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Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII

 
Come già accennato nella descrizione della struttura dantesca introduttiva al proemio, i primi cinque cerchi appartengono all’Alto Inferno, procedendo poi per la Città di Dite, ci si avventura nel Basso Inferno dove sostano coloro che nella vita peccarono con consapevole malizia e perversione della ragione.

Attraversati il VI cerchio, con eretici ed epicurei, ed il VII cerchio, nei tre gironi dei violenti, ecco che i due viandanti, traghettati in volo da Gerione oltre la ripa scoscesa, son giunti all’VIII cerchio, le Malebolge, a sua volta suddiviso in dieci bolge, nelle quali espiano le proprie colpe i Fraudolenti, così suddivisi:

1° bolgia – Ruffiani e Seduttori
2° bolgia – Adulatori
3° bolgia – Simoniaci
4° bolgia – Indovini
5° bolgia – Barattieri
6° bolgia – Ipocriti
7° bolgia – Ladri
8° bolgia – Consiglieri fraudolenti
9° bolgia – Seminatori di discordia
10° bolgia – Falsari

Il IX ed ultimo cerchio sarà riservato ai Traditori, ovvero coloro che abbiano praticato frode, ma che, rispetto ai dannati delle Malebolge, in vita commisero peccato maggiore, avendo infatti ingannato chi in loro riponeva fiducia.

In codesto canto, incipit alla seconda metà della prima Cantica, Dante, in fidente compagnia del proprio maestro, prende visione di nuovi dannati e delle loro rispettive pene.

Nella prima bolgia incontrerà due file d’anime parallele, marcianti in opposta direzione, che appartengono a ruffiani e seduttori, fra i primi egli riconoscerà Venedico Caccianemico, con il quale avverrà brevissimo scambio di parole, fra i secondi, Giasone, che il poeta osserva, senza però aver occasione di parlargli; all’estremità opposta della sassosa campata, quindi nella seconda bolgia, il pellegrino potrà vedere gli adulatori, fra i quali Alessio Interminelli e la cortigiana Taide.

Su ella, in preda ai suoi stessi graffi, il canto si conclude in un susseguirsi di terzine in cui l’autore abilmente intreccia periodi meramente descrittivi ad un linguaggio inusuale, quasi scurrile, volutamente schietto ed acutamente sarcastico, dando prova dell’eclettismo, stilistico e mentale a lui propria, non mancando di riservare improvvise e persecutorie frustate a suo piacimento scrittorio ed arricchendo il suo narrar di grotteschi vocaboli al limite della comicità, come sempre riuscendo a concretizzarli all’immaginazione di colui che ne legga.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII. Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), Burrato di Gerione, 1506, Cornell University, Persuasive Cartography, PJ Mode Collection • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497)
Burrato di Gerione, 1506
Cornell University, Persuasive Cartography, PJ Mode Collection

 

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
3 come la cerchia che dintorno il volge.

Giunto in volo dal VII cerchio all’VIII, Dante si ritrova in quel luogo del basso inferno denominato (Luogo è in inferno detto) Malebolge, completamente (tutto) di pietra e grigio come il ferro (di color farrigno), come la parete circolare che tutt’intorno lo racchiude (come la cerchia che dintorno il volge).

Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
6 di cui suo loco dicerò l’ordigno.

Perfettamente al centro (Nel dritto mezzo) della malefica spianata (del campo maligno) un pozzo molto ampio (assai largo) e profondo s’apre sull’abisso (veleggia), cavità della quale, a tempo debito (suo loco), il poeta descriverà funzionamento e struttura (dicerò l’ordigno).

Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
9 e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
12 la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
15 a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
18 infino al pozzo che i tronca e raccogli.

Quella parte di superficie (quel cinghio) che dunque (adunque) rimane compresa fra il pozzo e la base della parete rocciosa (tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura) è circolare (tondo) ed è suddivisa in dieci trincee (e ha distinto in dieci valli il fondo).

L’immagine che la decina di fosse rimanda è tale (tale imagine quivi facean quelli) e quale (Quale) alla vista (figura) che viene resa (rende) dal suolo dove stanno (la parte dove son) numerosi fossati, in quei luoghi in cui, a guardia delle mura (dove per guardia de le mura), gli stessi circondano i (più e più fossi cingon li) castelli; e come in tali fortezze (e come a tai fortezze) dai loro ingressi (da’ lor sogli) fino all’estrema riva (a la ripa di fuor) ci sono (son) dei ponticelli, così dai piedi della roccia (da imo de la roccia) partono (movien) dei ponti che attraversano (ricidien) sia argini che fossi, fino (infino) al pozzo che li taglia e li converge (i tronca e raccogli).

Il verseggiatore descrive le Malebolge come una decade di canali concentrici e digradanti, cerchiati da rocciose mura che, alla vista, rimandano ad antichi castelli protetti da più fossati e, come in tali luoghi gli stessi sono collegati da arcuate passerelle, allo stesso modo le bolge sono unite fra loro da pietrose e curvilinee campate.

In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
21 tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

I due viandanti, sbalzati dalla schiena di Gerione (de la schiena scossi di Gerïon), si trovano in principio alla prima bolgia (In questo luogo trovammoci); il vate (’l poeta) s’incammina (tenne) a sinistra, e il pellegrino lo segue (e io dietro mi mossi).

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
24 di che la prima bolgia era repleta.

Osservando verso destra (A la man destra), l’Alighieri vede nuova afflizione (vidi nova pieta), nuovi martiri (novo tormento) e sconosciuti (novi) frustatori, dei quali la prima bolgia è ricolma (di che la prima bolgia era repleta).

I due poetanti, avendo fino ad allora, salvo in rarissime occasioni, girato in senso orario, si trovano la ripida rupe alla loro sinistra e, per osservare le bolge sottostanti, rivolgono ovviamente lo sguardo a destra.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
27 di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo su per lo ponte
30 hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
33 da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

Sul (Nel) fondo ci sono (erano) i peccatori nudi (ignudi); sulla parte esterna (dal mezzo in qua) del terrapieno gli stessi camminano in direzione opposta ai due poetanti (ci venien verso ’l volto), invece nella parte interna (di là) una seconda fascia marcia nel medesimo senso del maestro e del sui discepolo (con noi), sebbene a velocità maggiore (ma con passi maggiori), transito rimembrante quello organizzato dai Romani (come i Roman) che, l’anno del giubileo, a causa della ressa di pellegrini (per l’essercito molto), trovarono un’ingegnosa (colto) maniera (modo) di regolare l’affluenza sul (su per lo) ponte, in modo che da una parte (da l’un lato) tutti avessero la fronte rivolta Castel Sant’Angelo (verso ’l castello), avviandosi quindi verso San Pietro (e vanno a Santo Pietro), mentre dall’altro lato (da l’altra sponda) tutti proseguissero, al contrario, verso il monte (vanno verso ’l monte).
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII. Jan Van der Straet (1523-1605), Ruffiani e seduttori, 1587 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Jan Van der Straet (1523-1605)
Ruffiani e seduttori, 1587

 

Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
36 che li battien crudelmente di retro.

Tornando alle bolge, in entrambi i lati (Di qua, di là), sugli oscuri (tetro) argini di pietra (su per lo sasso tetro) Dante scorge diavoli (demon) cornuti con grandi frustini (gran ferze), che percuotono vigorosamente i penitenti sul fondoschiena (che li battien crudelmente di retro).

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
39 le seconde aspettava né le terze.

“Ahi!” – quanto fanno loro (come facean lor) alzar le calcagna (levar le berze) le prime fustigate (a le prime percosse)! Al punto che (già) nessuno attende la seconda o la terza dose (le seconde aspettava né le terze).

Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
42 «Già di veder costui non son digiuno».

Mentre il poeta prosegue (Mentr’io andava), il suo sguardo incrocia quello d’uno spirito (li occhi miei in uno furo scontrati); a conseguenza di ciò, egli afferma immediatamente (e io sì tosto dissi) non esser la prima volta che vede quel viso (Già di veder costui non son digiuno).

Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
45 e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

Per cui s’arresta (Per ch’ïo i piedi affissi) al fine di riconoscerlo (a figurarlo); e il dolce duca si ferma con lui (e ’l dolce duca meco si ristette), con assenso (e assentio) al fatto che il pellegrino ritorni indietro di qualche passo (ch’alquanto in dietro gissi).

E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
48 ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
51 Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

Al che, quel dannato abbassa il volto credendo in tal modo di riuscire a nascondersi (E quel frustato celar si credette bassando ’l viso); ma ben poco gli serve (li valse), lui dicendo l’Alighieri: “O tu che abbassi lo sguardo (O tu che l’occhio a terra gette), se i tuoi lineamenti non son falsati (se le fazion che porti non son false), tu sei Venedico Caccianemico (Venedico se’ tu Caccianemico). Ma cosa ti ha condotto a pene tanto atroci (Ma che ti mena a sì pungenti salse)?”

Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
54 che mi fa sovvenir del mondo antico.

Lo spirito afferma (Ed elli a me) di rispondergli malvolentieri (Mal volontier lo dico); ma di essere spronato a farlo (sforzami) dalla schiettezza di Dante (la tua chiara favella), che gli rimembra la vita che fu (mi fa sovvenir del mondo antico).

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
57 come che suoni la sconcia novella.

Egli narra dunque d’esser stato (I’ fui) colui che prostituì Ghisolabella (condussi a far la voglia del) al marchese, indipendentemente da differenti dicerie che eventualmente circolino sulla vergognosa faccenda (come che suoni la sconcia novella).

E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
60 che tante lingue non son ora apprese
a dicer “sipa” tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio
63 rècati a mente il nostro avaro seno».

Egli aggiunge inoltre di non esser l’unico bolognese a patir tormenti in quel luogo (E non pur io qui piango bolognese); d’esserne anzi quella bolgia talmente colma (n’è questo loco tanto pieno), che altrettante (tante) lingue, di persone ancora viventi, tra i fiumi Savena e Reno, ancor non hanno appreso (non son ora apprese) a dire (dicer) “sipa”; e se il poeta desideri prova o testimonianza a ciò (se di ciò vuoi fede o testimonio) egli si sforzi di ricordare (rècati a mente) il loro famelico cuore (il nostro avaro seno).

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
66 ruffian! qui non son femmine da conio».

Mentr’egli parla (Così parlando) un demonio lo percuote (il percosse) con una delle sue fruste (de la sua scurïada), intimandogli di andarsene, appellandolo ruffiano (Via, ruffian), che in quel posto non ci son donne da raggirare (qui non son femmine da conio).

Sagace ed animoso politico bolognese vissuto nel tredicesimo secolo, Venedico Caccianemico affiancò il padre fin dalla gioventù nelle facinorose lotte civili, da parte guelfa, contro la fazion ghibellina capeggiata dalla famiglia dei Lambertazzi sulla quale, nel 1274, riuscì ad aver la meglio, poi seguitando nella carriera politica a copertura di prestigiosi incarichi, ai quali negli anni seguirono tre esili, si narra per aver stretto furbeschi accordi prima con gli stessi Lambertazzi, poi sostenendo ampiamente gli Estensi, ramo italiano della potente famiglia d’Este. La morte lo colse nel 1302, ma citandolo l’autore della Commedia come dannato relegato nelle bolge, verosimile è il suo averlo creduto perito in precedenza.

Allo stesso l’Alighieri attribuisce la colpa d’aver prostituito la sorella ad Obizzo II d’Este, Signore di Ferrara peraltro già citato nella trentasettesima terzina del dodicesimo canto (e quell’altro ch’è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro sù nel mondo). Della presupposta “vendita” di Ghisolabella al marchese in realtà non vi è documentata certezza storica, nonostante la ben conosciuta scaltrezza di Caccianemico sia stata narrata da vari commentatori antichi; tuttavia, il dantesco autore ne delinea la personale confessione lasciandola fuoriuscire dalla diretta ammissione di Venedico che, come braccato, altro non può fare che ammettere il misfatto, poi sottolineando, quasi a discolpa, l’intrepida e smaliziata indole di tutti i bolognesi (e se di ciò vuoi fede o testimonio rècati a mente il nostro avaro seno). Affermazione con la quale il poeta riveste il proprio sdegno, immediatamente ponendogli un diavolo alle coste con punitiva frustata, accompagnata da sarcastica battuta inerente l’immorale scelleratezza.

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
69 là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.

Il poeta si ricongiunge alla sua scorta (’ mi raggiunsi con la scorta mia); poi (poscia), con pochi passi, i due giungono (divenimmo) in un punto dove il ponte di pietra (’v’uno scoglio) fuoriesce dalla roccia (de la ripa uscia).

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
72 da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Senza troppa fatica (Assai leggeramente) lo risalgono (quel salimmo); poi, guardando verso destra nell’avviarsi al suo scheggiato rilievo (vòlti a destra su per la sua scheggia), la savia guida ed il suo protetto, comminando dritti, interrompono l’eterno girare fino ad allora protratto in circolarità di senso (da quelle cerchie etterne ci partimmo).

Essendo la salita al ponte un dirigersi diritti verso la sua sommità, in quella fase di tragitto i due poeti variano l’usuale marcia in tondo fin lì adottata e, al fine di poter osservare i condannati che fino ad allora avevano camminato nella loro stessa direzione, l’Alighieri deve guardare verso destra.

Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
75 lo duca disse:«Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
78 però che son con noi insieme andati».

Quando i due viandanti raggiungono il punto più alto del ponte sospeso sul vuoto (Quando noi fummo là dov’el vaneggia) affinché di sotto vi sia abbastanza spazio per il passaggio delle sferzate anime (sotto per dar passo a li sferzati), il duca invita il pellegrino (lo duca disse) a soffermarsi, prestando particolare attenzione (Attienti), e facendo in modo che lo sguardo dei sottostanti dannati (lo viso di quest’altri mal nati), si fissi su di lui (e fa che feggia in te), spiriti dei quali Dante non ha ancor potuto vedere il volto (quali ancor non vedesti la faccia) in quanto fin ad allora marcianti nella medesima direzione.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII. Rafael Flores (1832-1886), Dante y Virgilio, 1855, Museo Nacional de Arte, Città del Messico • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Rafael Flores (1832-1886)
Dante y Virgilio, 1855
Museo Nacional de Arte, Città del Messico

 

Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
81 e che la ferza similmente scaccia.

Dall’antico (Del vecchio) ponte i due poeti osservano la fila (guardavam la traccia) che sopraggiunge verso di loro dall’altra parte (che venìa verso noi da l’altra banda), e che la frusta (forza) ugualmente mette in fuga (similmente scaccia).

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
84 e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
87 li Colchi del monton privati féne.

E il buon maestro, senza che il pellegrino abbia posto quesito (senza mia dimanda), lo sprona (mi disse) a guardare un grande spirito che sta avvicinandosi (Guarda quel grande che vene), che sembra non piangere per il dolore (e per dolor non par lagrime spanda) e che ancora conserva un elegantissimo aspetto (quanto aspetto reale ancor ritene). Trattasi di Giasone (Quelli è Iasón), colui che, con audacia e furbizia (per cuore e per senno), sottrasse (privati féne) il vello d’oro (monton) agli abitanti della Colchide (Colchi).

Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
90 tutti li maschi loro a morte dienno.

Giasone (Ello) passò per l’isola di Lemno (Lenno) dopo che le temerarie (ardite) ed efferate (spietate) donne avevano ucciso (a morte dieno) tutti gli uomini (li maschi).

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
93 che prima avea tutte l’altre ingannate.

Qui (Ivi), tramite comportamenti (segni) e discorsi galanti (parole ornate), abbindolò (ingannò) Ipsipile (Isifile), la giovane (giovinetta) che precedentemente aveva ingannato tutte le altre donne (che prima avea tutte l’altre ingannate).

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
96 e anche di Medea si fa vendetta.

E qui l’abbandonò (Lasciolla quivi), gravida e completamente sola (soletta); è questa (tal) la colpa che lo (lui) condanna a tale pena (a tal martirio); oltre ad essere punito anche per danno nei confronti di Medea (anche di Medea si fa vendetta).

Mitico eroe greco figlio di Esone, re di Iolco, antica città di Tessaglia, e di Alcimede, Giasone fu colui che si pose a guida della spedizione degli Argonauti, ovvero l’affascinante viaggio mitologico attraverso cui una cinquantina d’eroi, a bordo della nave Argo, s’avventurarono nelle terre della georgiana Colchide alla conquista del vello d’oro, ossia il dorato manto, che si narrava avesse poteri curativi, di Crisomallo, un ariete alato che la dea delle nubi Nefele aveva ricevuto in dono da Ermes, messaggero degli dèi, figlio di Zeus e che Giasone, aiutato da Medea, riuscì a rubare.

Vicissitudini d’amore vollero che Medea sia stata tradita dallo stesso Giasone quand’egli si maritò a Glauce (o Creusa), figlia di Creonte, re di Corinto, verso la quale la stessa Medea si vendicò donandole un abito di nozze che, infuocandosi, la condusse a morte insieme allo stesso padre, accorso in suo aiuto.

Nelle Malebolge Giasone viene inoltre citato in riferimento ad un ulteriore raggiro, vale a dire l’aver abbandonato, dopo averla sedotta, Ipsipile, regina di Lemno, isola nella quale le donne avevano ucciso tutti i loro mariti nel sonno, per vendicarsi del loro tradimento, tranne il re Toante, salvato dalla stessa figlia Ipsipile, colei che, unendosi a Giasone, rimase incinta di due gemelli, Euneo e Deipilo, in seguito da lui abbandonata nonostante la promessa d’eterna fedeltà.

Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
99 sapere e di color che ’n sé assanna».

Insieme a Giasone (Con lui) s’accompagna (sen va) chiunque abbia ingannato in simil maniera (Con lui sen va chi da tal parte inganna); e questo sia sufficiente (basti) a dare un’idea della prima bolgia (de la prima valle sapere) e di coloro che dentro la stessa vengono martoriati (che ’n sé assanna).

Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
102 e fa di quello ad un altr’arco spalle.

I due poetanti già si trovano (eravam) nel punto dove (là ’ve) il ristretto sentiero (lo stretto calle) s’intreccia (s’incrocicchia) con il secondo argine, divenendo sostegno del ponte successivo (e fa di quello ad un altr’arco spalle).

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
105 e sé medesma con le palme picchia.

Da qui essi odono (Quindi sentimmo) dannati (gente) che piagnucolano sommessi (si nicchia) nell’altra bolgia ed in affannante ansimare con naso e bocca (col muso sbuffa), malmenandosi con i palmi delle mani (e sé medesma con le palme picchia).
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII. Jan Van der Straet (1523-1605), Gli adulatori, 1587 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Jan Van der Straet (1523-1605)
Gli adulatori, 1587

 

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
108 che con li occhi e col naso facea zuffa.

Internamente, a causa delle sottostanti esalazioni (per l’alito di giù) che ovinque s’impregna (vi s’appasta), le sponde (ripe) sono raggrumate (grommate) d’una muffa che arreca fastidio ad occhi e naso (con li occhi e col naso facea zuffa).

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
111 de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Il fondo è talmente profondo ed oscuro (Lo fondo è cupo sì), che il maestro ed il suo discepolo non trovano la posizione ottimale per poter veder bene dentro (che non ci basta loco a veder) a meno che non raggiungano la sommità della campata (sanza montare al dosso de l’arco), nel punto più alto del ponte (ove lo scoglio più sovrasta).

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
114 che da li uman privadi parea mosso.

I due si raggiungono dunque quella postazione (Quivi venimmo); quindi Dante riesce a scorgere (e quindi vidi) dannati immersi (gente attuffata) in uno strato di sterco che pare esser formato dall’unione delle latrine di tutti gli umani (che da li uman privadi parea mosso).

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
117 che non parëa s’era laico o cherco.

E scrupolosamente laggiù scrutando (E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco), il pellegrino nota un tale con il capo talmente sozzo di guano (vidi un col capo sì di merda lordo), da non riuscire a vedere (che non parëa) s’egli sia (s’era) laico o chierico (cherco).

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
120 E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
123 però t’adocchio più che li altri tutti».

Costui rimprovera l’Alighieri (Quei mi sgridò) chiedendogli perch’egli lo guardi con cotanta ingordigia, fissandolo più degli altri insudiciati (Perché se’ tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti). Il pellegrino gli risponde (E io a lui) precisando che l’unico motivo del tanto osservarlo, rispetto a tutte le altre anime (però t’adocchio più che li altri tutti), è il ricordarsi, salvo errori, (Perchè, se ben ricordo) d’averlo già visto (già t’ho veduto) con la testa non imbrattata (coi capelli asciutti) e di riconoscerlo nelle sembianze di Alessio Interminelli (e se’ Alessio Interminei) da Lucca.

Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe
126 ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Ed egli allora (elli allor), percuotendosi il capo (battendosi la zucca), afferma d’esser impantanato in quel putrido liquame (Qua giù m’ hanno sommerso) a causa di adulazioni (le lusinghe) alle quali la sua lingua non fu mai stanca (ond’io non ebbi mai la lingua stucca) di dedicarsi.

Alessio Interminelli fu aristocratico lucchese vissuto nel tredicesimo secolo nelle cui vene di famiglia scorreva sangue guelfo, di parte bianca; scarse sono le notizie biografiche a suo riguardo, ragion per cui rimangono indecifrabili le motivazioni per cui L’Alighieri ne abbia previsto la presenza fra gli adulatori cronici.

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
129 sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
132 e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVIII. Gustave Doré (1832-1883), Taide, 1861 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Gustave Doré (1832-1883)
Taide, 1861

 
Dopo queste sue parole, il duca dice (Appresso ciò lo duca disse) al pellegrino di allungare lo sguardo un poco oltre (Fa che pinghe il viso un poco più avante), così da poter catturare attentamente l’immagine (sì che la faccia ben con l’occhio attinghe) di quell’immonda (sozza) e scapigliata donnaccia (fante) che, nel puzzolente pantano (là), si graffia con le unghie inzaccherate (merdose), alternando accovacciamenti a posizione eretta (e or s’accoscia e ora è in piedi stante).

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
135 grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.

Trattasi della prostituita Taide (Taïde è, la puttana), colei che quando il suo amante (drudo suo) le chiese (disse) se avesse grandi meriti presso di lei (Ho io grazie grandi apo te), la stessa rispose: “Anzi maravigliose!”.

Immaginario personaggio protagonista dell’Eunuchus, del commediografo berbero Publio Terenzio Afro, inoltre citata da Marco Tullio Cicerone nella filosofica opera Laelius De Amicitia e dal filosofo, traduttore, poeta, saggista e scrittore argentino Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo, nel racconto “Lo Zahir”, contenuto nella sua raccolta di narrativa intitolata “L’Adelph”, Taide fu cortigiana della quale s’invaghirono il soldato Trasone ed il giovane Fedria.

Chiesi un’aranciata; nel resto mi dettero lo Zahir; lo guardai un istante; uscii, forse con un principio di febbre. Pensai che non esiste moneta che non sia simbolo delle monete che senza fine risplendono nella storia e nella favola. Pensai all’obolo di Caronte; all’obolo che chiese Belisario; ai trenta denari di Giuda; alle dracme della cortigiana Taide…
(L’adelph, Lo Zahir, pagina 104)

La citazione dantesca rimanda alla scena d’apertura del terzo atto della narrazione Dell’eunuchus, dove l’innamorato soldato, donata all’amata una schiava di nome Panfila tramite il mezzano Gnatone, chiede a quest’ultimo s’ella ne sia grata ed è lo stesso Gnatone a confermarlo, non Taide. Il fatto che Dante abbia invece attribuito alla donna il pronunciar quelle parole d’entusiasta gratitudine (Anzi maravigliose), porta a credere che, con alta probabilità, il tal passo non sia stato letto dall’Alighieri nella scrittura originale, bensì sulle pagine ciceroniane: non essendo infatti specificati, nelle stesse, i nomi dei due interlocutori, diviene nondimeno plausibile ch’egli abbia erroneamente compreso la provenienza della succitata esclamazione.

136 E quinci sian le nostre viste sazie».

E a questo punto le viste dei due viandanti son sazie (E quinci sian le nostre viste sazie).

Dantesca invocazione aprirà il canto successivo rivolgendosi il poeta a tal “Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon esser spose, e voi rapaci per oro o per argento or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state” …
 
 
 
 

Immagine di copertina:
Priamo della Quercia (1400-1467)
Seduttori e adulatori, Manoscritto Yates Thompson, 1444-1450

 
 
 
 

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