Divina Commedia: Inferno, Canto XXXI
Sandro Botticelli (1445–1510), I sei Giganti nudi attorno al pozzo, 1480-1495
Rammaricatosi e subito dopo rincuoratosi sul rimprovero di Virgilio e sulle sue confortanti parole a seguire, Dante prosegue con la sua cara guida verso il pozzo che circonda il lago ghiacciato del Cocito, sotto il quale si trova il nono Cerchio.
Nel tal pozzo stanno a guardia mostruose e mastodontiche creature, giganti che dapprima il pellegrino, causa la densa oscurità, confonderà per torri, poi riconoscendone le fattezze, lui peraltro anticipategli dal maestro allo scopo di non farsene eccessivamente sorprendere e turbare.
L’incontro con gli stessi, manifestante chiaramente la legge del Contrappasso nelle pene a loro inferte per contrasto, ovvero con pena contrapposta alla colpa, avviene rispettivamente in Nembrotto, Fiïalte ed infine Anteo, colui che sarà veicolo di trasporto dei due peregrini verso l’ultima parte dell’infernale regno.
Lo sbigottimento dell’Alighieri di fronte all’atto d’inchino del gigante, ricorda le sensazioni in lui evocate da Gerione, poco prima di levarsi in volo.
Similare è la posa, attuata con soavità ed assoluta dedizione alle richieste del vate, come sempre fedele compagno e conduttore in un percorso quasi giunto al termine, nella sua prima tappa.
I giganti, in un certo qual senso, nelle loro orripilanti sembianze e nell’accenno che di loro vien fatto come diaboliche bestie nelle quali l’intelletto negativamente s’unisce a potenza e malignità, anticipano quella che sarà la visione di Lucifero, per prepararsi alla quale il discepolo dovrà trovar in sé il coraggio più estremo, comunque rafforzato nella certezza della costante vicinanza del suo benevolo e disponibile protettore.
Una medesma lingua pria mi morse, | |
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, | |
3 | e poi la medicina mi riporse; |
così od’io che solea far la lancia | |
d’Achille e del suo padre esser cagione | |
6 | prima di trista e poi di buona mancia. |
La voce di Virgilio, che poco prima aveva rimproverato il suo protetto (Una medesma lingua pria mi morse) facendolo arrossire su tutto il volto (sì che mi tinse l’una e l’altra guancia), è poi la stessa (medesma) che lo rincuora come gli fosse cura (e poi la medicina mi riporse);
l’Alighieri allor ricorda aver udito narrar che similmente agiva (così od’io che solea far) la lancia d’Achille e di (del) suo padre Pelèo, che al primo colpo inferto era causa di ferite ed al secondo le rimarginava (esser cagione prima di trista e poi di buona mancia).
Durante la celeberrima guerra di Troia, l’eroe greco Achille colpì con la sua lancia il re di Misia, Tèlefo, ferendolo ad una gamba e procurandogli un’insanabile ferita; non sapendo che fare, Tèlefo chiese consulto all’oracolo di Apollo, il quale dichiarò che solo la medesima freccia che gli aveva provocato la dolorante lesione, sarebbe stata in grado di guarirla, ragion per cui il re supplicò Achille di ripassare la punta della sua alabarda sull’epidermica lacerazione, effettivamente rimarginatasi per sfregamento della stessa.
Sulle coste della Misia, storica regione dell’Asia Minore, nell’odierna zona nord-occidentale della Turchia, nella mitologia greca si racconta fosse approdato per sbaglio l’esercito di Achille, ch’era diretto a Troia, e nel conflitto ch’esplose fra le milizie avverse, con carneficine da ambedue la parti, avvenne la favella di cui sopra, dalla quale, nell’antica città di Pergamo, derivò il culto di Tèlefo, preso in prestito da più autori antichi all’interno delle loro opere; nell’Altare di Zeus della cittadina, uno dei maggiori capolavori dell’arte ellenistica, edificato dal re Eumene II (221 a.C.-160 a.C.) in onore al padre degli dèi dell’Olimpo, le gesta di Tèfelo vennero rappresentate a decorazione ed a tutt’oggi conservate a Berlino.
La favella venne narrata sia nelle Metamorfosi di Ovidio che nelle Fabulae dello scrittore ed agrimensore romano Igino Gromatico, vissuto a cavallo fra il primo ed il secondo secolo.
Noi demmo il dosso al misero vallone | |
su per la ripa che ’l cinge dintorno, | |
9 | attraversando sanza alcun sermone. |
Indi i due viandanti (Noi), voltate le spalle all’infausto fossato (demmo il dosso al misero vallone) della decima e ultima Bolgia, risalgono per il dirupo che lo circonda (su per la ripa che ’l cinge dintorno), attraversandolo senza proferir parola (attraversando sanza alcun sermone).
Quiv’era men che notte e men che giorno, | |
sì che ’l viso m’andava innanzi poco; | |
12 | ma io senti’ sonare un alto corno, |
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, | |
che, contra sé la sua via seguitando, | |
15 | dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. |
In quel luogo v’è un’oscurità più fioca della luce del giorno e più intensa del buio notturno (Quiv’era men che notte e men che giorno), di conseguenza lo sguardo del pellegrino copre brevi distanze (sì che ’l viso m’andava innanzi poco); ma improvvisamente egli ode un suono di corno talmente acuto e potente (ma io senti’ sonare un alto corno), da far sembrare debole il rombo d’ogni tuono (tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco), sicché il poeta rivolge completamente i suoi occhi verso un punto ben preciso (dirizzò li occhi miei tutti ad un loco).
Dopo la dolorosa rotta, quando | |
Carlo Magno perdé la santa gesta, | |
18 | non sonò sì terribilmente Orlando. |
Nemmeno Orlando suonò in maniera così spaventosa (non sonò sì terribilmente), a seguito dell’orrenda carneficina (Dopo la dolorosa rotta), quando Carlo Magno perdette la sua cristiana salvaguardia (perdé la santa gesta).
L’evento storico di riferimento è la traversata del passo di Roncisvalle, nell’agosto del 778, ad opera delle milizie di Carlo Magno, in rientro dalla Spagna. La Chanson de Roland, poema cavalleresco del ciclo carolingio la cui stesura avvenne nella seconda metà dell’undicesimo secolo da parte d’autore sconosciuto, sebbene da alcuni attribuita al monaco cristiano e scrittore francese Turoldo, ne trae spunto per raccontare dell’agguato subito dalle truppe franche, capitanate da Orlando, ad opera dei Saraceni sobillati dal traditore Gano di Maganza, che l’autore della Commedia relegò fra i traditori della patria, nell’ultimo cerchio dell’Inferno, come si leggerà nel trentaduesimo canto.
Gano, personaggio chiave del poema, nonché patrigno di Orlando, si rese colpevole d’aver consigliato i Saraceni sulle modalità d’attacco a sorpresa e danno della retroguardia franca, cappeggiata dal figliastro; come richiesta d’aiuto, Orlando suonò con tutto il fiato che aveva in corpo il proprio olifante, tipico corno medievale, allo scopo d’avvisare lo stesso Carlo, ma il rallentamento dei soccorsi da parte di Gano causò la morte di Orlando e dei suoi commilitoni.
Poco portäi in là volta la testa, | |
che me parve veder molte alte torri; | |
21 | ond’io: «Maestro, dì, che terra è questa?». |
Dante ha da poco rivolto il capo in quella direzione (Poco portäi in là volta la testa), che gli sembra di vedere numerose ed (che me parve veder molte) alte torri; pertanto egli (ond’io) chiede al maestro di svelargli di che città si tratti (Maestro, dì, che terra è questa?)
Ed elli a me: «Però che tu trascorri | |
per le tenebre troppo da la lungi, | |
24 | avvien che poi nel maginare abborri. |
Il vate gli risponde (Ed elli a me) che, essendo che il discepolo tenti di penetrare (Però che tu trascorri per le) tenebre da una distanza eccessiva (troppo da la lungi), succede che, all’atto dell’immaginare egli distorca (avvien che poi nel maginare abborri) la realtà.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, | |
quanto ’l senso s’inganna di lontano; | |
27 | però alquanto più te stesso pungi». |
Quando il suo protetto arriverà in quel luogo (se tu là ti congiungi), potrà ben comprendere (Tu vedrai ben) come i sensi s’ingannino sulle lunghe distanze (quanto ’l senso s’inganna di lontano); perciò egli s’affretti quanto più possibile (però alquanto più te stesso pungi) per giungere a destinazione.
Poi caramente mi prese per mano | |
e disse: «Pria che noi siam più avanti, | |
30 | acciò che ’l fatto men ti paia strano, |
sappi che non son torri, ma giganti, | |
e son nel pozzo intorno da la ripa | |
33 | da l’umbilico in giuso tutti quanti». |
Quindi Virgilio lo prende teneramente (Poi caramente mi prese) per mano dicendogli (e disse): “Prima che noi ci portiamo (siam) più avanti, affinché la situazione non ti appaia incomprensibile (acciò che ’l fatto men ti paia strano), sappi che non son torri, ma giganti, e gli stessi si trovano accerchiati alla parete interna del pozzo (e son nel pozzo intorno da la ripa), tutti quanti nascosti dall’ombelico in giù (da l’umbilico in giuso).
Come quando la nebbia si dissipa, | |
lo sguardo a poco a poco raffigura | |
36 | ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa, |
così forando l’aura grossa e scura, | |
più e più appressando ver’ la sponda, | |
39 | fuggiemi errore e cresciemi paura; |
però che, come su la cerchia tonda | |
Montereggion di torri si corona, | |
42 | così la proda che ’l pozzo circonda |
torreggiavan di mezza la persona | |
li orribili giganti, cui minaccia | |
45 | Giove del cielo ancora quando tuona. |
E come al diradarsi degli stati nebbiosi (quando la nebbia si dissipa), lo sguardo lentamente discerne (a poco a poco raffigura) ciò che si nascondeva nel vapore addensatosi nell’aria (ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa), così, penetrando (forando) visivamente il denso spessore e l’oscurità della stessa (l’aura grossa e scura), approssimandosi man mano l’Alighieri alla (più e più appressando ver’ la) sponda, in lui sfuma l’errore e s’accresce il timore (fuggiemi errore e cresciemi paura); difatti (però che), come sulla tondeggiante cinta delle sue mura Monteriggioni si cinge (come su la cerchia tonda Montereggion si corona) di torri, così gli (li) orribili giganti stanno disposti turriti con il loro mezzo busto (torreggiavan di mezza la persona) attorno al margine (la proda) che circonda il (’l) pozzo, ancora minacciati da Giove con tuoni dal cielo (cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona).
Monteriggioni è la roccaforte di Valdelsa, costruita dai senesi in principio del tredicesimo secolo ed alla quale, mezzo secolo dopo, furono aggiunte delle torri a difesa dei fiorentini.
E io scorgeva già d’alcun la faccia, | |
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte, | |
48 | e per le coste giù ambo le braccia. |
E il pellegrino già scorge il viso di alcuni di loro (io scorgeva già d’alcun la faccia), le spalle, il (’l) petto e gran parte del ventre, oltre ad entrambe le braccia a penzoloni lungo il torso (e per le coste giù ambo le braccia).
Natura certo, quando lasciò l’arte | |
di sì fatti animali, assai fé bene | |
51 | per tòrre tali essecutori a Marte. |
Certamente (certo), riflette fa sé e sé il poeta, la natura davvero ben decise (assai fé bene) quando smise d’originare simili bestie (quando lasciò l’arte di sì fatti animali), privando (per tòrre) il dio della guerra, Marte, di siffatti combattenti.
E s’ella d’elefanti e di balene | |
non si pente, chi guarda sottilmente, | |
54 | più giusta e più discreta la ne tene; |
ché dove l’argomento de la mente | |
s’aggiugne al mal volere e a la possa, | |
57 | nessun riparo vi può far la gente. |
E s’ella persevera con convinzione (non si pente) nella creazione d’elefanti e di balene, chi ne osservi con fine assennatezza (chi guarda sottilmente), non può esimersi dal ritenerla (la ne tene) tanto più equanime ed accorta (più giusta e più discreta); poiché solamente nel caso in cui lo strumento dell’intelletto (ché dove l’argomento de la mente) s’aggiunga a malefica volontà e forza fisica (s’aggiugne al mal volere e a la possa), non vi sarà alcuno scampo per il genere umano.
Il concetto espresso s’evince dalla convinzione dantesca che la facoltà dell’intelletto, qualora unita a meschina volontà e potenza corporea, non possa che originare dannose conseguenze ad ampio raggio; riflettere su fatto che la natura, nell’aver interrotto la procreazione di tali creature, di mole medesima ad altre specie animali, ma d’intrinseca crudeltà rispetto alle stesse, per possesso di ragione, appunto perché mal utilizzata, non può che convincere della sua assoluta saggezza e buon senso.
La faccia sua mi parea lunga e grossa | |
come la pina di San Pietro a Roma, | |
60 | e a sua proporzione eran l’altre ossa; |
sì che la ripa, ch’era perizoma | |
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto | |
63 | di sovra, che di giugnere a la chioma |
tre Frison s’averien dato mal vanto; | |
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi | |
66 | dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto. |
La testa del gigante a Dante sembra lunga e grande quanto la pigna (La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina) di San Pietro a Roma, e la rimanente parte dello scheletro è proporzionata alla stessa (a sua proporzione eran l’altre ossa); in modo che la roccia (sì che la ripa), che fa da mutanda dalla vita (ch’era perizoma dal mezzo) in giù, mostra talmente tanto della parte superiore del suo corpo (ne mostrava ben tanto di sovra), che per giungere da quel punto fino ai capelli (che di giugnere a la chioma) tre frisoni accatastati non riuscirebbero nell’impresa (tre Frison s’averien dato mal vanto); in quanto il discepolo ne vede almeno una trentina di palmi abbondante (però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi) da lì fino alla parte fisica dove l’uomo lega il mantello (dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto), ovvero sulla clavicola.
La “pina di San Pietro” è la pigna di bronzo, alta quasi quattro metri, situata nel cortile della Pigna, nei musei vaticani; l’antica scultura, denominata “Pignone”, ritrovata nel medioevo nei pressi delle terme di Agrippa e databile al secondo secolo d.C., porta la firma di tal Publio Cincio Savio.
I “Frison” sono gli altissimi abitanti della Frisia, provincia settentrionale dei Paesi Bassi.
«Raphèl maì amècche zabì almi», | |
cominciò a gridar la fiera bocca, | |
69 | cui non si convenia più dolci salmi. |
“Raphèl maì amècche zabì almi”, inizia a gridare la sua violenta (cominciò a gridar la fiera) bocca, alla quale non si adattano orazioni più gradevoli (cui non si convenia più dolci salmi).
E ’l duca mio ver’ lui: «Anima sciocca, | |
tienti col corno, e con quel ti disfoga | |
72 | quand’ira o altra passïon ti tocca! |
Cércati al collo, e troverai la soga | |
che ’l tien legato, o anima confusa, | |
75 | e vedi lui che ’l gran petto ti doga». |
E il suo duca al gigante rivolto (E ’l duca mio ver’ lui): “Stolta (sciocca) anima, accontentati del (tienti col) corno, e tramite quello sfogati (e con quel ti disfoga) quando rabbia od altra passione ti travolge (quand’ira o altra passïon ti tocca)!
Tastati (Cércati al) il collo, e troverai la tracolla (soga) che lo tiene (’l tien) legato, o anima sfasata (confusa), e vedilo che t’addobba l’immenso torace (vedi lui che ’l gran petto ti doga).
Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa; | |
questi è Nembrotto per lo cui mal coto | |
78 | pur un linguaggio nel mondo non s’usa. |
Poi la savia guida dice al suo protetto essere il gigante accusatore di se stesso (Elli stessi s’accusa); gli rivela le sue generalità (questi è) nel nome di Nembrotto, la cui malefica trovata (per lo cui mal coto) fu la causa del fatto che al mondo non si parli un’unica lingua (pur un linguaggio nel mondo non s’usa).
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; | |
ché così è a lui ciascun linguaggio | |
81 | come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto». |
Quindi consiglia al pellegrino di non badare a lui (Lasciànlo stare), poiché il parlargli sarebbe una perdita di tempo (e non parliamo a vòto); infatti ogni lingua è a lui indecifrabile (ché così è a lui ciascun linguaggio) quanto la sua ad altri (come ’l suo ad altrui), in quanto a nessuno è comprensibile (ch’a nullo è noto).
Il biblico Nimrod, figlio di Cam e dunque nipote di Noè, nella Genesi venne inoltre descritto come abile e forzuto cacciatore, il primo fra gli uomini ad aver costituito un grande regno; a lui Sant’Agostino attribuì per primo la pensata d’erigere la celeberrima Torre di Babele nella regione di Sennaàr; alla sua ribelle tracotanza, Dio rispose variegando le lingue dei lavoratori i quali, non riuscendo più a comunicare fra di loro, non poterono portare a termine l’ambiziosa e folle costruzione.
Facemmo adunque più lungo vïaggio, | |
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro | |
84 | trovammo l’altro assai più fero e maggio. |
I due poetanti allungano dunque il tragitto (Facemmo adunque più lungo vïaggio), proseguendo verso (vòlti a) sinistra; e sul tiro d’una balestra (al trar d’un balestro) incappano in un secondo gigante (trovammo l’altro) alquanto più feroce e colossale (assai più fero e maggio).
A cigner lui qual che fosse ’l maestro, | |
non so io dir, ma el tenea soccinto | |
87 | dinanzi l’altro e dietro il braccio destro |
d’una catena che ’l tenea avvinto | |
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto | |
90 | si ravvolgëa infino al giro quinto. |
All’Alighieri non è dato sapere (non so io dir) chi possa averlo avvinghiato in tal maniera (A cigner lui qual che fosse ’l maestro), ma egli ha legato davanti a sé il braccio sinistro e dietro il (dinanzi l’altro e dietro il braccio) destro da (d’)una catena che lo immobilizza (’l tenea avvinto) dal collo in giù, in maniera che nella parte visibile al di fuori del pozzo (sì che ’n su lo scoperto) la stessa gli si può notare avvolta addosso in cinque giri (si ravvolgëa infino al giro quinto).
«Questo superbo volle esser esperto | |
di sua potenza contra ’l sommo Giove», | |
93 | disse ’l mio duca, «ond’elli ha cotal merto. |
Il (’l mio) duca spiega (disse) al poeta quella superba creatura aver voluto saggiare la propria forza contro il (Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra ’l) sommo Giove, ragion per cui ora viene ricompensato in quel modo (ond’elli ha cotal merto).
Fïalte ha nome, e fece le gran prove | |
quando i giganti fer paura a’ dèi; | |
96 | le braccia ch’el menò, già mai non move.» |
Trattasi di (ha nome) Fïalte, e diede il meglio di sé allorché i giganti minacciarono gli (quando i giganti fer paura a’) dèi; le braccia che in quel frangente agitò all’impazzata (ch’el menò), ora non le muoverà più (già mai non move).
Fïalte si rese convinto protagonista, insieme al fratello Oto, durante lo scontro avvenuto fra i giganti e gli dèi dell’Olimpo, con ruolo di capofila dei rivoltosi ed ammucchiatore di montagne, come l’Alighieri ebbe presumibilmente a carpire ed attingere dalle Metamorfosi ovidiane, dalla Tebaide di Publio Papinio Stazio (45 d.C.-96 d.C.) e dalle Fabulae di Egino.
E io a lui: «S’esser puote, io vorrei | |
che de lo smisurato Brïareo | |
99 | esperïenza avesser li occhi mei». |
Dante chiede al vate (E io a lui) se fosse possibile (S’esser puote) esaudire il suo desiderio di vedere (io vorrei che esperïenza avesser li occhi mei de) lo smisurato Brïareo.
Accennato nell’Eneide di Virgilio, nella Tebaide di Stazio e nella Farsaglia di Lucano, Brïareo, personaggio mitologico greco, era mostruosa creatura dalle cento braccia e cinquanta teste, caratteristica comune ai torte Centimani, ossia lui, Cotto e Gia.
Ond’ei rispuose: «Tu vedrai Anteo | |
presso di qui che parla ed è disciolto, | |
102 | che ne porrà nel fondo d’ogne reo. |
Od ‘egli risponde (Ond’ei rispuose) che il discepolo potrà vedere invece Anteo, che si trova poco distante (presso di qui), può parlare (che parla) ed è libero (disciolto), condizione ideale affinché sia lui stesso ad accompagnare i due peregrini (che ne porrà) sul disco di ghiaccio del Cocito (nel fondo d’ogne reo).
Trattato accuratamente da Lucano ed in maniera meno approfondita da Virgilio, Anteo fu mitologico gigante dalle sessanta braccia, re di Libia e consumatore di leoni, da lui stesso cacciati; la sua forza era imbattibile in quanto costantemente attinta dalla madre terra, motivo per cui solamente l’eroe greco Eracle riuscì a sconfiggerlo, dopo esser riuscito a staccarlo dal suolo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto | |
ed è legato e fatto come questo, | |
105 | salvo che più feroce par nel volto». |
Virgilio informa il suo protetto che il gigante che avrebbe voluto incontrare (Quel che tu vuo’ veder), si trova lontano (più là è molto) ed è incatenato come Fialte, con simili fattezze dimensioni (legato e fatto come questo), a parte che maggiormente efferato nelle sembianze del (salvo che più feroce par nel volto).
Non fu tremoto già tanto rubesto, | |
che scotesse una torre così forte, | |
108 | come Fïalte a scuotersi fu presto. |
Mai un terremoto fu tanto tumultuoso (Non fu tremoto già tanto rubesto) al punto da scuotere (che scotesse) una torre così forte, come Fialte fu repentino nello scuotersi.
Verosimilmente il gigante s’aizza all’udir il paragone con Brïareo, ritenuto più ferino di lui.
Allor temett’io più che mai la morte, | |
e non v’era mestier più che la dotta, | |
111 | s’io non avessi viste le ritorte. |
Allor l’Alighieri vien sopraffatto (temett’io) più che mai dal timore della (la) morte, e non sarebbe stato necessario null’altro, in quanto sufficiente lo sgomento (non v’era mestier più che la dotta) per morire, s’egli non avesse visto le catene (ritorte), rassicurandosi.
Noi procedemmo più avante allotta, | |
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, | |
114 | sanza la testa, uscia fuor de la grotta. |
I due viandanti allora procedono più innanzi (Noi procedemmo più avante allotta), giungendo (e venimmo) ad Anteo, che, senza considerare il capo (sanza la testa), fuoriesce dal pozzo (uscia fuor de la grotta) per ben sette metri e mezzo (dunque alle).
L’ “alla” fu misura lineare fiamminga di circa un metro e mezzo.
«O tu che ne la fortunata valle | |
che fece Scipïon di gloria reda, | |
117 | quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle, |
recasti già mille leon per preda, | |
e che, se fossi stato a l’alta guerra | |
120 | de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda |
ch’avrebber vinto i figli de la terra: | |
mettine giù, e non ten vegna schifo, | |
123 | dove Cocito la freddura serra. |
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: | |
questi può dar di quel che qui si brama; | |
126 | però ti china e non torcer lo grifo. |
Ancor ti può nel mondo render fama, | |
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta | |
129 | se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama.» |
Il gentil duca gli rivolge cortese richiesta: “O tu che, nella propizia (ne la fortunata) valle di Zama, che concesse a Scipione d’esser erede (fece Scipïon reda) di gloria, quando Annibale, con le sue truppe venne messo in fuga (quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle), un tempo catturasti mille leoni per cibartene (recasti già mille leon per preda) e che, se avessi affiancato i tuoi fratelli nella battaglia di Flegra (se fossi stato a l’alta guerra de’ tuoi fratelli), è ancora convinzione diffusa (ancor par che si creda) che i figli della (de la) terra, ossia i giganti, avrebbero vinto: non ti sia di disgusto (non ten vegna schifo) posarci (mettine giù) dove il freddo si fa ghiacciata chiusura (la freddura serra) al Cocito. Non far sì che noi ci si debba rivolgere (Non ci fare ire) a Tizio né a Tifo: colui ch’è qui con me (questi) può realizzare il desiderio che in questo luogo tutti bramano (dar di quel che qui si brama), perciò chinati senza girare il muso dall’altra parte (però ti china e non torcer lo grifo). Costui, essendo ancor vivente (ch’el vive), ancor può renderti nomea sulla terra (ti può nel mondo render fama), e lunga vita ancor lo attende (aspetta), sempre che la grazia divina non lo chiami a sé prestotempo (se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama).
Lo scontro a cui s’accenna è la battaglia di Zama, l’ultima della seconda guerra punica combattuta nell’ottobre del 202 a.C. fra Annibale e Publio Cornelio Scipione, con decisiva vittoria dell’esercito romano sul cartaginese e conseguente ridimensionamento della stessa Cartagine.
Il motivo per cui Anteo non partecipò alla battaglia di Flegra, in ribellione a Giove, fu semplicemente perché nato in ritardo.
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta | |
le man distese, e prese ’l duca mio, | |
132 | ond’Ercule sentì già grande stretta. |
Queste le parole del (Così disse ’l) maestro; ed Anteo (quelli) sull’istante distende la mani (in fretta le man distese) prendendo l’adorata guida (e prese ’l duca mio) con la medesima stretta a suo tempo collaudata da Ercole (ond’Ercule sentì già grande stretta).
Virgilio, quando prender si sentio, | |
disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»; | |
135 | poi fece sì ch’un fascio era elli e io. |
Al sentirsi preso (quando prender si sentio), Virgilio dice al pellegrino (disse a me) d’avvicinarsi a lui per far in modo che possa a sua volta afferrarlo (Fatti qua, sì ch’io ti prenda), poi stringendolo a sé in modo da fare dei due (poi fece sì ch’era elli e io) un unico fascio.
Qual pare a riguardar la Carisenda | |
sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada | |
138 | sovr’essa sì, ched ella incontro penda: |
tal parve Antëo a me che stava a bada | |
di vederlo chinare, e fu tal ora | |
141 | ch’i’ avrei voluto ir per altra strada. |
Come appare la torre della Garisenda a chi la guardi, standole sotto, dal lato verso il quale è inclinata (Qual pare a riguardar la Carisenda sotto ‘l chinato), quando una nuvola la sovrasti in maniera da farla sembrar pendere in avanti verso la stessa (quando un nuvol vada sovr’essa sì, ched ella incontro penda), tal parve Anteo a Dante che, intimorito, lo osserva nell’atto dell’inchinarsi (a me che stava a bada di vederlo chinare), ed è proprio in quell’istante che il poeta vorrebbe proseguir in maniera alternativa (ch’i’ avrei voluto ir per altra strada).
La torre di Garisenda, all’inizio del dodicesimo secolo in famosa accoppiata a quella degli Asinelli, in territorio bolognese, in epoca dantesca raggiungeva un’altezza di quasi cinquanta metri, con circa tre metri d’inclinazione.
Ma lievemente al fondo che divora | |
Lucifero con Giuda, ci sposò; | |
144 | né, sì chinato, lì fece dimora, |
Ma il gigante delicatamente (lievemente) li deposita (ci sposò) sul (al) fondo del regno infernale che imprigiona (divora) Lucifero con Giuda; una volta chinatosi (sì chinato), non si ferma nemmeno un momento in quel posto (né lì fece dimora),
145 | e come albero in nave si levò. |
levandosi (si levò) nell’immediato come l’albero di una (in) nave.
Consapevole dell’indicibile esperienza che sarà la visita del Cocito, l’Alighieri, come incipit del successivo Canto, s’augurerà d’avere “le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce”…
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