Divina Commedia: Inferno, Canto XXXII

Maschera di Dante, Anonimo, XIX secolo, Bodleian Libraries, University of Oxford
Nel dubbio di non riuscire degnamente nell’impresa di scrivere del nono Cerchio infernale, l’Alighieri, in apertura di Canto, invoca le Muse nella speranza di trovare un linguaggio proporzionatamente mordace ed adeguato alla descrizione del punto più profondo dell’infernale regno.
Da poco ivi posato con il suo maestro dal gigante Anteo, la sua visione s’apre sulle teste dei dannati, anime dei traditori che scontano la loro pena immersi nel lago ghiacciato Cocito, che, secondo la concezione dantesca, è suddiviso in quattro zone concentriche denominate rispettivamente Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca, nella prima delle quali vengono puniti i traditori dei parenti e, a seguire, i traditori della patria, i traditori degli ospiti ed infine, poco prima della parte centrale in cui si trova Lucifero, i traditori dei benefattori.
In ogni zona, le prime due delle quali verranno visitate in codesto Canto, vengono relegati i dannati in base ai peccati commessi ed ogni area porta in capo il nome d’un evento storico, biblico o mitologico:
– la Caina richiama la biblica narrazione di Caino ed Abele;
– l’Antenora aggancia medievale leggenda secondo la quale il principe troiano Antenore si sarebbe reso colpevole di tradimento nei confronti della città di Troia per aver aperto la porta del famoso cavallo ed aver dunque contribuito al furto del Palladio (la scultura lignea posta a protezione della città) ad opera degli eroi achei Ulisse e Diomede;
– la Tolomea potrebbe riferirsi sia al faraone egizio Tolomeo Filòpatore Filadelfo, conosciuto come Tolomeo XIV (59/61 a.C.-44 a.C.), i cui consiglieri uccisero a tradimento Gneo Pompeo Magno (106 a.C.-48 a.C.), oppure al governante palestinese Tolomeo di Gerico, assassino del suocero Simone Maccabeo e di due dei suoi tre figli, Giuda e Mattatia, in quanto uno degli stessi, Giovanni Ircano, si salvò dalla letale presa dei sicari.
– la Giudecca aggancia l’apostolo Giuda Iscariota, celeberrimo traditore di Gesù.
I primi due peccatori incontrati dal pellegrino in zona Caina, a lui indicati da Camicione dei Pazzi, sono i fratelli fratricidi Napoleone e Alessandro, conti di Mangona, a seguire lo spirito rivela rispettivamente le identità del cavaliere Mordrec, di Vanni dei Cancellieri, detto “Focaccia” e di Sassolo Mascheroni in chiusura della prima zona.
In passaggio nell’Antenora, Dante sbatte contro la testa di un dannato e la scena seguente si fa palco in cui il poeta manifesta violenza d’atteggiamento nel prendere per i capelli Bocca degli Abati, colui che fu determinante per la sconfitta dei fiorentini nella battaglia di Montaperti.
All’insolito reagire del pellegrino fa d’amplificatore l’irruente e caustico tono di voce dello stesso Bocca che, com’è tipico dei traditori, repentinamente trasla le accuse su altri traditori della patria da lui dichiarati nelle persone di Buoso da Dovera, Tesauro dei Beccheria, Tebaldello dei Zambrasi, Gano di Maganza, Gianni dei Soldanieri.
A far da silente sfondo, per la prima ed unica volta nell’intera cantica infernale, è il totale mutismo di Virgilio che si srotola sulla totalità delle terzine, in tal modo cedendo protagonismo assoluto all’adorato suo discepolo, libero di manifestare la sua astiosa intolleranza nei confronti di coloro che si macchiarono di alto tradimento della patria, esordendo con materiale ed istintiva gestualità solitamente a lui estrinseca, ma testimone di quanto il narratore, l’uomo ed il peregrino miscelino in continuazione le loro sfumature in un’unica persona, fra terra e cielo.
La Divina Commedia di Gustave Doré, 1991
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, | |
come si converrebbe al tristo buco | |
3 | sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, |
io premerei di mio concetto il suco | |
più pienamente; ma perch’io non l’abbo, | |
6 | non sanza tema a dicer mi conduco; |
ché non è impresa da pigliare a gabbo | |
discriver fondo a tutto l’universo, | |
9 | né da lingua che chiami mamma o babbo. |
Ma quelle donne aiutino il mio verso | |
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, | |
12 | sì che dal fatto il dir non sia diverso. |
Oh sovra tutte mal creata plebe | |
che stai nel loco onde parlare è duro, | |
15 | mei foste state qui pecore o zebe! |
“S’io avessi uno stile poetico pungente e severo (S’ïo avessi le rime aspre e chiocce), come si converrebbe al funesto pozzo (al tristo buco) sopra il quale gravano tutte le altre pareti rocciose (sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce), io spremerei il succo del discorso a me interno (premerei di mio concetto il suco) in maniera più adeguata (più pienamente); ma poich’io non lo posseggo (perch’io non l’abbo), non senza timori m’appresto a narrarne (non sanza tema a dicer mi conduco); perché (ché) non è impresa da prendere sotto gamba (pigliare a gabbo) descrivere (discriver) il fondo di (a) tutto l’universo, tantomeno risulterebbe indicato un linguaggio infantile (né da lingua che chiami mamma o babbo).
Ma le Muse (quelle donne), che aiutarono (aiutaro) Anfïone a chiuder Tebe, vengano in soccorso ai miei versi (aiutino il mio verso) affinché il mio racconto non si discosti dalla realtà (sì che dal fatto il dir non sia diverso).
Oh peccatori più di tutti gli altri originati per il male (sovra tutte mal creata plebe) che state nel luogo (che stai nel loco) del quale (onde) è ostico (duro) parlare, sarebbe stato meglio se qui fosse stati pecore o capre (mei foste state qui pecore o zebe)!”
Con quest’invocazione l’autore esordisce in principio di Canto, rimembrando come, su verosimile spunto della Tebaide di Stazio, il poeta Anfïone, con il suo canto favorito dalle Muse riuscì ad incantare le pietre del monte Citerone, spronandole a staccarsi dalla parete e farsi rocciosa cinta della città di Tebe.
Le “rime aspre e chiocce”, vagamente fanno rimembrare le celebri “Rime petrose”, ovvero la definizione coniata dai commentatori danteschi per i versi che il sommo poeta dedicò a tal Petra, attorno al 1296; sul fatto ch’ella fosse donna in carne ed ossa o personificazione allegorica, le intellettuali diatribe son tuttora aperte.
Come noi fummo giù nel pozzo scuro | |
sotto i piè del gigante assai più bassi, | |
18 | e io mirava ancora a l’alto muro, |
dicere udi’ mi: «Guarda come passi: | |
va sì, che tu non calchi con le piante | |
21 | le teste de’ fratei miseri lassi». |
Non appena discesi i due viandanti nell’oscuro (Come noi fummo giù nello scuro) pozzo, molto più sotto rispetto ai piedi di Anteo (sotto i piè del gigante assai più bassi), e mentre l’Alighieri ancor osserva la sua alta parete (e io mirava ancora a l’alto muro), egli ode una voce che gli raccomanda (dicere udi’ mi) di far attenzione al suo cammino (Guarda come passi) e di procedere in maniera da (va sì) non urtare con i piedi (che tu non calchi con le piante) le teste dei fratelli sciagurati e stanchi (de’ fratei miseri lassi).
“sotto i piè del gigante assai più bassi” è espressione che rimarca il caratteristico degradare dell’intera struttura infernale.
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante | |
e sotto i piedi un lago che per gelo | |
24 | avea di vetro e non d’acqua sembiante. |
Pertanto il pellegrino si volta (Per ch’io mi volsi) e, sia davanti alla sua vista che sotto i suoi piedi, s’apre (vidimi davante e sotto i piedi) un lago che, a causa della sua superficie ghiacciata (per gelo) sembra fatto di vetro anziché d’acqua (avea di vetro e non d’acqua sembiante).
Non fece al corso suo sì grosso velo | |
di verno la Danoia in Osterlicchi, | |
27 | né Tanaï là sotto ’l freddo cielo, |
com’era quivi; che se Tambernicchi | |
vi fosse sù caduto, o Pietrapana, | |
30 | non avria pur da l’orlo fatto cricchi. |
Nemmeno il Danubio in Austria (la Danoia in Osterlicchi) o il Don (né Tanaï) sotto il gelido (là sotto ’l freddo) cielo russo, formarono mai un così spesso strato di ghiaccio (Non fece al corso suo sì grosso velo) come succede nel Cocito (com’era quivi); che vi cadessero sopra (su) il Tambernicchi o il Pietrapana, non gli procurerebbero la minima crepatura (non avria pur da l’orlo fatto cricchi).
Il “Tambernicchi” dovrebbe riferirsi al monte Tambura, nelle Apuane, mentre il “Pietrapana” dovrebbe essere l’odierno Pania delle Croce, situato a forte dei Marmi, a sud-est del Tambura.
E come a gracidar si sta la rana | |
col muso fuor de l’acqua, quando sogna | |
33 | di spigolar sovente la villana, |
livide, insin là dove appar vergogna | |
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, | |
36 | mettendo i denti in nota di cicogna. |
E come la rana si sofferma a gracidare (a gracidar si sta) con il muso fuori (fuor) dall’(de)acqua, nel periodo in cui la contadina spera in un’abbondante spigolatura (quando sogna di spigolar sovente la villana), quindi d’estate, così stanno le anime (eran l’ombre) cianotiche e doloranti (livide e dolenti) nella ghiacciaia (ne la ghiaccia), immerse fino alla parte che arrossisce per l’imbarazzo (insin là dove appar vergogna), il volto, battendo i denti come i becchi delle cicogne (mettendo i denti in nota di cicogna).
Similitudine fra peccatori e rane s’era già letta nella nona terzina del ventiduesimo canto, nel visionare gli stessi immersi nella pece: “E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l’altro grosso, sì stavan d’ogne parte i peccatori;”
Il vocabolo “nota” potrebbe richiamare il fatto che, nella prima parte dell’estate, ovvero quando per le cicogne è periodo d’amore, le stesse producono dei suoni con il becco simili ad amorose melodie.
Ognuna in giù tenea volta la faccia; | |
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo | |
39 | tra lor testimonianza si procaccia. |
Ogni dannato rivolge lo sguardo in basso (Ognuna in giù tenea volta la faccia); fra di loro si evince (tra lor testimonianza si procaccia) la sensazione di freddo estremo dalla (da) bocca e la sofferenza d’animo (il cor tristo) dagli occhi.
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, | |
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti, | |
42 | che ’l pel del capo avieno insieme misto. |
Dopo aver ampiamente osservato, Dante (Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto) s’incammina (volsimi a’ piedi) nella Caina e nota due spiriti talmente appiccati (vidi due sì stretti), d’aver mischiate le reciproche capigliature (volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti).
«Ditemi, voi che sì strignete i petti», | |
diss’io, «chi siete?» E quei piegaro i colli; | |
45 | e poi ch’ebber li visi a me eretti, |
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, | |
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse | |
48 | le lagrime tra essi e riserrolli. |
L’Alighieri chiede loro, che sono tanto vicini di rivelar (Ditemi, voi che sì strignete i petti), chi siano (chi siete?). Ed in tutta risposta i due piegano i rispettivi (E quei piegaro i) colli; e dopo averli rivolti verso il poeta (poi ch’ebber li visi a me eretti), i loro occhi (li occhi lor), che prima all’interno erano (ch’eran pria pur dentro) molli, piangono verso la bocca (gocciar su per le labbra), e il gelido vento ghiaccia (’l gelo strinse) sull’istante le loro lacrime raggelandogliele dentro gli occhi e dunque tappandoglieli (le lagrime tra essi e riserrolli).
Con legno legno spranga mai non cinse | |
forte così; ond’ei come due becchi | |
51 | cozzaro insieme, tanta ira li vinse. |
Mai una sbarra strinse tanto energicamente due legni (Con legno legno spranga mai non cinse forte così); di conseguenza (ond’ei), tanta è la stizza sopraggiunta nei due dannati (tanta ira li vinse) che gli stessi iniziano a darsi testate come fossero caproni (come due becchi cozzato insieme).
E un ch’avea perduti ambo li orecchi | |
per la freddura, pur col viso in giùe, | |
54 | disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? |
E un’altro, che ha perso entrambe le orecchie in quanto consumate dal gelo (un ch’avea perduti ambo li orecchi per la freddura), pur mantenendo il volto rivolto al basso (pur col viso in giùe) chiede (disse) al pellegrino la ragione per cui stia tanto scrutando lor peccatori attraverso il raggelato specchio (Perché cotanto in noi ti specchi?).
Se vuoi saper chi son cotesti due, | |
la valle onde Bisenzo si dichina | |
57 | del padre loro Alberto e di lor fue. |
D’un corpo usciro; e tutta la Caina | |
potrai cercare, e non troverai ombra | |
60 | degna più d’esser fitta in gelatina: |
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra | |
con esso un colpo per la man d’Artù; | |
63 | non Focaccia; non questi che m’ingombra |
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più, | |
e fu nomato Sassol Mascheroni; | |
66 | se tosco se’, ben sai omai chi fu. |
E perché non mi metti in più sermoni, | |
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi; | |
69 | e aspetto Carlin che mi scagioni». |
Poi lui dicendo che se ci tiene tanto a saper chi siano i due che si stanno scornando (Se vuoi saper chi son cotesti due), sappia che gli stessi provengono dalla valle in cui digrada il fiume Bisenzio (la valle onde Bisenzo si dichina), la stessa della quale fu originario il padre Alberto.
I due uscirono da un unico corpo, quindi furono fratelli; egli poi prosegue affermando che Dante, se anche perlustrasse tutta la zona Caina, non troverebbe spirito che meriti quanto loro due d’esser conficcato nel ghiaccio (e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d’esser fitta in gelatina): nemmeno colui al quale vennero spezzati (non quelli a cui fu rotto) il petto e l’ombra con un unico colpo ad opera della lancia (con esso un colpo per la man) d’Artù; tantomeno (non) Focaccia; e neanche (non) tal (e fu nomato) Sassol Mascheroni, lui che con la sua testa gli copre la vista (questi che m’ingombra col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più) e che l’Alighieri, essendo toscano (se tosco se’), non può non saper chi sia stato in vita (ben sai omai chi fu).
E affinché il poeta non lo induca a prolungarsi nel discorso (perché non mi metti in più sermoni), sappia (sappi) ch’egli fu Camicione dei Pazzi (sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi) e che sia in attesa di Carlino dei Pazzi, la cui greve colpa farà sembrar lieve la sua (aspetto Carlin che mi scagioni).
Napoleone ed Alessandro, rispettivamente d’accanita fede ghibellina e guelfa, furono figli del conte di Vernio e di Mangona, Alberto, o Alberto V, degli Alberti (1203-1250). Sullo sfondo della contrastante contrapposizione ideologico-politica che li vide agli opposti per tutto il corso della loro esistenza, i due fratelli vissero fra colpi di complotti e successivi dissapori causati dall’eredità paterna, giungendo infine ad uccidersi a vicenda, all’incirca verso la metà del tredicesimo secolo.
Come narrato dal romanzo francese Lancelot di Lac, sulle cui pagine s’innamorarono i romantici e sfortunati Paolo e Francesca, Mordrec fu figlio, o nipote, di re Artù che s’accordò con la fata Morgana (sua madre o sua zia) per assassinare il padre che tuttavia, nel bel mezzo dell’attacco a lui rivolto, gli trapassò il petto con la sua lancia ed una volta estratta la stessa, passando la luce solare per la mortale ferita, anche l’ombra di Mordrec si spezzò.
Vanni dei Cancellieri, detto “Focaccia”, visse in quel di Pistoia nel tredicesimo secolo, conducendo vita sul filo di rancori familiari che lo portarono a muover mano assassina più d’una volta, anche su figure parentali; figlio di Bertacca di messer Ranieri, nobile di parte guelfa bianca, nelle storie narrate sulla città viene descritto come incallito e violento attaccabrighe, caratteristica comportamentale probabilmente delineatasi all’interno delle casalinghe mura, essendo la famiglia dello stesso particolarmente incline ai conflitti interni.
Sassolo Mascheroni dei Toschi fu gentiluomo fiorentino del tredicesimo secolo il quale, per l’aver ammazzato, al fin di beneficiare della sua eredità, un cuginetto, o un nipotino, ch’era sotto la sua tutela; da quanto si narra, l’uomo sarebbe stato rinchiuso in una botte provvista di chiodi all’interno, fatto ruzzolare in Firenze, infine sottoposto a pubblica decapitazione.
Alberto dei Pazzi di Valdarno, detto “Camicione”, anch’esso vissuto nel tredicesimo secolo, accoltellò un parente per questioni immobiliari; da lui citato come peccatore di maggior spessore è il parente Carlino dei Pazzi di Valdarno, probabilmente un cugino che, nel luglio 1302, tradirà, per quattromila fiorini d’oro i ghibellini ed i guelfi bianchi che suo padre teneva nascosti nel castello di Piantravigne, nel Valdarno di sopra, consegnando il maniero ai guelfi di parte nera. Camicione lo cita profetizzando la sua discesa al Cocito ed augurandosi che venga collocato in zona Antenora, per scontare una colpa ben più pesante della sua, quindi da lui ritenuta inidonea da espiare in zona Caina.
Poscia vid’io mille visi cagnazzi | |
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, | |
72 | e verrà sempre, de’ gelati guazzi. |
Andando avanti (Poi) il pellegrino vede una moltitudine di volti la cui carnagione ricorda il colore del tartufo canino (Poscia vid’io mille visi cagnazzi), quindi bluastri, a causa del (fatti per) freddo; ed il sol ripensarci gli provoca disgusto (onde mi vien riprezzo), come sempre proverà (e verrà), ogni qualvolta gli capiterà d’imbattersi anche alla semplice vista di gelate acque basse (de’ gelati guazzi).
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo | |
al quale ogne gravezza si rauna, | |
75 | e io tremava ne l’etterno rezzo; |
E mentre i due poetanti proseguono verso il centro (ch’andavamo inver’ lo mezzo) del Cocito, lì dove ogni peso si raduna (al quale ogne gravezza si rauna) per forza di gravità, Dante trema in quel gelo eterno (e io tremava ne l’etterno rezzo);
se voler fu o destino o fortuna, | |
non so; ma, passeggiando tra le teste, | |
78 | forte percossi ’l piè nel viso ad una. |
a questo punto all’Alighieri, ignorando se sia successo per sua volontà, per voler divino o per casualità (se voler fu o destino o fortuna, non so), succede che, marciando (ma, passeggiando) fra le teste, ne percuote fortemente una, con i piedi, direttamente in viso (forte percossi ’l piè nel viso ad una).
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? | |
se tu non vieni a crescer la vendetta | |
81 | di Montaperti, perché mi moleste?». |
La malcapitata lo rimprovera piangendo (mi sgridò): “Perchè mi pesti (Perché mi peste)? – se tu non sei qui per accrescere la pena a me destinata (se tu non vieni a crescer la vendetta) per il tradimento di Montaperti, perché mai mi tormenti (moleste)?”
Un doloroso “perché mi moleste?” che ricalca perfettamente il “Perchè mi scerpi?” che l’anima di Pier della Vigna, al trentacinquesimo verso del tredicesimo Canto, rivolge dopo esser stato spezzato in un rametto dall’Alighieri.
E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta, | |
sì ch’io esca d’un dubbio per costui; | |
84 | poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». |
Al che il poeta (E io) si rivolge al suo maestro (Maestro mio) chiedendogli di attenderlo in quell’esatto punto (or qui m’aspetta), al fin ch’egli si levi immediatamente (sì ch’io esca d’) un dubbio riguardo al dannato (per costui); poi Virgilio potrà mettergli (mi farai) fretta in qualsiasi modo vorrà (quantunque vorrai).
Nel dubbio d’aver intuito chi sia l’astioso spirito ed in fede al proprio amor per Firenze, Dante appare determinato e coraggioso, al punto da non farsi remora alcuna nel dire apertamente alla sua adorata guida d’attenderlo e nemmeno formulando richiesta, ma dando quasi per scontato ch’egli possa decidere da sé cosa fare, senza attendere conferma verbale di Virgilio.
Lo duca stette, e io dissi a colui | |
che bestemmiava duramente ancora: | |
87 | «Qual se’ tu che così rampogni altrui?». |
Il duca rimane fermo (stette), mentre il pellegrino si rivolge (e io dissi) a colui che ancora aspramente sta bestemmiando (bestemmiava duramente) chiedendogli chi sia e perché lo stia biasimando in quel modo (Qual se’ tu che così rampogni altrui).
«Or tu chi se’ che vai per l’Antenora, | |
percotendo», rispuose, «altrui le gote, | |
90 | sì che, se fossi vivo, troppo fora?» |
Nel teso battibecco venutosi a creare, lo spirito risponde (rispouose): “Chi sei piuttosto tu (Or tu chi se’), che vaghi per l’Antenora percuotendo le guance altrui (percotendo altrui le gote), cosi (sì) che, s’io fossi ancor vivente (se fossi vivo), sarebbe troppo”
L’irata anima intende dire che se fosse ancor vivente l’atteggiamento dell’Alighieri avrebbe suscitato sicuramente la sua reazione fisica.
«Vivo son io, e caro esser ti puote», | |
fu mia risposta, «se dimandi fama, | |
93 | ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.» |
Con tono di supponenza, il poeta risponde (fu mia risposta): “Vivo son io, e piacere ti possa donare (caro esser ti puote), se ti sta a cuore la tua nomea (dimandi fama), ch’io annoti il tuo nominativo (metta il nome tuo) nelle mie annotazioni di viaggio (tra l’alte note)”.
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. | |
Lèvati quinci e non mi dar più lagna, | |
96 | ché mal sai lusingar per questa lama!». |
E lui al pellegrino (Ed elli a me): “Ho semmai desiderio (brama) del contrario. Quindi (quinci) levati di mezzo e non darmi più fastidio (non mi dar più lagna), poichè le tue lusinghe non hanno potere in questa conca!”.
Il termine “lama”, inteso come depressione o avvallamento, venne utilizzato anche al settantanovesimo verso del ventesimo Canto, tratteggiando il percorso del fiume Benaco che, prima di gettarsi nel Po, varia il suo nome in Mincio, transitando appunto nei pressi d’una palude: “Tosto che l’acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po. Non molto ha corso, ch’el trova una lama, ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama”.
Allor lo presi per la cuticagna | |
e dissi: «El converrà che tu ti nomi, | |
99 | o che capel qui sù non ti rimagna». |
In primitiva gestualità a lui solitamente inconsueta, allora Dante lo afferra per la nuca (Allor lo presi per la cuticagna), lui dicendo (e dissi): “Conviene che tu dica il tuo nome (El converrà che tu ti nomi), altrimenti non ti rimarrà un capello in testa (o che capel qui sù non ti rimagna)”.
Il timido peregrino esplode in una veemenza inaspettata, come se potesse concedersi la facoltà d’inasprire le pene dei dannati, facoltà esclusivamente divina; il maestro, solitamente sempre accorto a sottolineare al suo discepolo l’eventuale superamento di limiti in tal senso, non lo trattiene, tantomeno lo riprende, in un surreale teatrino infernale in cui i ruoli sembrano capovolgersi poter alcuni concitati istanti.
Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi, | |
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti | |
102 | se mille fiate in sul capo mi tomi». |
Ond’egli all’Alighieri (Ond’elli a me): “Per quanto tu mi possa strappar tutti i capelli (Perché tu mi dischiomi), né ti confesserò la mia identità (ti dirò ch’io sia), né te la farò intuire, nemmeno se tu mi dovessi prendere a calcagnate sul capo mille volte (né mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi)”.
Io avea già i capelli in mano avvolti, | |
e tratti glien’avea più d’una ciocca, | |
105 | latrando lui con li occhi in giù raccolti, |
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? | |
non ti basta sonar con le mascelle, | |
108 | se tu non latri? qual diavol ti tocca?». |
La Divina Commedia, 1912
Il poeta ha già avvolto i capelli fra le sue mani (Io avea già i capelli in mano avvolti), e strappategliene già alcune ciocche (e tratti glien’avea più d’una ciocca), mentre il peccatore sbraita direzionando lo sguardo verso il basso (latrando lui con li occhi in giù raccolti), probabilmente per non farsi riconoscere, quando un altro grida (gridò): “Bocca, che hai tu ? – non ti basta far rumore (sonar) con le mascelle, senza bisogno di latrare? – cosa diavolo ti succede (qual diavol ti tocca)?
Bocca degli Abati (?-1300), nobile fiorentino appartenente ad un’antica famiglia ghibellina e, contrariamente ai propri familiari di fede guelfa, con gli stessi guelfi militò nella Battaglia di Montaperti, il 4 settembre del 1260, scontrandosi con i ghibellini senesi, i fuoriusciti fiorentini cappeggiati da Farinata degli Uberti ed i cavalieri di Manfredi. L’autore della Commedia lo identifica come il traditore a danno dei propri commilitoni che, tagliando il braccio del portabandiera comunale che guidava la schiera e levando pertanto lo stendardo alla vista dei compagni, mandò in confusione le truppe guelfe, contribuendo alla loro sconfitta.
Bocca rientrò a Firenze insieme ai ghibellini vittoriosi e, dopo la rivincita guelfa del 1266, venne semplicemente esiliato, ma non condannato per tradimento, in quanto le prove a suo carico non furono sufficienti.
«Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle, | |
malvagio traditor; ch’a la tua onta | |
111 | io porterò di te vere novelle». |
“Ormai”, afferma il pellegrino (diss’io), “non desidero più che tu parli (non vo’ che più favelle), meschino traditore (malvagio traditor); di cui, a sostegno della tua infamia (ch’a la tua onta) di te porterò notizie inconfutabili (io porterò di te vere novelle)”.
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; | |
ma non tacer, se tu di qua entro eschi, | |
114 | di quel ch’ebbe or così la lingua pronta. |
“Vattene”, risponde (rispuose) lo spirito, “e racconta ciò che ti pare (e ciò che tu vuoi conta); ma che tu non taccia (non tacer), qualora tu riesca ad uscire da qui (se tu di qua entro eschi), di colui che poco fa fu tanto pronto ed esplicito nel parlare (di quel ch’ebbe or così la lingua pronta).
El piange qui l’argento de’ Franceschi: | |
‘Io vidi’, potrai dir, ‘quel da Duera | |
117 | là dove i peccatori stanno freschi’. |
Egli sconta quaggiù la sua pena a causa del denaro che sottrasse ai francesi (El piange qui l’argento de’ Franceschi): ‘Io vidi’, potrai dir, ‘quel da Duera la dove i peccatori stanno conficcati nel ghiaccio (freschi)’.
Buoso da Duera (?-1282), l’attuale Dovera, fu signore di Soncino e poi cosignore di Cremona, d’ideologia ghibellina, che, nel 1265, invece che sorvegliare il passo appenninico parmense, ne concesse sotto pagamento il passaggio alla cavalleria angioina.
Se fossi domandato ‘Altri chi v’era?’, | |
tu hai dallato quel di Beccheria | |
120 | di cui segò Fiorenza la gorgiera. |
‘E se ti domandassero (Se fossi domandato) ‘Chi altro c’era (Altri chi v’era)?’, lì di lato (dallato) hai quello (quel) di Beccheria a cui Firenze segò il gozzo (di cui segò Fiorenza la gorgiera).
Tesauro dei Beccheria (?-1258) fu abate di Pavia oltre che priore toscano appartenente all’allora influente ordine Vallombrosano, al quale venne tagliata la gola dai fiorentini per l’intesa segreta che lo stesso sembrerebbe aver stipulato con i ghibellini fuoriusciti, benché se le notizie a riguardo non siano di certezza assoluta.
Gianni de’ Soldanier credo che sia | |
più là con Ganellone e Tebaldello, | |
123 | ch’aprì Faenza quando si dormia». |
Gianni de’ Soldanier credo che sia poco più in là insieme (con) a Ganellone e Tebaldello, ch’aprì le porte di Faenza durante la notte (quando si dormia).
Gentiluomo ghibellino originario di Firenze, Gianni dei Soldanieri voltò la faccia alla fazione da lui sostenuta, mettendosi a capo d’una sommossa popolare nel 1266, ossia proprio nel periodo durante il quale il condottiero e politico ghibellino Guido Novello Guidi (1227-1293), nel novembre di quell’anno, fu determinante nella decisione di far fuoriuscire gli stessi ghibellini nel timore di rivolte contro gli stessi; dopo la sconfitta ghibellina di Benevento del febbraio 1266, combattuta fra le truppe guelfe di Carlo I d’Angiò (1226-1285) e le ghibelline di Manfredi di Sicilia (1232-1266) in cui il sovrano stesso perse la vita, Gianni era infatti passato alla parte guelfa.
“Ganellone” è Gano di Maganza, l’immaginario personaggio della Chanson de Roland, poema già citato nel precedente Canto in riferimento al tradimento di orlando in Roncisvalle.
Infine Tebaldello dei Zambrasi (1230-1282), nobile ghibellino romagnolo di Faenza la cui colpa fu quella d’aver aperto le porte della città ai guelfi bolognesi, in un’autunnale notte del 1280, per vendicarsi d’un offesa ricevuta dai Lambertazzi, blasonata famiglia ghibellina bolognese, poi lui stesso perendo su vendetta del politico, condottiero e religioso Guido I di Montefeltro (1220-1298), signore dell’omonima contea, nemmeno due anni più tardi.
Noi eravam partiti già da ello, | |
ch’io vidi due ghiacciati in una buca, | |
126 | sì che l’un capo a l’altro era cappello; |
e come ’l pan per fame si manduca, | |
così ’l sovran li denti a l’altro pose | |
129 | là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca: |
non altrimenti Tidëo si rose | |
le tempie a Menalippo per disdegno, | |
132 | che quei faceva il teschio e l’altre cose. |
La visione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante Alighieri
a cura di Henry Francis Cary (1772-1844), 1889
Concluso il vendicativo sermone denunciatario di Bocca, i due viandanti si sono appena dipartito dallo stesso (Noi eravam partiti già da ello) quando Dante vede (ch’io vidi) due ghiacciati in una buca, sistemati in maniera che la testa di uno fosse come il cappello dell’altro (sì che l’un capo a l’altro era cappello);
e nell’esatto modo in cui si mastica del pane per la fame (e come ’l pan per fame si manduca), così quello di sopra (’l sovran) conficca i denti nell’altro (li denti a l’altro pose) nel punto in cui il cervello si connette con il midollo spinale (là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca): similarmente (non altrimenti) Tidëo morse (si rose) le tempie a Menalippo per disprezzo (disdegno), rispetto a quanto sta facendo il peccatore (che quei faceva) con il teschio e la materia cerebrale (l’altre cose).
«O tu che mostri per sì bestial segno | |
odio sovra colui che tu ti mangi, | |
135 | dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno, |
che se tu a ragion di lui ti piangi, | |
sappiendo chi voi siete e la sua pecca, | |
138 | nel mondo suso ancora io te ne cangi, |
“O tu che dimostri in maniera così animalesca l’odio nei confronti di chi stai divorando (O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi), confidami per qual motivo (dimmi ’l perché)”, gli dice l’Alighieri, “con questo patto (per il tal convegno), ovvero che se hai valide ragioni per affliggerti a causa sua (che se tu a ragion di lui ti piangi), sospendo chi siete voi ed il suo peccato (la sua pecca), ch’io te ne possa ricambiare una volta risalito nel mondo terrestre (nel mondo suso ancora io te ne cangi),
139 | se quella con ch’io parlo non si secca.» |
sempre che la lingua con la quale ti sto parlando non si secchi prima del tempo (se quella con ch’io parlo non si secca).
Dante, come ricompensa all’eventuale svelare, da parte dell’anima, generalità e vissuti, propone di diffondere positive notizie sulla stessa, sempre che quanto andrà a narrare possa aver lunga vita, come del resto è avvenuto, se dopo secoli ancor si legge la sua Commedia.
Alle parole di Dante il peccatore, in passaggio di canto, “La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto”…
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.