Ubaldini della Pila (?-1295) aveva ricevuto nomina ad arcivescovo di Pisa, periodo d’accesi scontri politico-religiosi, fra questi il crescente disaccordo che s’era venuto a creare fra lo stesso Ugolino ed il nipote Ugolino Visconti (1265-1298), detto “Nino”, signore del giudicato di Gallura ed inizialmente, dal 1286, in associazione al progenitore nella gestione governativa della città, con conseguente ricompattamento della guelferia pisana.
Due anni innanzi, il declino della cittadina come potenza marinara, ch’era conseguito alla decisa disfatta della sua flotta, per mano della Repubblica di Genova, nella battaglia della Meloria dell’agosto 1284, fu l’ideale pretesto, per Ruggieri, d’accusare Ugolino d’errate manovre militari, frapponendosi allo stesso tempo nei dissidi fra nonno e nipote, riuscendo ad instillar nella sua mente il sospetto che Nino tramasse alle spalle del proprio avo e quindi riuscendo, con approvazione del conte, a scacciare Visconti, nel 1288, tramite popolare insurrezione.
Certo d’aver ben riposto fiducia nell’arcivescovo, Ugolino giunse in città completamente rasserenato, ovviamente inconsapevole delle vesti da traditore con le quali Ruggieri lo aveva nel frattempo denunciato al popolo, appellandosi al suo aver ceduto le rocche succitate, affibbiando alla vittima del suo inganno una taglia sulla testa, oltre che disporre l’attacco al palazzo dei Gherardeschi ed infine arrestando ed imprigionando Ugolino ed alcuni suoi consanguinei, nella speranza di rianimare la fazione ghibellina della città.
Una volta recluso nella famigerata torre della Muda, al conte fu richiesto il pagamento, in tre giorni appena, dell’ingente somma di denaro corrispondente alla taglia disposta sul suo capo, pena la privazione di nutrimento ed abbeveraggio, secondi i vigenti termini di legge; dopo alcuni pagamenti portati a buon fine grazie all’impegno di amici e parenti, alla prima mancanza, la porta della torre venne chiusa definitivamente a colpi di chiodi, in principio marzo 1289.
Alla riapertura avvenuta poco dopo la metà del medesimo mese, le mura consegnarono alla vista i consumati e macabri resti due suoi sfortunati ospiti, sciaguratamente periti tra fame ed arsura.
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti | |
riprese ’l teschio misero co’ denti, | |
78 | che furo a l’osso, come d’un can, forti. |
Al termine del suo discorso (Quand’ebbe detto ciò), torcendo gli occhi (con li occhi torti), riprese ad azzannare (riprese) il (’l) misero teschio con i (co’) denti, il cui effetto sull’osso fu il medesimo di quelli dei cani, aguzzi (che furo a l’osso, come d’un can, forti).
Ahi Pisa, vituperio de le genti | |
del bel paese là dove ‘l sì suona, | |
81 | poi che i vicini a te punir son lenti, |
muovasi la Capraia e la Gorgona, | |
e faccian siepe ad Arno in su la foce, | |
84 | sì ch’elli annieghi in te ogne persona! |
La mente dell’Alighieri viene attraversata da una concitata invettiva contro Pisa: Ahi Pisa, vergogna del popolo d’Italia (vituperio de le genti del bel paese), là dove risuona il sì (‘l sì suona), in quanto i vicini son pigri a punirti (poi che i vicini a te punir son lenti), possan muoversi (muovasi) la Capraia e la Gorgona, e divenire ingorgo alla foce dell’(faccian siepe in su la foce ad) Arno, affinch’esso possa annegare ogni tuo abitante (sì ch’elli annieghi in te ogne persona)!
La Capraia e la Gorgona sono entrambe isole dell’arcipelago toscano, situate tra la bocca dell’Arno e l’isola d’Elba.
Che se ’l conte Ugolino aveva voce | |
d’aver tradita te de le castella, | |
87 | non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. |
Giacché se anche il (Che se ’l) conte Ugolino era reputato colpevole d’averti tradito (aveva voce d’aver tradita te) cedendo dei castelli (de le castella), tu non avresti dovuto sottomettere a tanto crudele destino i tuoi figlioli (non dovei tu i figliuoi porre a tal croce).
Secondo le correnti voci dell’epoca, Ugolino avrebbe ceduto alcune roccaforti a Firenze e Lucca, allo scopo di scemare la pressione militare delle stesse.
Innocenti facea l’età novella, | |
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata | |
90 | e li altri due che ’l canto suso appella. |
O novella Tebe, la tenera (novella) età rendeva innocenti Uguiccione e il (’l) Brigata, più gli (e li) altri due appena nominati dal canto sopra (che ’l canto suso appella), quindi Anselmuccio e Gaddo.
Il richiamo a Tebe, paragonata alla cittadina pisana per efferatezza d’eventi, rimembra la quarta terzina del precedente canto, nell’iniziale invocazione alle Muse: “Ma quelle donne aiutino il mio verso ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso”
Uguccione fu il quinto figlio di Ugolino, mentre Nino, soprannominato “il Brigata”, fu anch’esso nipote del conte, figlio del di lui primogenito Guelfo Della Gherardesca (XIII sec.-1295) e fratello maggiore di Anselmuccio.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata | |
ruvidamente un’altra gente fascia, | |
93 | non volta in giù, ma tutta riversata. |
I due viandanti proseguono (Noi passammo) oltre, verso la terza zona del Cocito, la Tolomea, là dove la superficie ghiacciata (’ve la gelata) crudelmente avvinghia altri peccatori (ruvidamente un’altra gente fascia), non più in piedi ed a capo chino (non volta in giù), ma completamente supini (tutta riservata).
Lo pianto stesso lì pianger non lascia, | |
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, | |
96 | si volge in entro a far crescer l’ambascia; |
ché le lagrime prime fanno groppo, | |
e sì come visiere di cristallo, | |
99 | rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo. |
Il pianto stesso non permette loro di piangere (Lo pianto stesso lì pianger non lascia), e l’afflizione che trova impedimento negli occhi negli occhi (e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo) si rivolge dentro ad accrescer lo spasimo (si volge in entro a far crescer l’ambascia), poiché le prime lacrime (lagrime) formano un groviglio (fanno groppo), e così (sì), come visiere di cristallo, colmano l’intera cavità oculare (rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo).
La pena dei dannati in Tolomea, con solamente il volto al di fuori del ghiaccio, prevede che il loro pianto si geli sull’istante per effetto del vento prodotto dalle ali di Lucifero, in maniera da impedire successive lacrimazioni che, sull’originarsi, immediatamente si raggelano, intensificando il disumano tormento oculare e quello interiore.
E avvegna che, sì come d’un callo, | |
per la freddura ciascun sentimento | |
102 | cessato avesse del mio viso stallo, |
già mi pareva sentire alquanto vento, | |
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move? | |
105 | non è qua giù ogne vapore spento?». |
E nonostante (avvegna che), come avviene nelle zone callose de corpo (sì come d’un callo), a causa del gelo (per la freddura) il volto di Dante abbia perso qualsiasi sensibilità (cessato avesse del mio viso stallo), al poeta sembra di percepire una sorta di (già mi pareva sentire alquanto) vento, ed il che lo porta a chiedere (per ch’io) al suo Maestro chi ne sia il fautore (Maestro mio, questo chi move?), essendo che nel regno infernale è impossibile il registrarsi di eventi atmosferici (non è qua giù ogne vapore spento?).
Il fatto che non ci possa essere vento nel regno infernale, si deve all’assenza della sfera celeste che, secondo teorie appartenenti al periodo medievale, era l’originaria molla scaturente qualsiasi evento atmosferico. Verrebbe quindi da chiedersi come mai lo stesso non si sia stupito come stavolta di fronte alle precedenti bufere, piogge o similari, da lui spesso riportate e l’ipotetica spiegazione sta nel fatto che l’inattuabilità d’eventi climatici alla quale si riferisce il pellegrino non riguardi i precedenti, in quanto gli stessi conseguenze dirette della giustizia divina, quindi da lui visionati, ma non percepiti fisicamente, a differenza di codesta folata, sentita a fil di pelle, poiché di differente origine, come verrà svelato nel prossimo Canto.
Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove | |
di ciò ti farà l’occhio la risposta, | |
108 | veggendo la cagion che ’l fiato piove». |
Virgilio risponde dicendo al suo protetto (Ond’elli a me) che prestotempo (Avaccio) si troverà nel luogo dove la vista fornirà risposta al suo quesito (sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta), vedendo egli stesso la ragione per la quale soffia quell’aria (veggendo la cagion che ’l fiato piove) glaciale.
E un de’ tristi de la fredda crosta | |
gridò a noi: «O anime crudeli | |
111 | tanto che data v’è l’ultima posta, |
levatemi dal viso i duri veli, | |
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, | |
114 | un poco, pria che ’l pianto si raggeli». |
E uno dei peccatori (un de’ tristi) imprigionati nel ghiaccio (da la fredda crosta) grida ai due peregrini: “O anime meschine (crudeli) al punto d’esser state relegate all’ultimo Cerchio (tanto che data v’è l’ultima posta), toglietemi dal volto i duri strati ghiacciati (levatemi dal viso i duri veli), in maniera da farmi spurgare un poco la sofferenza che mi preme sul cuore (sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna), prima che le lacrime si congelino di nuovo (pria che ’l pianto si raggeli).
Essendo impossibilitato a vedere, lo spirito crede che i due poeti siano anime destinate al Cocito.
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, | |
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, | |
117 | al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». |
Pertanto il discepolo gli risponde (Per ch’io a lui) che s’egli desidera essere da lui soccorso (Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna), dovrà dichiarare la propria identità (dimmi chi se’), aggiungendo che se lui stesso non manterrà promessa d’aiutarlo (e s’io non ti disbrigo), che possa vedersi obbligato a discendere nel fondo del gelido pozzo.
L’Alighieri, nel promettere ciò che non manterrà, gioca in un certo senso d’astuzia, ben sapendo di dover comunque procedere il proprio viaggio in discesa al Cocito e contemporaneamente non ritenendo la non mantenuta promessa nei confronti di un dannato una grave mancanza, al contrario, un pieno rispetto nei confronti del voler di Dio.
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; | |
i’ son quel da le frutta del mal orto, | |
120 | che qui riprendo dattero per figo». |
L’anima risponde dunque rivelando (Rispuose adunque) d’esser (I’ son) frate Alberigo; d’esser (I’ son) quello della frutta dell’orto maligno (quel da le frutta del mal orto), che nel Cocito riceve pan per focaccia (qui riprendo dattero per figo).
Alberigo dei Manfredi (1240-1307), alias frate Alberigo, appartenente all’ordine dei Frati Gaudenti, o Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria, ossia un ordine militare ed ospedaliero nato nel XIII secolo, fu componente d’un’importante famiglia guelfa di Faenza. Il nomignolo di “quel da le frutta del mal orto” gli venne affibbiato in quanto lo stesso, dopo aver invitato a pranzo fratello e nipote, tali Manfredo ed Alberghetto, diede ordine alla servitù, con sarcastica battuta “Vengano le frutta!”, di cibarsene come portata in sostituzione alla stessa, per vendicarsi dello schiaffo ricevuto dallo stesso Alberghetto.
Secondo il frate, la pena a lui destinata supera di gran lunga la colpa commessa, ecco dunque poich’egli sostiene di ricever “dattero per figo”, appunto perché, ai tempi, i datteri venivano considerati di gran lunga più prestigiosi dei fichi.
«Oh», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?» | |
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea | |
123 | nel mondo sù, nulla scïenza porto. |
Dante gli manifesta (diss’io lui) estremo stupore nell’apprendere che sia già morto (Oh, or se’ tu ancor morto?). E lo stesso gli risponde (Ed elli a me) di non aver la minima idea riguardo a quali possano essere le condizioni del suo corpo in terra (Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto).
In effetti, nel 1300, quindi nell’anno in cui l’autore della Commedia datò il suo viaggio, Alberigo era ancora vivente ed è probabile che il fiorentin verseggiatore, ben sapendolo, abbia escogitato il peculiare stratagemma del vantaggio in Tolomea, non solamente con il frate, per condannare personalità a lui fortemente in antitesi.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea, | |
che spesse volte l’anima ci cade | |
126 | innanzi ch’Atropòs mossa le dea. |
Egli poi spiega aver la zona Tolomea (questa) tale vantaggio (cotal vantaggio), ovvero che, frequentemente (spesse volte) l’anima vi precipita (ci cade) ancor prima che Atropo abbia proposto fine alla sua vita terrena (innanzi ch’Atropòs mossa le dea).
Nella mitologia greca, Atropo era una delle tre Moire, le romane Parche, le tessitrici della vita che, al momento della nascita, decidevano la sorte d’ogni persona: a Cloto il compito di tenere il filo per la tessitura dell’arco vitale; Lachesi arrotolava il filo del destino sul fuso previsto ed infine Atropo lo tagliava nel giorno di fine vita.
E perché tu più volontier mi rade | |
le ’nvetrïate lagrime dal volto, | |
129 | sappie che, tosto che l’anima trade |
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto | |
da un demonio, che poscia il governa | |
132 | mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto. |
Lo spirito prosegue dicendo al poeta che affinché lo stesso sia maggiormente bendisposto (E perché tu più volontier) a raschiargli (mi rade) le cristallizzate lacrime dal viso (le ’nvetrïate lagrime dal volto), sappia (sappia) che, non appena (tosto che) l’anima si macchia di tradimento (trade) come capitò a lui di fare (fec’ïo), il suo corpo le viene levato (l’è tolto) da un demonio, che dà lì in poi lo (poscia il) governa per la totalità del tempo che gli rimane da vivere (mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto).
Ella ruina in sì fatta cisterna; | |
e forse pare ancor lo corpo suso | |
135 | de l’ombra che di qua dietro mi verna. |
L’anima capitombola in questo pozzo satanico (Ella ruina in sì fatta cisterna); e parrebbe sia ancor in terra (e forse pare ancor suso) anche il corpo dello spirito che gli pigola alle spalle (de l’ombra che di qua dietro mi verna).
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: | |
elli è ser Branca Doria, e son più anni | |
138 | poscia passati ch’el fu sì racchiuso». |
Il pellegrino lo deve sapere (’l dei saper), s’è qui da poco giunto (tu vien pur mo giuso): egli è messer (elli è ser) Branca Doria, e sono già passati svariati anni da quando venne in tal modo imprigionato (son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso).
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; | |
ché Branca Doria non morì unquanche, | |
141 | e mangia e bee e dorme e veste panni.» |
Dante gli risponde (diss’io lui) di creder che il frate lo stia ingannando (Io credo che tu m’inganni); poiché (ché) Branca Doria non è affatto morto (non morì unquanche), al contrario lo stesso ancor mangia e beve (bee) e dorme e s’abbiglia (veste panni).
Branca Doria (1233-1325) fu nobile gentiluomo genovese, di fede ghibellina, che, attorno al 1275, poco dopo la morte del re Enzo di Sardegna (1220-1272), o di Svevia, nell’intento di levare il giudicato di Loguodoro al suocero Michele Zanche, dopo averlo invitato a cena lo dilaniò.
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche, | |
là dove bolle la tenace pece, | |
144 | non era ancora giunto Michel Zanche, |
che questi lasciò il diavolo in sua vece | |
nel corpo suo, ed un suo prossimano | |
147 | che ’l tradimento insieme con lui fece. |
In tutta risposta, Alberigo spiega (diss’el) al discepolo che nella quinta Bolgia di (Nel fosso sù de’) Malebranche, là dove ribolle la viscosa (bolle la tenace) pece, ancor non era arrivato (giunto) Michele (Michel) Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel di lui corpo (corpo suo), ed un suo parente prossimo (prossimano) che, insieme a (con) lui, compì (fece) il (’l) tradimento.
Di Michele Zanche, signore di Logudoro, già accennò il Navarrese nella trentesima terzina del ventiduesimo Canto dell’Inferno: “Usa con esso donno Michele Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue l’ormone si sentono stanche”.
Ma distendi oggimai in qua la mano; | |
aprimi li occhi.» E io non gliel’apersi; | |
150 | e cortesia fu lui esser villano. |
“Ma ormai (oggimai)” – continua – “distendi la mano verso di me (in qua); aprimi gli occhi”. E il poeta non glieli apre (io non gliel’apersi); ritenendo l’esser sfacciato una garbatezza nei confronti del frate (cortesia fu lui esser villano).
Ahi Genovesi, uomini diversi | |
d’ogne costume e pien d’ogne magagna, | |
153 | perché non siete voi del mondo spersi? |
In seconda filippica, l’Alighieri: Ahi genovesi, uomini lontani (diversi) da ogni rettitudine (d’ogne costume) e colmi d’ogni dissolutezza (pien d’ogne magagna), perché voi non venite (siete) scacciati (spersi) dal (del) mondo?
Ché col peggiore spirto di Romagna | |
trovai di voi un tal, che per sua opra | |
156 | in anima in Cocito già si bagna, |
Difatti trovando io (Ché trovai), insieme al peggior (col peggiore) spirito di Romagna, un tale (tal), dei vostri (di voi), che, a conseguenza d’una sua stessa azione (per sua opra), già si gela (bagna) l’anima ne Cocito,
157 | e in corpo par vivo ancor di sopra. |
mentre nel (e in) corpo appare ancor vivente in terra (par vivo ancor di sopra).
Il “peggiore spirto di Romagna” è ovviamente riferito ad Alberigo, e il “tal” è Branca Doria.
In alzata di sipario sul penultimo Canto infernale, Virgilio avverte il proprio protetto dell’imminemte giungere dei “Vexilla regis”…
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.