Divina Commedia: Inferno, Canto XXIV
Divina Commedia, ca. 1370, Additional Manuscript 19587, British Library
Durante il tragitto fra la sesta e la settima bolgia, Dante marcia pensieroso, dispiaciuto riguardo all’atteggiamento contrariato di Virgilio all’udir le mordaci parole di Frate Catalano sull’indole menzognera di Malacoda; ma, con compiaciuto stupore del pellegrino, il vate si raddolcisce in breve tempo ed il suo rasserenarsi viene ricamato fra terzine dall’incantevole similitudine del pastore che, scoraggiato alla vista della brina che gli impedisce di portar il gregge al pascolo, si rianima repentinamente allo scioglimento della stessa.
Il canto prosegue fra amorevolezza e severità, essendo che dapprima il maestro affettuosamente sospinge il suo protetto aiutandolo nella ripida scalata, poi rimproverandolo quando lo stesso afferma di sentirsi stanco, dimostrandosi affaticato nel proseguire.
Rimproverato dal duca, i due si ritrovano sulla sommità del ponte che sovrasta il settimo fossato e le anime che gli stessi vedono incedere di sotto, appartengono ai ladri, coloro fra i quali spicca la sanguinaria personalità di Vanni Fucci, colui che s’intratterrà con i due viandanti, incalzando il discepolo ad ascoltare la sua predizione.
La sua profezia è la quarta ad accorare l’animo dell’Alighieri.
La prima trovò voce nel goloso Ciacco, sul futuro politico di Firenze: “Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia. Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l’altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n’aonti” (Inferno, Canto VI, vv. 64-72);
La seconda vibrò sull’aristocratiche ugole di Farinata degli Uberti, nel predire l’esilio dantesco e l’impossibilità di riposar piede in suolo natio per i fiorentini cacciati “Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa” (Inferno Canto X, vv. 79-81);
La terza ad opera del caro amico Brunetto Latini, pronosticando la generale invidia suscitata dalla gloriosa fama di Dante “Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico” (Inferno, Canto XV, vv. 61-64).
Il prenunzio di Fucci si conclude con intenzionale ed inclemente battuta nei confronti del poeta, pronunciata nell’infame intento di provocargli sofferenza.
In quella parte del giovanetto anno | |
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra | |
3 | e già le notti al mezzo dì sen vanno, |
quando la brina in su la terra assempra | |
l’imagine di sua sorella bianca, | |
6 | ma poco dura a la sua penna tempra, |
lo villanello a cui la roba manca, | |
si leva, e guarda, e vede la campagna | |
9 | biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, |
ritorna in casa, e qua e là si lagna, | |
come ’l tapin che non sa che si faccia; | |
12 | poi riede, e la speranza ringavagna, |
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia | |
in poco d’ora, e prende suo vincastro | |
15 | e fuor le pecorelle a pascer caccia. |
In quella stagione (parte) dell’anno da poco iniziato (del giovanetto anno), in cui il sole intiepidisce (che ’l sole tempra) i raggi (crin) sotto il segno dell’Acquario (sotto l’Aquario) e le notti cominciano a durare meno di mezza giornata (e già le notti al mezzo dì sen vanno), quando la brina ricalca (assempra) sulla (in su la) terra l’immagine della sorella neve (di sua sorella bianca), ma la sua copia (la sua penna) poco dura ed immediatamente si discioglie (tempra), il giovane pastore (lo villanello), al quale manca il foraggio, si alza (leva) ed osserva (e guarda), vedendo (e vede) la campagna biancheggiare in toto; dunque egli (ond’ei) si dà una pacca sull’anca (si batte l’anca), rincasa (ritorna in casa) e si lamenta mentre cammina avanti e indietro (e qua e là si lagna), come il povero (’l tapin) che non sa più che inventarsi; poi ritorna a vedere fuori (riede), e riacquista la speranza (ringavagna) notando (vedendo) che il paesaggio ha cambiato fattezza (’l mondo aver cangiata faccia) in un battibaleno (in poco d’ora), perciò afferra (e prende) il suo bastoncello di salice (vincastro) e spinge fuori (fuor caccia) le pecorelle a pascolare (a pascer).
Così mi fece sbigottir lo mastro | |
quand’io li vidi sì turbar la fronte, | |
18 | e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; |
ché, come noi venimmo al guasto ponte, | |
lo duca a me si volse con quel piglio | |
21 | dolce ch’io vidi prima a piè del monte. |
Così il maestro ha provocato sbigottimento nel suo discepolo (Così mi fece sbigottir lo mastro) quando quest’ultimo l’ha osservato corrucciarsi intensamente (quand’io li vidi sì turbar la fronte), ma, con la stessa velocità (e così tosto) del pastore, al suo tarlo (mal) giunge sollievo (giunse lo ’mpiastro); al punto che (ché), una volta arrivati i due viandanti al ponte crollato (guasto), il duca gli si rivolge (a me si volse) con lo stesso amorevole atteggiamento (piglio dolce) che Dante aveva percepito (ch’io vidi) al loro primo incontro (prima), ai piedi della collina (a piè del monte).
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio | |
eletto seco riguardando prima | |
24 | ben la ruina, e diedemi di piglio. |
A questo punto Virgilio, ragionando fra sé e sé (dopo alcun consiglio eletto seco) dopo aver scrutato per bene la franosa sponda (riguardando prima ben la ruina), spalanca (aperse) le braccia e solleva il pellegrino (e diedemi di piglio) per aiutarlo nella scalata.
E come quei ch’adopera ed estima, | |
che sempre par che ’nnanzi si proveggia, | |
27 | così, levando me sù ver’ la cima |
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia | |
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa; | |
30 | ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia». |
E come colui che mentre passa all’azione contemporaneamente esamina ciò che dovrebbe fare (quei ch’adopera ed estima), al punto da sembrar programmare la manovra successiva (che sempre par che ’nnanzi si proveggia), così, sospingendo il poeta verso la sporgenza d’una roccia (levando me sù ver’ la cima d’un ronchione), adocchia un’altra prominenza (avvisava un’altra scheggia), indicandola (dicendo) all’Alighieri come la successiva alla quale aggrapparsi (Sovra quella poi t’aggrappa), facendo però, prima, attentenzione (ma tenta pria) a valutar s’essa sia in grado di reggere il suo peso (s’è tal ch’ella ti reggia).
Non era via da vestito di cappa, | |
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, | |
33 | potavam sù montar di chiappa in chiappa. |
Quel percorso non sarebbe certo stato percorribile con indosso una cappa (Non era via da vestito di cappa), in quanto a malapena i due poetanti (ché noi a pena), il vate (ei), in quanto spirito, leggero (lieve) e Dante indotto (sospinto), riescono a salire (potavam sù montar) di rilievo in rilievo (di chiappa in chiappa).
E se non fosse che da quel precinto | |
più che da l’altro era la costa corta, | |
36 | non so di lui, ma io sarei ben vinto. |
E se non fosse stato che da quella parte dell’argine (da quel precinto), il pendio si presenta più breve (era la costa corta) rispetto all’altra (più che da l’altro), Dante, senza saper cos’avrebbe fatto il suo maestro, sa che si sarebbe dato per vinto (non so di lui, ma io sarei ben vinto).
Ma perché Malebolge inver’ la porta | |
del bassissimo pozzo tutta pende, | |
39 | lo sito di ciascuna valle porta |
che l’una costa surge e l’altra scende; | |
noi pur venimmo al fine in su la punta | |
42 | onde l’ultima pietra si scoscende. |
Ma siccome il cerchio Malebolge declina (Ma perché Malebolge tutta prende) verso (inver’) la porta del profondo (bassissimo) pozzo, la conformazione di ciascuna bolgia (lo sito di ciascuna valle) comporta che una cresta precedente sia più alta dell’altra (porta che l’una costa surge e l’altra scende); infine i due viandanti raggiungono la sommità dell’argine (noi pur venimmo al fine in su la punta), da cui si sporge nel vuoto l’ultimo masso (onde l’ultima pietra si scoscende).
La degradante struttura, simile ad un imbuto, dell’inferno, prevede che ogni stratificazione, discendendo, s’accorci rispetto alla precedente, tuttavia accentuandosi nella pendenza.
La lena m’era del polmon sì munta | |
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, | |
45 | anzi m’assisi ne la prima giunta. |
Una volta raggiunta la cima (quand’io fui sù), il pellegrino ha espirato talmente tanto fiato dai polmoni (La lena m’era del polmon sì munta), da esser impossibilitato a proseguire (ch’i’ non potea più) oltre, anzi, egli si siede non appena terminato il tragitto (anzi m’assisi ne la prima giunta).
«Omai convien che tu così ti spoltre», | |
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, | |
48 | in fama non si vien, né sotto coltre; |
sanza la qual chi sua vita consuma, | |
cotal vestigio in terra di sé lascia, | |
51 | qual fummo in aere e in acqua la schiuma. |
Il maestro lo incalza dicendogli (disse ’l maestro) esser ormai (omai) arrivato il momento che il poeta si riattivi completamente (Omai convien che tu così ti spoltre), in quanto oziando sui cuscini (seggendo in piuma), non si raggiunge la celebrità (in fama non si vien), tantomeno (né) stando sotto le coperte (coltre); e chi spreca la propria esistenza senza fama (sanza la qual chi sua vita consuma), in terra lascia una traccia di sé (cotal vestigio in terra di sé lascia) al pari di quella lasciata dal fumo nell’aria (qual fummo in aere) e dalla schiuma sull’acqua (e in acqua la schiuma).
E però leva sù; vinci l’ambascia | |
con l’animo che vince ogne battaglia, | |
54 | se col suo grave corpo non s’accascia. |
Cosicché la guida intima al suo protetto d’alzarsi (E però leva sù); di vincere sulla stanchezza (vinci l’ambascia) con l’animo di chi consegue vittoria in ogni (che vince ogne) battaglia, sempre che non s’accasci con il suo greve corpo (se col suo grave corpo non s’accascia).
Più lunga scala convien che si saglia; | |
non basta da costoro esser partito. | |
57 | Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia.» |
Egli gli rammenta che i due dovranno percorrere salita ben più considerevole (Più lunga scala convien che si saglia); non è sufficiente dipartirsi dai dannati (non basta da costoro esser partito). E se le parole del suo maestro gli son ben chiare (Se tu mi ’ntendi) che il discepolo sappia farne tesoro (or fa sì che ti vaglia).
La ragguardevole salita a cui si riferisce Virgilio è quella che li condurrà per i vari livelli del Purgatorio. Egli sottolinea al suo protetto di come, a fini espiatori, non sia sufficiente discendere per gli infernali abissi, ma che l’intero processo di redenzione prevede un’immersione nelle oscurità della propria coscienza ed un riconoscimento delle stesse come maligne, allo scopo di raggiungere una consapevolezza dalla quale risalire plasmandosi gradualmente a volontà divina tramite il riconoscimento del male, da esso affrancandosi ed adoperandosi al meglio per spendersi, al contrario, in opere di bene, nel tendere alla gloria celeste.
Leva’ mi allor, mostrandomi fornito | |
meglio di lena ch’i’ non mi sentia, | |
60 | e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito». |
All’udir tali parole l’Alighieri s’alza (Leva’ mi allor) repentino, mostrandosi dotato d’energia più di quanto ne possegga realmente (mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia), poi dicendo (e dissi) a Virgilio di proseguire, in tal modo nella volontà di dimostrarsi forte e coraggioso (Va, ch’i’ son forte e ardito).
Su per lo scoglio prendemmo la via, | |
ch’era ronchioso, stretto e malagevole, | |
63 | ed erto più assai che quel di pria. |
Sicché i due poetanti s’incamminano per il ponte (Su per lo scoglio prendemmo la via), ch’è pieno di spunzoni (ch’era ronchioso), stretto e malagevole, inoltre molto più ripido dell’antecedente (ed erto più assai che quel di pria).
Parlando andava per non parer fievole; | |
onde una voce uscì de l’altro fosso, | |
66 | a parole formar disconvenevole. |
Dante marcia nel frattempo conversando (Parlando andava) per non dar l’idea d’esser debole (parer fievole), quando, dal nuovo fossato, percepisce un vociferare (onde una voce uscì de l’altro fosso) alquanto disconnesso nell’articolazione del discorso (a parole formar disconvenevole).
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso | |
fossi de l’arco già che varca quivi; | |
69 | ma chi parlava ad ire parea mosso. |
Il pellegrino non ne comprende il contenuto (Non so che disse), nonostante si trovi sulla sommità del cavalcavia che sovrasta la bolgia (ancor che sovra ’l dosso fossi de l’arco già che varca quivi); ma il tono di voce di chi parla arriva parecchio irato (ma chi parlava ad ire parea mosso).
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi | |
non poteano ire al fondo per lo scuro; | |
72 | per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi |
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; | |
ché, com’i’ odo quinci e non intendo, | |
75 | così giù veggio e neente affiguro». |
Lo sguardo del poeta è fisso verso il basso (Io era vòlto in giù), ma l’acuità della vista (li occhi vivi) non riesce comunque a raggiungere il (non poteano ire al) fondo a causa dell’offuscamento (per lo scuro); perciò egli chiede (per ch’io) al maestro di poter raggiungere il ciglione opposto (fa che tu arrivi da l’altro cinghio), in maniera da poter calarsi per la scoscesa parete dell’argine (e dismontiam lo muro); perch’egli, come da lì sopra ove si trova sente senza comprender il significato delle parole (ché, com’i’ odo quinci e non intendo), allo stesso modo vede di sotto senza nulla riconoscere (così giù veggio e neente affiguro).
«Altra risposta», disse, «non ti rendo | |
se non lo far; ché la dimanda onesta | |
78 | si de’ seguir con l’opera tacendo.» |
Il vate afferma (disse) di non esser necessaria risposta alla sua richiesta (Altra risposta non ti rendo) se non il mettere in pratica quanto dall’Alighieri proposto (se non lo far), in quanto la miglior riposta ad una domanda ragionevole (ché la dimanda onesta) è il silenzio seguito dai fatti (si de’ seguir con l’opera tacendo).
dove s’aggiugne con l’ottava ripa, | |
81 | e vidivi entro terribile stipa |
e vidivi entro terribile stipa | |
di serpenti, e di sì diversa mena | |
84 | che la memoria il sangue ancor mi scipa. |
I due viandanti discendono dunque verso l’estremità del viadotto (Noi discendemmo il ponte da la testa), verso il punto in cui lo stesso si collega con la sponda che divide la settima bolgia dall’ottava (dove s’aggiugne con l’ottava ripa) e Dante, finalmente raggiunta una postazione che gli permetta di ben distinguere le immagini, vede al suo interno (e vidivi entro) un raccapricciante ammasso di serpi (terribile stipa di serpenti) di così variegato genere (e di sì diversa mena), da raggelarsi ancora il sangue al sol pensiero (che la memoria il sangue ancor mi scipa).
Più non si vanti Libia con sua rena; | |
ché se chelidri, iaculi e faree | |
87 | produce, e cencri con anfisibena, |
né tante pestilenzie né sì ree | |
mostrò già mai con tutta l’Etïopia | |
90 | né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. |
All’impressionante vista, Dante pensa che la Libia, con i suoi deserti, dovrebbe cessar di vantarsi (Più non si vanti Libia con sua rena), in quanto, sebben produca (ché se produce) numerose varietà di rettili quali chelidri, siculi e faree, e ancora cencri e anfisibene (con anfisibena), mai enumerò (mostrò) cotanti animali, così nauseabondi e minacciosi (né tante pestilenzie né sì ree), con l’intero stato etiope (tutta l’Etïopia), tantomeno con tutte le regioni nei pressi del Mar Rosso (né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe).
Nominando la regione libica in esclusivo riferimento al Sahara, l’etiope in richiamo al deserto di Nubia ed il Mar Rosso alle desertiche superfici alle sue acque affacciate, l’autore delle Commedia elenca in seguito nomi di rettili di provenienza fantastica, verosimilmente in aggancio al nono libro della Farsaglia di Lucano dove le serpi vengono citate a partire dal settecentoundicesimo versetto.
Tra questa cruda e tristissima copia | |
corrëan genti nude e spaventate, | |
93 | sanza sperar pertugio o elitropia: |
con serpi le man dietro avean legate; | |
quelle ficcavan per le ren la coda | |
96 | e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate. |
In mezzo a quest’atroce ed infausta (Tra questa cruda e tristissima) calca (copia) corrono anime (corrëan genti) nude e spaventate, senza speranza di trovare un riparo (sanza sperar pertugio) o un antidoto (elitropia): hanno le mani legate con i serpenti dietro la schiena (con serpi le man dietro avean legate); gli stessi (quelle), avvolgendone i reni (ficcavan per le ren) con la coda e la testa (’l capo), li annodano sul ventre dei dannati (ed eran dinanzi aggroppate).
Ed ecco a un ch’era da nostra proda, | |
s’avventò un serpente che ’l trafisse | |
99 | là dove ’l collo a le spalle s’annoda. |
Ed ecco che su uno spirito che si trova dalla stessa parte dei due poeti (a un ch’era da nostra proda), si scaglia (s’avventò) un serpente che lo infilza (’l trafisse) fra collo e spalle (là dove ’l collo a le spalle s’annoda), all’altezza della gola.
Né O sì tosto mai né I si scrisse, | |
com’el s’accese e arse, e cener tutto | |
102 | convenne che cascando divenisse; |
Il dannato s’infiamma, brucia (com’el s’accese e arse) e s’incenerisce completamente precipitando al suolo (e cener tutto convenne che cascando divenisse), ed il tutto avviene ad una tal velocità che, al confronto, mai si riuscirono a scrivere una O od una I in maniera tanto celere (Né O sì tosto mai né I si scrisse);
e poi che fu a terra sì distrutto, | |
la polver si raccolse per sé stessa | |
105 | e ’n quel medesmo ritornò di butto. |
E dopo essersi così polverizzato a terra (e poi che fu a terra sì distrutto), la cenere (polver) si ricompatta da sé (la polver si raccolse per sé stessa) e, di botto (butto), egli riacquista le precedenti sembianze (’n quel medesmo ritornò).
Così per li gran savi si confessa | |
che la fenice more e poi rinasce, | |
108 | quando al cinquecentesimo anno appressa; |
Similarmente (Così), come attestano (si confessa) i grandi poeti (per li gran savi), la fenice, all’approssimarsi (quando appressa) dei cinque secoli (al cinquecentesimo anno) di vita, muore (more) e poi rinasce;
erba né biado in sua vita non pasce, | |
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, | |
111 | e nardo e mirra son l’ultime fasce. |
durante il corso della (in) sua vita la stessa non si nutre (non pasce) né di erba né di biada (biado), ma esclusivamente (sol) di gocce (lagrime) d’incenso e d’estratto di cardamomo (amomo), poi, poco prima di morire, adagiandosi in un nido costituito di nardo e mirra (e nardo e mirra son l’ultime fasce).
La Fenice, come narrato da Ovidio nel quindicesimo libro delle Metamorfosi, perisce ogni cinquecento anni quando, vicina al termine della sua esistenza, costruisce un giaciglio di mirra e nardo per adagiarvisi ed incenerirsi fra le loro essenze, poi, appunto, rinascendo dalle sue stesse ceneri; il nardo è infatti una remota essenza orientale, forse ricavata dall’olio di lavanda, mentre la mirra, gommoresina derivante dalla scorza del tronco di alcune piante, venne anticamente utilizzata, oltre a fini curativi, per la particolarità del suo profumo.
E qual è quel che cade, e non sa como, | |
per forza di demon ch’a terra il tira, | |
114 | o d’altra oppilazion che lega l’omo, |
quando si leva, che ’ntorno si mira | |
tutto smarrito de la grande angoscia | |
117 | ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: |
tal era ’l peccator levato poscia. | |
Oh potenza di Dio, quant’è severa, | |
120 | che cotai colpi per vendetta croscia! |
Il peccatore (’l peccator) incenerito, non appena rialzatosi (levato poscia), si comporta nello stesso modo tal era) di colui che, caduto (E qual è quel che cade) senza conoscerne i motivi (e non sa como), che sia avvenuto per demoniaca forza che trascina a terra (per forza di demon ch’a terra il tira), oppure a causa d’un’invalidante ostruzione cerebrale (o d’altra oppilazion che lega l’omo), una volta rialzatosi (quando si leva) osserva tutt’intorno (che ’ntorno si mira), fortemente spaesato (tutto smarrito) in conseguenza all’immensa (de la grande) angoscia ch’egli ha appena sperimentato (ch’elli ha sofferta), e che, mentre guarda (guardando), sospira. La misera visione, suscita in Dante un’esclamazione rivolta alla potenza divina (Oh potenza di Dio), constatando quanto la stessa sia rigorosa (quant’è severa) nell’applicare la propria giustizia (per vendetta) infliggendo (croscia) tali (che cotai) colpi.
La “forza di demon ch’a terra il tira” e “d’altra oppilazion che lega l’omo”, sono entrambe espressioni che rievocano gli effetti di una crisi epilettica, nel primo caso secondo l’accezione popolare del periodo che ne considerava la causa imputabile a demoniache forze, nel secondo in base a convinzioni mediche del periodo, che la immaginavano conseguenza d’un intoppo dei vasi sanguigni cerebrali.
Lo duca il domandò poi chi ello era; | |
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, | |
123 | poco tempo è, in questa gola fiera. |
Il duca gli domanda quindi chi egli sia (Lo duca il domandò poi chi ello era); al che il dannato risponde (per ch’ei rispuose) d’esser piombato (piovvi) in quella fossa straziante (in questa gola fiera) da poco tempo, giungendoci (di) dalla Toscana.
Vita bestial mi piacque e non umana, | |
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci | |
126 | bestia, e Pistoia mi fu degna tana». |
Egli narra d’essersi compiaciuto nel condurre una ferina e disumana esistenza (Vita bestial mi piacque e non umana), da quel bastardo che fu (sì come a mul ch’i’ fui); rivela d’esser (son) Vanni Fucci, la bestia, ed essergli stata (mi fu) la città di Pistoia degna tana ove sfogar la propria brutalità.
E ïo al duca: «Dilli che non mucci, | |
e domanda che colpa qua giù ’l pinse; | |
129 | ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci». |
Il pellegrino sprona il duca (E ïo al duca) a dirgli di non tergiversare (Dilli che non mucci), direttamente domandandogli quale sia la colpa che lo ha relegato in quella determinata bolgia (e domanda che colpa qua giù ’l pinse); l’insistenza dell’Alighieri deriva dalla sua convinzione di conoscerlo e d’averlo visto con i propri occhi (ch’io ’l vidi), ricordandolo come un uomo truculento e rissoso (omo di sangue e di crucci).
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, | |
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, | |
132 | e di trista vergogna si dipinse; |
poi disse: «Più mi duol che tu m’ hai colto | |
ne la miseria dove tu mi vedi, | |
135 | che quando fui de l’altra vita tolto. |
Io non posso negar quel che tu chiedi; | |
in giù son messo tanto perch’io fui | |
138 | ladro a la sagrestia d’i belli arredi, |
e falsamente già fu apposto altrui. | |
Ma perché di tal vista tu non godi, | |
141 | se mai sarai di fuor da’ luoghi bui, |
apri li orecchi al mio annunzio, e odi. | |
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; | |
144 | poi Fiorenza rinova gente e modi. |
Tragge Marte vapor di Val di Magra | |
ch’è di torbidi nuvoli involuto; | |
147 | e con tempesta impetüosa e agra |
sovra Campo Picen fia combattuto; | |
ond’ei repente spezzerà la nebbia, | |
150 | sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto. |
E il peccatore (’l peccator), udendo quelle affermazioni (che ’ntese), non si tira indietro (non s’infinse), ma punta deciso verso il poeta l’animoso sguardo (ma drizzò verso me l’animo e ’l volto), arrossendo (si dipinse) d’accigliata (trista) vergogna;
poi, rivolgendosi a Dante, affermando (disse): “M’addolora maggiormente il fatto che tu m’abbia scoperto (Più mi duol che tu m’ hai colto) nell’ignominioso luogo in cui mi trovo (ne la miseria dove tu mi vedi), rispetto al dolore conseguente all’esser stato privato della vita terrestre (che quando fui de l’altra vita tolto).
Io non posso negar riposta al tuo quesito (quel che tu chiedi); son stato confinato in tali profondità (in giù son messo tanto) perch’io fui ladro di preziosi arredi in sacrestia (a la sagrestia d’i belli arredi), azione che, erroneamente, fu imputata ad altri (e falsamente già fu apposto altrui). Ma affinché tu non tragga appagamento dall’avermi visto in codesto luogo (perché di tal vista tu non godi), sempre che tu riesca a fuoriuscire dell’oltretomba (se mai sarai di fuor da’ luoghi bui), apri bene le orecchie ed ascolta quanto ti preannuncerò (li orecchi al mio annunzio, e odi). Pistoia, dapprima, si spopolerà dei guelfi neri (in pria d’i Neri si dimagra); in seguito sarà Firenze a cambiar governanti e regime (poi Fiorenza rinova gente e modi).
Marte, dio della guerra, caverà dalla Val di Magra una folgore infuocata (Tragge Marte vapor di Val di Magra) involta e pressata fra turbolente nubi (ch’è di torbidi nuvoli involuto); fintantoché una dirompente ed aspra bufera (e con tempesta impetüosa e agra) imperverserà e si combatterà nelle campagne pistoiesi (sovra Campo Picen fia combattuto); quindi la saetta squarcerà la nebbia (ond’ei repente spezzerà la nebbia), facendo in modo che ogni guelfo bianco venga annientato (sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto).
151 | E detto l’ ho perché doler ti debbia!». |
E te l’ho detto al fin di causarti sofferenza!” (detto l’ ho perché doler ti debbia).
Figlio illegittimo dell’aristocratico Fuccio (guelfuccio) dei Lazzari, una delle più potenti famiglie pistoiesi, Vanni Fucci, vissuto nel tredicesimo secolo, si distinse per la sua condotta esistenziale sovvertitrice e sanguinaria; soprannominato “Bestia” in virtù dell’efferatezza che ne contraddistinse le gesta, partecipò a numerosi conflitti tra fazioni guelfe, sostenendo i Neri a dispetto dei Bianchi; si rese brutale protagonista in più fatti di sangue, sia a livello familiare che civile.
Il furto riportato fra terzine riguarda la razzia dallo stesso perpetrata ai danni della Cappella di San Jacopo dalla quale, in una carnevalesca nottata del 1293 (secondo alternative versioni nel 1295), in compagnia di sciagurati bricconi egli s’impossessò di sacra oggettistica; la colpa dell’accaduto, ricadde ingiustamente sul capo d’un innocente che, condannato al suo posto, venne sollevato da ogni accusa quando un complice di Vanni si decise a confessare la versione veritiera.
Rifugiatosi nel frattempo in terre di campagna, Fucci si dedicò a spietata attività di briganteria, non mancando di sfogare il suo innato odio nei confronti dei guelfi bianchi depredandone le abitazioni, brutalmente assassinando più persone e conducendo esistenza in balia della barbarie lui propria, sebbene non vi siano notizie precise riguardo ai suoi ultimi anni di vita ed alla sua morte.
Il presagio del Fucci preannuncia al pellegrino l’espulsione dei guelfi neri da Pistoia, ad opera dei guelfi bianchi, nella primavera del 1301, sennonché, pochi mesi dopo, i Neri, dopo la venuta di Carlo di Valois che, ufficialmente spronato da papa Bonifacio VIII a riappacificare le fazioni, sostenne poi la nera, riusciranno a reinserirsi nelle file comunali, completamente riassettando li assetti politici a loro favore.
La metafora del fulmine, in più commentatori assume l’identità del marchese Moroello Malaspina, militare e condottiero amico dell’Alighieri che, a capo delle milizie guelfe nere, fra il 1302 ed il 1306 partecipò alla lunga guerra di Firenze e Lucca contro i guelfi bianchi di Pistoia, partendo dall’assedio della fortezza di Serravalle Pistoiese, poi conquistando la città nel 1305 e permettendo dunque ai Neri di rimettere piede in patria, con conseguente disfatta dei Bianchi.
Chiusa la premonizione con spregevole freddura, in passaggio di canto “il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».”…
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