Divina Commedia: Inferno, Canto XXVII
Henri de Triqueti (1803-1874), Dante e Virgilio, 1861, opera in bronzo, Boston Museum of Fine Arts
Allontanatasi in quiete la fiamma di Ulisse, ai due poeti appare novello fuoco custodente l’anima d’un dannato che si rivelerà esser il conte Guido I di Montefeltro.
Alla voce del consigliere fraudolento l’Alighieri dedica ben ventitré terzine, in tal maniera affidando alla narrazione dello stesso di far accenno alla radicata mal sopportazione dantesca nei confronti di papa Bonifacio VIII, dall’autore della Commedia ritenuto il simbolo della corruzione per antonomasia.
Animo d’assoluta fede ghibellina, Guido, nato fra il 1220 ed il 1225, fu podestà d’Urbino e uomo dall’abilissime doti soldatesche, ampiamente dimostrate come comandante, dal 1240 al 1248, dell’esercito forlivese sotto l’imperatore Federico II di Svevia e la cui fama militaresca raggiunse l’apice nel 1268 allorché, in quel di Roma, gli venne affidato ruolo di vicario del comandante dell’esercito imperiale.
Acerrimo combattente per gran parte della sua esistenza, costantemente a sostegno dell’impero, abilità tecniche, astuzia e coraggio gli valsero numerose vittorie che lo portarono ad esser considerato capo supremo dei ghibellini di Romagna, amor di spada ch’andò scemandosi quando fiamma in spirito lo colpì nell’improvvisa ed inaspettata devozione a San Francesco d’Assisi, ragion per cui egli posò provvisoriamente le armi, convertendosi a fede francescana.
Scomunicato un paio di volte, per esser entrato in conflitto con i mercenari pontifici, in tarda età riprese attività di battaglia, infine, nell’ottobre del 1294, venne assolto dalla scomunica da Celestino V, eletto pontefice appena due mesi prima; assoluzione poi confermata l’anno successivo dallo stesso Bonifacio VIII, colui che, nel 1296, concesse a Guido d’entrare a far parte dell’Ordine francescano.
Dopo aver fortemente agito nell’intento di sottomettere a governo della signoria sia le Marche che la Romagna, la sua aspettativa si sbriciolò contro le resistenze della Chiesa e degli Angiò, in un clima peraltro sempre più avverso a concezioni filo imperiali anche a livello territoriale.
Il cavaliere dal cuore impavido chiuse definitivamente le palpebre nel 1298, custodendo in corpo un cuore ch’ebbe la possibilità di battere per la propria terra, nel frattempo strizzando l’occhio al cielo sull’orme del nobile poverello d’Assisi, il cui dolce animo si fece in lui calamitico richiamo.
Vasta e corposa fu la nomea di Guido in terra, lo stesso Dante gli dedicò lusinghiere parole nel Convivio, poi inspiegabilmente decidendo di relegarlo agli inferi, forse essendo venuto a conoscenza del suo accordarsi con Bonifacio VIII, facendo quindi prevalere l’ingannevole rapporto fra i due sull’encomiabili gesta del conte e per l’ennesima volta lasciando trasparire in tutta concretezza da ogni terzina l’ardore con il quale, nel sommo poema, la sua penna si fece portatrice del personal astio contro il deterioramento ecclesiastico, in questo canto lasciato evaporare fra rime in un lungo monologo che s’ode ancor prima di leggerlo.
Già era dritta in sù la fiamma e queta | |
per non dir più, e già da noi sen gia | |
3 | con la licenza del dolce poeta, |
quand’un’altra, che dietro a lei venìa, | |
ne fece volger li occhi a la sua cima | |
6 | per un confuso suon che fuor n’uscia. |
La fiamma d’Ulisse s’è ormai rizzata (Già era dritta in sù) e chetata al fin di tacersi (queta per non dir più), e poi allontanata dai due viandanti (e già da noi sen gia) con il benestare del buon Virgilio (la licenza del dolce poeta), quand’un’altra, che la segue (dietro a lei venìa), attira lo sguardo dei due poeti verso la sua punta (ne fece volger li occhi a la sua cima) a causa dello strano suono proveniente dalla stessa (per un confuso suon che fuor n’uscia).
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima | |
col pianto di colui, e ciò fu dritto, | |
9 | che l’avea temperato con sua lima, |
mugghiava con la voce de l’afflitto, | |
sì che, con tutto che fosse di rame, | |
12 | pur el pareva dal dolor trafitto; |
così, per non aver via né forame | |
dal principio nel foco, in suo linguaggio | |
15 | si convertïan le parole grame. |
Come il (’l) bue siciliano (cicilian), che muggì (mugghiò) una prima volta (prima) con il lamento (pianto) di colui, e ciò fu giusto (dritto), che l’aveva sagomato (temperato) con il proprio lavoro (lima), muggiva poi con la voce della vittima (de l’afflitto) in maniera da sembrare (sì che pur el pareva) trafitto dal dolore, nonostante (con tutto che) fosse di rame, in maniera del tutto simile (così) le affannate (grame) parole, non trovando varco o fuoriuscita (per non aver via né forame) dapprima (dal principio) nel fuoco (foco), trasmutano nel (in) suo linguaggio.
La similitudine rimanda alla favola dell’artigiano Perillo, colui che forgiò un bue di rame per farne dono a Falaride, despota d’Agrigento; la malcapitata vittima veniva inserita nell’animale, poi posto sulle fiamme ed i suoni lamenti, provenienti dall’interno, erano simili a muggiti. Il costruttore, su imposizione del tiranno, fu obbligato a provare di persona la sua metallica ed animalesca invenzione. L’Alighieri ne lesse verosimilmente nell’undicesimo paragrafo del terzo libro di Tristia, opera poetica, in cinque libri, di Ovidio, ed il ritener giusto il patimento dell’inventore può essere ricalchi quanto già affermato dall’antico poeta romano nel suo poema Ars Amatoria, in fede al principio dell’equità; il riportarne nella Commedia, denota in sé l’accezione karmica al ripercuotersi degli eventi nei fautori degli stessi.
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio | |
su per la punta, dandole quel guizzo | |
18 | che dato avea la lingua in lor passaggio, |
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo | |
la voce e che parlavi mo lombardo, | |
21 | dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”, |
perch’io sia giunto forse alquanto tardo, | |
non t’incresca restare a parlar meco; | |
24 | vedi che non incresce a me, e ardo! |
Se tu pur mo in questo mondo cieco | |
caduto se’ di quella dolce terra | |
27 | latina ond’io mia colpa tutta reco, |
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; | |
ch’io fui d’i monti là intra Orbino | |
30 | e ’l giogo di che Tever si diserra». |
Ma dopo le parole stesse aver trovato un percorso d’uscita (poscia ch’ebber colto lor vïaggio) verso (su per) la punta, donandole il movimento linguale caratteristico al loro (dandole quel guizzo che dato avea la lingua al lor) passaggio, i due poetanti sentono (udimmo) dire: “O tu a cui mi rivolgo (a cu’ io drizzo la voce) e che, proprio ora (mo), parlavi con cadenza lombarda (lombardo), affermando (dicendo) – Adesso (Istra) te ne puoi andare (ten va), che non t’aizzo più (più non t’adizzo) al parlare – per quanto io sia arrivato (perch’io sia giunto) forse alquanto tardi (tardo), non ti rincresca (t’incresca) rimanere con me a parlare (restare a parlar meco); nota quanto a me non dispiaccia, nonostante stia bruciando (vedi che non incresce a me, e ardo)! Se tu sei appena precipitato (pur mo caduto se’) in questo oscuro regno (in questo mondo cieco) dalla tua Italia (dolce terra latina), da cui io mi son trascinato con addosso ogni mio peccato (ond’io mia colpa tutta reco), dimmi se i Romagnoli (Romagnuoli) stanno in condizioni di (han) pace o guerra; perch’io (ch’io) provengo dai (fui d’i) monti che si trovano fra Urbino (là intra Orbino) e la catena montuosa dalla quale sgorga il Tevere (’l giogo di che Tever si diserra).
Trattasi delle montagne di Montefeltro, storica regione la cui estensione comprende parte della regione marchigiana, a nord di Pesaro ed Urbino, romagnola, fra Rimini e la Repubblica di San Marino, infine Toscana, nella parte ad est di Arezzo; nella zona dell’Appennino fra Romagna e Toscana sorge il monte Fumaiolo, dalle cui pendici sgorga appunto il fiume Tevere.
Lo spirito parlante fu il conte Guido I di Montefeltro, anima che sull’istante riconosce l’accento del mantovan poeta nel suo rivolgersi ad Ulisse, nello specifico in quell’ “Istra”, forma dialettale alpino-lombarda paragonabile, nel significato, al toscano “issa”.
Io era in giuso ancora attento e chino, | |
quando il mio duca mi tentò di costa, | |
33 | dicendo: «Parla tu; questi è latino». |
Dante sta ancor chinato ed attentamente rivolto a sguardo in giù (Io era in giuso ancora attento e chino), quando il suo duca gli dà colpo nel fianco (il mio duca mi tentò di costa), lui dicendo di parlare in quanto il dannato è d’origini italiane (Parla tu; questi è latino).
E io, ch’avea già pronta la risposta, | |
sanza indugio a parlare incominciai: | |
36 | «O anima che se’ là giù nascosta, |
Romagna tua non è, e non fu mai, | |
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; | |
39 | ma ’n palese nessuna or vi lasciai. |
Pertanto il pellegrino (E io), che già si trova ben pronto a rispondere (ch’avea già pronta la risposta), inizia (incominciai) a parlare senza (senza) indugio, confidando allo spirito, che se ne sta laggiù celato (O anima che se’ là giù nascosta) nel fuoco, di come la sua (tua) Romagna non sia (non é), e non sia mai stata (non fu mai), priva di guerre nei propositi dei suoi dominatori (sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni); sebbene il poeta l’abbia lasciata senza conflitti aperti (ma ’n palese nessuna or vi lasciai).
Ravenna sta come stata è molt’anni: | |
l’aguglia da Polenta la si cova, | |
42 | sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni. |
Egli continua dichiarando che Ravenna si trova nel medesimo stato da molti anni (sta come stata è molt’anni): l’aquila (l’aguglia) dei da Polenta la padroneggia (la si cova), in modo tale da coprire anche Cervia con le sue ali (sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni).
L’accenno si riferisce alla supremazia su Ravenna, ormai estesa anche a Cervia, dell’aristocratica famiglia dei da Polenta, casato la cui egemonia, dall’autore definita “tirannia” per il prepotente perpetrarsi del governo tra generazioni di famiglie, se necessario mantenuto con soprusi, si protrasse dal 1275 al 1441; l’innamorata e sfortunata Francesca da Rimini, protagonista del celebre quinto canto insieme all’adorato Paolo Malatesta, fu appunto figlia di Guido da Polenta, anche detto “Guido il Vecchio” o “il Minore”, condottiero italiano e signore di Ravenna.
La terra che fé già la lunga prova | |
e di Franceschi sanguinoso mucchio, | |
45 | sotto le branche verdi si ritrova. |
La città (terra) che già sopportò lungo assedio (fé già la lunga prova) e dei francesi un sanguinoso massacro (di Franceschi sanguinoso mucchio), or si ritrova sotto le verdi zampe.
Si discorre di Forlì e dello stemma della famiglia Oderlaffi, signoreggiante sulla città tra la fine del tredicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo; l’araldico blasone, dalla forma di cavalleresco scudo, rappresenta un mezzo busto di leone, di tonalità verde su sfondo giallo, in posizione eretta, aspetto ruggente, zampe anteriori e coda ben in vista.
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, | |
che fecer di Montagna il mal governo, | |
48 | là dove soglion fan d’i denti succhio. |
E sia il vecchio quanto il giovane mastino (’l mastin vecchio e ’l nuovo) da Verrucchio, che di Montagna furono pessimi custodi (fecer il mal governo), utilizzano i denti come trivello (fan d’i denti succhio) là dove son soliti farlo (soglion).
Trattasi di Malatesta I e Malatestino, padre e figlio dei Malatesta da Verrucchio, i quali, d’animo in fede alla causa guelfa, si resero protagonisti dell’omicidio di Montagna de’ Parcidadi, trucidato mentre si trovava rinchiuso in carcere; il malcapitato fu discendente da una delle più potenti famiglie ghibelline riminesi ed allora a capo della fazione imperiale degli Omodei, stirpe ella stessa acerrima nemica dei guelfi Gambacerri. Ai tempi era frequente che le fazioni assumessero il nome delle dinastie più influenti, fra le quali, le tre succiate, si scontrarono duramente fin dai primi decenni del tredicesimo secolo, per questioni di potestà sui beni dalla cui gestione il Comune mirava a sollevare la Diocesi di Rimini. I due Malatesta eran soliti lacerare i nemici utilizzando i denti come fossero un trapano (fan d’i denti succhio).
Le città di Lamone e di Santerno | |
conduce il lïoncel dal nido bianco, | |
51 | che muta parte da la state al verno. |
Le città di Lamone e di Santerno, ovvero, rispettivamente, Faenza ed Imola, bagnate dai due fiumi citati, sono entrambe dominate dal leone azzurro in campo bianco (conduce il lïoncel dal nido bianco), che cambia coalizioni dall’estate all’inverno (muta parte da la state al verno).
L’emblema rimanda a Maghinardo Pagani di Susinana, signore d’Imola e Faenza, nonché despota ghibellino, apparentato alla famiglia fiorentina guelfa dei Tosinghi, combattente sia con i guelfi a Campaldino, che con i ghibellini in Romagna, in repentino e camaleontico balzo fra parti, all’insegna del compromesso più accattivante.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, | |
così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, | |
54 | tra tirannia si vive e stato franco. |
Infine la città alla quale il fiume (E quella cu’ il) Savio bagna il fianco, che, così com’ella sta situata fra la pianura e la montagna (‘l piano e ‘l monte), ugualmente vive fra autocrazia e libertà istituzionale (tra tirannia si vive e stato franco).
È Cesena, fisicamente adagiata fra la zona pianeggiante e l’Appennino, come in simil altalenarsi è il suo passaggio dallo stato libero alla tirannica sottomissione.
Ora chi se’, ti priego che ne conte; | |
non esser duro più ch’altri sia stato, | |
57 | se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte». |
A questo punto l’Alighieri prega lo spirito di raccontare chi egli sia (Ora chi se’, ti priego che ne conte); di non esser riluttante più di quanto lo siano stati altri (non esser duro più ch’altri sia stato) nel narrarsi, così che il suo nome possa fronteggiar il tempo (se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte) nel mondo.
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato | |
al modo suo, l’aguta punta mosse | |
60 | di qua, di là, e poi diè cotal fiato: |
Dopo la fiamma aver emesso parecchi sibili (Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato) nella sua maniera (al modo suo), l’acuminata (aguta) punta si muove (mosse) in più direzioni (di qua, di là), poi sfiatando le seguenti parole:
«S’i’ credesse che mia risposta fosse | |
a persona che mai tornasse al mondo, | |
63 | questa fiamma staria sanza più scosse; |
ma però che già mai di questo fondo | |
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, | |
66 | sanza tema d’infamia ti rispondo. |
“S’io pensassi (S’i’ credesse) che la mia risposta sia rivolta a persona che abbia possibilità di ritornare sul mondo terrestre (che mai tornasse al mondo), questa fiamma rimarrebbe senza vibrazioni (questa fiamma staria sanza più scosse), ossia s’immobilizzerebbe e silenzierebbe;
ma considerando che da questo baratro mai nessuno uscì vivo (però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun), ti risponderò (rispondo) senza temere d’esser infamato (sanza tema d’infamia) sulla terra.
Il peccatore parla senza sapere che il poeta sia ancor vivente; rimanendo all’interno del fuoco, infatti, egli non può scorgerne le sembianze e decide dunque di parlare in assoluta libertà, erroneamente convinto che quanto andrà svelando non potrà mai in alcun modo fuoriuscire dai confini dell’infernal regno.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, | |
credendomi, sì cinto, fare ammenda; | |
69 | e certo il creder mio venìa intero, |
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, | |
che mi rimise ne le prime colpe; | |
72 | e come e quare, voglio che m’intenda. |
Io fui uomo d’armi (Io fui uom d’arme), in seguito divenuto francescano (e poi fui cordigliero), fermamente convinto (credendomi), nel cingermi la vita con il cordone (sì cinto) dei frati, di poter scontare i miei peccati (fare ammenda); e sicuramente la mia ambizione si sarebbe concretizzata (certo il creder mio venìa intero), se non fosse che il papa (il gran prete), che gli venisse un colpo (a cui mal prenda!), mi ricondusse a peccare (mi rimise ne le prime colpe); e desidero che tu sappia (voglio che m’intenda) come e perché (quale).
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe | |
che la madre mi diè, l’opere mie | |
75 | non furon leonine, ma di volpe. |
Fintantoché fui anima (Mentre ch’io forma fui) dell’ossa e della carne donatemi da mia madre (che la madre mi diè) le mie opere non furono di leone (leonine), ma di volpe.
Il conte non basò indi le sue gesta sulla violenza, ma sulla scaltrezza.
Li accorgimenti e le coperte vie | |
io seppi tutte, e sì menai lor arte, | |
78 | ch’al fine de la terra il suono uscie. |
Io conobbi ogni espediente ed ogni simulazione (Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte), e ne governai le procedure talmente bene (sì menai lor arte), che la mia nomea s’estese ai confini del mondo (ch’al fine de la terra il suono uscie).
Quando mi vidi giunto in quella parte | |
di mia etade ove ciascun dovrebbe | |
81 | calar le vele e raccoglier le sarte, |
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, | |
e pentuto e confesso mi rendei; | |
84 | ahi miser lasso! e giovato sarebbe. |
Quando mi vidi giunto in quella parte della mia esistenza (etade) dove (ove) ogni individuo (ciascun) dovrebbe ammainar (calar) le vele ed avvolger le sartie (le sarte), ciò che prima mi dilettava (pria mi piacëa), iniziò a rattristarmi (allor m’increbbe), perciò mi convertii (rendei), pentito e confessato (pentuto e confesso); ahi povero me (mister lasso)! Di certo questo avrebbe dovuto giovarmi (e giovato sarebbe).
La marinaresca metafora paragona il calar delle vele per riparare in porto, alla vecchiaia.
Lo principe d’i novi Farisei, | |
avendo guerra presso a Laterano, | |
87 | e non con Saracin né con Giudei, |
ché ciascun suo nimico era cristiano, | |
e nessun era stato a vincer Acri | |
90 | né mercatante in terra di Soldano, |
né sommo officio né ordini sacri | |
guardò in sé, né in me quel capestro | |
93 | che solea fare i suoi cinti più macri. |
Il (Lo) principe dei nuovi (d’i novi) Farisei, in fase di combattimento nei pressi di (avendo guerra presso a) Laterano, e non contro Saraceni o Giudei (con Saracin né con Giudei), in quanto ogni suo nemico (ché ciascun suo nimico) era cristiano, e nessuno di loro aveva partecipato alla conquista (nessun era stato a vincer d’Acri), tantomeno (né) mercanteggiato (né mercatante) nei territori del (in terra di) Soldano, non si curò minimamente né del sommo officio né degli ordini sacerdotali (né ordini sacri guardò in sé), e nemmeno di quel cordone francescano ch’era solito smagrire chi lo portasse (che solea fare i suoi cinti più macri).
Il papa citato fu Bonifacio VIII che, al periodo in questione, era impegnato in una dura battaglia contro i cristiani allo scopo di espugnare Palestrina, attuale comune romano; il conflitto ebbe inizio nel 1297 con assedio della città laziale di oltre un anno che, nel 1298, s’arrese per sfinimento fisico delle truppe capeggiate dai Colonna, nobile famiglia dominante sulla cittadina fin dal primo decennio del dodicesimo secolo. Il consiglio militare richiesto dal papa a Guido derivò appunto dalla lunghezza di una guerra che sembrava non aver mai fine, nell’intento di ricever soldatesco consiglio per riuscire a sconfiggere il nemico.
Tramite le parole del dannato dante tiene a sottolineare che i cristiani avversari di Bonifacio, non si erano uniti ai musulmani nell’assedio d’Acri e neppure si erano resi mercanti al fianco degli stessi in Terrasanta.
Acri è attualmente cittadina facente parte dello Stato d’Israele. Quello che storicamente è conosciuto come l’assedio di San Giovanni d’Acri, fu un conflitto del 1291 al termine del quale i musulmani estirparono ai Crociati il dominio della città; ne conseguì il cessar delle Crociate in Oriente, il crollo del regno di Gerusalemme e l’espulsione delle milizie dalla Terrasanta.
Ma come Costantin chiese Silvestro | |
d’entro Siratti a guerir de la lebbre, | |
96 | così mi chiese questi per maestro |
a guerir de la sua superba febbre; | |
domandommi consiglio, e io tacetti | |
99 | perché le sue parole parver ebbre. |
Ma come Costantino convocò (chiese) papa Silvestro in una delle grotte del monte Soratte (d’entro Siratti) al fin di guarirlo dalla lebbra (a guerir de la lebbre), così mi convocò lui come medico (così mi chiese questi per maestro) per guarirlo dalla sua febbrile superbia; mi chiese (domandommi) consiglio ed io rimasi in silenzio (tacetti) in quanto le sue parole mi parvero (parver) ebbre.
Sulla leggenda secondo la quale Costantino venne guarito dalla lebbra grazie a papa Silvestro, ne riportano i versi 115-116-117 del diciannovesimo canto infernale (Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!), con relativo accenno al dono delle chiavi celesti in segno di riconoscenza per la guarigione ricevuta.
(Dal XIX canto: Crescente corruzione della chiesa romana che l’autore della commedia metaforizza in una grande meretrice, intenta a “puttaneggiare coi regi”, simbolizzate una progressiva perdità di moralità che Dante attribuisce in origine all’imperatore Costantino il quale, dopo essersi convertito al cristianesimo, avrebbe donato la città di Roma al papa Silvestro I, come gratitudine al fatto d’esser stato battezzato e guarito dalla lebbra.
L’autenticità della tal donazione, un secolo dopo circa, sarà confutata dallo scrittore umanista, filologo, filosofo ed accademico Lorenzo Valla in un libro, De Falso Credita Ed Ementita Constantini Donatione, scritto nel 1440 ed uscito in prima pubblicazione nel 1517).
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; | |
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare | |
102 | sì come Penestrino in terra getti. |
Lo ciel poss’io serrare e diserrare, | |
come tu sai; però son due le chiavi | |
105 | che ’l mio antecessor non ebbe care”. |
E poi ridisse che il mio cuor non avesse timori (Tuo cuor non sospetti); ch’egli l’avrebbe assolto sull’istante (finor t’assolvo), in cambio d’un addestramento che fosse finalizzato a radere al suolo Palestrina (e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti). In quanto in potere, come da me saputo (come tu sai), d’aprire e chiudere il cielo (Lo ciel poss’io serrare e diserrare); essendo le due (però son due le) chiavi celesti non care al suo predecessore (che ’l mio antecessor non ebbe care).
Il predecessore a cui accenna Bonifacio VIII è Celestino V, che al pellegrino parve di riconoscere fra gli ignavi, nel terzo canto.
Allor mi pinser li argomenti gravi | |
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, | |
108 | e dissi: “Padre, da che tu mi lavi |
di quel peccato ov’io mo cader deggio, | |
lunga promessa con l’attender corto | |
111 | ti farà trïunfar ne l’alto seggio”. |
Cosicché quell’autorevoli argomentazioni mi persuasero (Allor mi pinser li argomenti gravi) nel creder che il tacere sarebbe stato (’ve ’l tacer mi fu avviso ’l) peggio, e dissi al Padre che, considerando il suo assolvermi (da che tu mi lavi) da quel peccato in cui stavo in quel momento per ricadere (di quel peccato ov’io mo cader deggio), il prometter tanto (lunga promess) mantenendo poco (con l’attender corto) l’avrebbe portato al trionfo su trono pontificio (ti farà trïunfar ne l’alto seggio).
Ecco dunque il fraudolento consiglio ch’elevò al potere il papa, condannando agli inferi il frate consigliere: Bonifacio VIII s’impegnò infatti nel far laute promesse di perdono ai suoi nemici, al fin di spronarli a radere al suolo Palestrina, come fecero, poi tradendoli nel non mantener quanto garantito.
Francesco venne poi, com’io fu’ morto, | |
per me; ma un d’i neri cherubini | |
114 | li disse: “Non portar; non mi far torto. |
San Francesco giunse poi a prendermi (Francesco venne poi per me), non appena fui (com’io fu’) morto; ma un diavolo (un d’i neri cherubini) gli (li) disse di non portarmi (portar) via; di non fargli (non mi far) torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini | |
perché diede ’l consiglio frodolente, | |
117 | dal quale in qua stato li sono a’ crini; |
ch’assolver non si può chi non si pente, | |
né pentere e volere insieme puossi | |
120 | per la contradizion che nol consente”. |
Poiché secondo lui avrei dovuto scender giù insieme ai suoi dannati (Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini) per aver dato fraudolento consiglio (perché diede ’l consiglio frodolente), ragion per cui il demone gli stava alle calcagna (dal quale in qua stato li sono a’ crini); che assolvere chi non si pente è impossibile (ch’assolver non si può chi non si pente), né ci si può pentire e voler peccare nello stesso momento (né pentere e volere insieme puossi) per la contraddizione stessa che non lo consente (per la contradizion che nol consente).
Oh me dolente! come mi riscossi | |
quando mi prese dicendomi: “Forse | |
123 | tu non pensavi ch’io löico fossi!”. |
Oh povero me (me dolente)! quanto mi disillusi (come mi riscossi) quando m’acchiappò (mi prese) dicendomi che forse io non pensavo che lui fosse filosofo (tu non pensavi ch’io löico fossi!)
A Minòs mi portò; e quelli attorse | |
otto volte la coda al dosso duro; | |
126 | e poi che per gran rabbia la si morse, |
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; | |
per ch’io là dove vedi son perduto, | |
129 | e sì vestito, andando, mi rancuro». |
Mi condusse da Minosse (A Minòs mi portò); e costui m’attorcigliò (quelli attorse) per otto volte la coda attorno alla dura schiena (al dosso duro); e dopo che per smisurata ira (e poi che per gran rabbia) se la (la si) morse, decretò (disse) a gran voce ch’io fossi destinato a stare con i dannati che dal fuoco son levati della vista (Questi è d’i rei del foco furo), questo il motivo per cui son maledetto là dove mi vedi (per ch’io là dove vedi son perduto), e così vestito, ossia avvolto dal fuoco, marciando (andando), mi tormento (rancori)”.
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto, | |
la fiamma dolorando si partio, | |
132 | torcendo e dibattendo ’l corno aguto. |
Terminata la sua narrazione (Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto), la fiamma s’allontana dolorante (dolorando si partio), contorcendo (torcendo) e dimenando (dibattendo) l’aguzza punta (’l corno aguto).
Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio, | |
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco | |
135 | che cuopre ’l fosso in che si paga il fio |
Il poeta ed il suo duca proseguono (Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio), risalendo per il ponte fino al successivo (su per lo scoglio infino in su l’altr’arco), quello che sovrasta la bolgia in cui si trovano a pagar tributo (che cuopre ’l fosso in che si paga il fio)
136 | a quei che scommettendo acquistan carco. |
coloro (a quei) che, per aver provocato dissidi (scommettendo), si caricano della tal colpa (acquistan carco).
All’agghiacciante visione della nona bolgia, Dante si chiederà chi “poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?”…
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