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Divina Commedia: Inferno, Canto XVI

Attilio Runcaldier (1801-1884), Ritratto di Dante (dettaglio), ca. 1850

 
Sull’argine del terzo girone, cammino di Dante e Virgilio è d’improvviso interrotto dalle grida — appositamente lanciate per attirar attenzione — di tre sodomiti, verso cui Dante sente incontrollato desiderio di correr incontro, reprimendo però istinto a causa delle lamelle di fuoco celesti: sono i fiorentini Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, il dannato dalla cui voce giungono presentazioni, egli esortando l’Alighieri a guardar oltre il lor aspetto spellato ed abbrustolito, dacché tradisce la distinta fama avuta nel mondo terrestre. 

Il soprannominato Guerra, era stato Guido dei conti Guidi di Dovadola, figlio della contessa Beatrice di Capraia e del conte Marcovaldo di Dovadola, nonché nipote della di lui madre Gualdrada Berti, virtuosa donna figlia di Bellincione Berti, a sua volta appartenete all’aristocratica famiglia dei Ravignani, una delle casate più rispettate del XII secolo. 

Omonimi, Guido Guerra ed il cugino Guido Novello, rappresentarono convinto ed opposto sentimento a sostegno, rispettivamente, della causa guelfa e della ghibellina, contrapposizioni politiche e militari fra gli stessi nelle quali Guido Guerra seppe abilmente alternare abilità di combattimento ad assennato defilarsi dalle battaglie per non soccombere durante le stesse, inoltre ricoprendo, nell’intero corso della sua esistenza, prestigiosi ruoli politici e militari. In seguito alla disfatta di Montaperti, al trionfo del cugino il Guerra ragionò futura vendetta, recuperando vittoria nel conflitto di Benevento ed ottenendo il capitanato di Firenze al suo rientro in città, concessione tuttavia revocata qualche anno più tardi quando lo stesso decise di allargare il governo alla partecipazione dei cittadini più umili, spronato dai tumulti degli stessi; la mossa a favor di popolo non gli giovò, lasciandolo privo di qualsiasi incarico pochi anni prima della sua dipartita, avvenuta nel 1272 fra le mura del suo castello di Montevarchi.

Precedentemente nominati dal Sommo nel VI Canto (vv. 77-84), dialogando con Ciacco, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci furono, il primo, animo guelfo della consorteria magnatizia degli Adimari, podestà di San Gimignano nel 1238, di Arezzo nel 1256 ed abile stratega militare la cui saggia previsione del trionfo ghibellino tentò di scongiurare, invano, l’attacco ai Senesi, peraltro non riuscendo a godere della rivincita di Benevento in quanto passato a miglior vita prima della stessa, morendo nel 1262.

Il secondo, messer Iacopo Rusticucci, condusse terrena vita fra rilevanti poteri politici ad esso affidati, personalità di rilievo la cui reputazione sembrerebbe tuttavia esser stata macchiata da una sospetta attività di sodomia alla quale, come ipotizzarono antichi commentatori, egli s’approciò a conseguenza della totale avversione nei confronti della bisbetica moglie. Insieme al Tegghiaio, Jacopo fu mediatore della pace fra San Gimignano e Volterra, oltre che ad essersi impegnato nel perseguire armistizi ed intese fra i vari comuni toscani. Morì nel 1266.

Attraverso le tre anime disperate l’aurore della Commedia di nuovo riporta il discorso alla gravosa corruzione della sua amata Firenze, nella triste perdita di “cortesia e valor” che la brama di guadagno del popolo fiorentino ha soffocato con irrefrenabile ed ottusa cupidigia, situazione ch’egli rivela, tramite invocazione con gli occhi rivolti al cielo, ai tre spiriti in ascolto che delle sorti della loro amata città avevano chiesto al pellegrino, in quanto preoccupati alle parole d’un loro compagno recentemente giunto fra le schiere dei sodomiti, tal Guglielmo Borsiere. Riagganciando la perdizione fiorentina, ne accennò Giovanni Boccaccio nel Decamerone, narrando che «Un giorno arrivò a Genova uno stimato uomo di corte, di buone maniere e bel parlare, tale Guglielmo Borsiere molto diverso dai cortigiani di oggi che, seppur corrotti, vogliono essere stimati e reputati gran signori e sono invece piuttosto degli asini nella loro malvagità. Un tempo gli uomini di corte mettevano la loro arte nel trattare le paci1 fra le fazioni avverse, combinavano onorevoli matrimoni e ricomponevano dissidi fra parenti e amici o semplicemente si ingegnavano di ricreare gli animi con motti e leggiadrie o pungolavano i potenti con il loro sarcasmo avendone in cambio piccole ricompense. Oggi si impegnano con false lusinghe a consumare il loro tempo seminando zizzania dicendo male dell’uno e dell’altro ed escogitando ogni sorta di malignità. E questi più dicono e fanno cose abominevoli più sono tenuti in grande stima da scostumati signori che li premiano con laute ricompense. Grande vergogna dei tempi e sdegno che la virtù sia stata sommersa nella palude del vizio!».

Lasciate le tre anime a lui tanto care, Dante, descrivendo la visione d’una strana figura, prosegue affiancando il proprio maestro ed intimamente rivolgendosi al lettore che abbia in grazia le sue rime, ancora una volta riuscendo ad uscire dalle proprie terzine in elegiaco sussurro, a galoppo sul tempo, fra un giuramento ed una speranza: “e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s’elle non sien di lunga grazia vòte…”
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVI. Pacino da Bonaguida (ca. 1280-1340), La Battaglia di Montaperti, miniatura, XIV sec. • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Pacino da Bonaguida (ca. 1280-1340)
La Battaglia di Montaperti, miniatura, XIV sec.

 

Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
3 simile a quel che l’arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
6 sotto la pioggia de l’aspro martiro.

Ancor nel terzo girone del VII cerchio, Dante vi si trova già in un punto (Già era in loco) da dove s’ode (onde s’udia) il rimbombo dell’acqua sanguigna che precipita nel cerchio sottostante (che cadea ne l’altro giro), simile al ronzio delle api proveniente dalle arnie (a quel che l’arnie fanno rombo), quando tre anime (ombre), correndo, insieme si separano (partiro) da un comparto che sta passando (d’una torma che passava), subendo l’atroce tormento della pioggia (sotto la pioggia de l’aspro martiro) infuocata.

Il nuovo gruppo di sodomiti in transito è il medesimo vedendo il quale, poco prima, Brunetto Latini si era celermente allontanato raggiungendo la propria schiera d’appartenenza.

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
9 essere alcun di nostra terra prava».

Ognuna di loro s’avvicina ai due viandanti (Venian ver’ noi) gridando (e ciascuna gridava) verso il pellegrino di fermarsi (Sòstati tu), essendo che dalle sue vesti (ch’a l’abito) a lui paia (ne sembri) provenire dalla loro stessa (essere alcun di nostra) terra debosciata (prava).

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
12 Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.

“Ahimè”, esclama il poeta notando le piaghe sui loro corpi (che piaghe vidi ne’ lor membri), sia recenti che di vecchia data (ricenti e vecchie), marchiate a fuoco (intese) dalle fiamme sulla loro pelle! L’autore della Commedia, al sol rimembrarle (pur ch’i’ me ne rimembri), ancor se ne duole (Ancor men duol).

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
15 disse, «a costor si vuole esser cortese.

Alle loro grida (A le lor grida) il suo Virgilio dedica la massima attenzione (il mio dottor s’attese); egli si volge verso il proprio protetto (volse ’l viso ver’ me) e, dicendogli di attendere (e Or aspetta, disse), gli fa presente essere le tali anime degne di cortese atteggiamento (a costor si vuole esser cortese).

La stessa raccomandazione che al pellegrino era stata fatta prima che interagisse in conversazione con farinata degli Uberti (E l’animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepolture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte» – Inferno, Canto X, 37-39).

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
18 che meglio stesse a te che a lor la fretta.»

Il maestro aggiunge che se non fosse per la saettante pioggia infuocata (E se non fosse il foco che saetta) che caratterizza il girone (la natura del loco), gli verrebbe da pensare (i’ dicerei) che la fretta dell’incontrar tali spiriti, sia maggiormente vantaggiosa al suo discepolo che a loro stessi (che meglio stesse a te che a lor).

Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
21 fenno una rota di sé tutti e trei.

Non appena i due poeti s’arrestano (come noi restammo), i dannati riprendono il perenne gemito (Ricominciar l’antico verso); ed una volta raggiuntili (e quando a noi fuor giunti), i tre si mettono in cerchio (fenno una rota di sé tutti e trei).

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
24 prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
27 faceva ai piè continüo vïaggio.

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVI. Bartolomeo Pinelli (1781-1835) I tre sodomiti, Bartolomeo Pinelli (1781-1835) I tre sodomiti, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Guido Guerra, 1824 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Bartolomeo Pinelli (1781-1835)
I tre sodomiti, Bartolomeo Pinelli (1781-1835)
I tre sodomiti,
Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Guido Guerra, 1824

 
E come son soliti fare i lottatori (Qual sogliono i campion) seminudi e sudati (far nudi e unti), studiando la presa che dia loro maggior vantaggio (avvisando lor presa e lor vantaggio), prima di battersi e picchiarsi (prima che sien tra lor battuti e punti),

roteando allo stesso modo (così rotando), ognuno dei dannati fissa lo sguardo verso il toscano verseggiatore (ciascuno il visaggio drizzava a me), in maniera da roteare il collo al contrario (sì che ’n contraro il collo faceva) rispetto alla direzione del perpetuo girare (ai piè continüo vïaggio).

E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
30 cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
33 così sicuro per lo ’nferno freghi.

Uno di loro inizia a parlare (cominciò l’uno) affermando che se la desolazione (miseria) di quella molle arena (d’esto loco sollo) ed il loro aspetto imbrunito (tinto) e spellato (brillo) dal fuoco, rendono disonore a loro stessi ed alle loro le preghiere (rende in dispetto noi e i nostri prieghi), l’imbrunito (tinto),

che sia dunque la nomea lasciata sul mondo terrestre (la fama nostra) ad indurre l’animo del rimatore (il tuo animo pieghi), che tanto franco per l’inferno sfrega (così sicuro per lo ’nferno freghi) il passo ancor vivente (i vivi piedi), a rivelare la propria identità (a dirne chi tu se’).

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
36 fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
39 fece col senno assai e con la spada.
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
42 nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
45 la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.»

Egli principia dunque le presentazioni dei propri compari, iniziando da quello di cui ricalca le orme (Questi, l’orme di cui pestar mi vedi), ossia che lo precede, il quale, nonostante (tutto che) ora se ne vada nudo e spelacchiato (dipelato), in vita fu di maggior ceto di quanto il poetante possa immaginare (fu di grado maggior che tu non credi):

egli fu infatti nipote (nepote) della buona Gualdrada; il suo nome fu (ebbe nome) Guido Guerra, e nella vita terrestre (in sua vita) si distinse per immensa assennatezza ed uso delle armi (fece col senno assai e con la spada).

L’altro dannato, che pesta il suolo sulle orme di chi ne sta raccontando (ch’appresso me la rena trita), quindi seguendolo, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce dovrebbe esser stata maggiormente benaccetta lassù (sù dovria esser gradita) nel mondo.

Lo spirito parlante presenta infine se stesso come colui che, condannato insieme agli altri al martirio (posto son con loro in croce), risponse al nome (fui) di Iacopo Rusticucci, e senza dubbio (e certo) in vita gli nocque più di tutto la sdegnosa consorte (fiera moglie più ch’altro mi nuoce).

S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
48 e credo che ’l dottor l’avria sofferto;
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
51 che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

L’accorato versificatore, dopo aver ascoltato le parole di Rusticucci, prova dentro di sé un impulsivo desiderio di saltare poco più sotto fra le tre anime (gittato mi sarei tra lor di sotto), se solo potesse proteggersi dal piovente fuoco (S’i’ fossi stato dal foco coperto), e nel mentre pensando che la sua guida lo sopporterebbe (e credo che ’l dottor l’avria sofferto), concedendoglielo;

ma considerando che il che significherebbe scottarsi ed abbrustolirsi (ma perch’io mi sarei brusciato e cotto), il timore prevale sulla sua forte brama (vinse paura la mia buona voglia) che rende il viandante smisuratamente desideroso di abbracciare i tre spiriti (che di loro abbracciar mi facea ghiotto).

Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
54 tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
57 che qual voi siete, tal gente venisse.

Quindi il poeta toscano inizia sostenendo (Poi cominciai) che la misera condizione degli stessi (la vostra condizion) in lui non ha suscitato disdegno alcuno (Non dispetto), ma l’ha trafitto (mi fisse) di sofferenza (doglia), un patimento tale (tanta) da impiegare molto tempo (che tardi) a scemare completamente (tutta si dispoglia),

e questo immediatamente in seguito alle parole dettegli da Virgilio (tosto che questo mio segnor mi disse) grazie alle quali egli immediatamente ha potuto dedurre (per le quali i’ mi pensai) che si stessero avvicinando spiriti degni (tal gente venisse), come a lui anticipato e proprio come gli stessi han dimostrato di essere (che qual voi siete).

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
60 con affezion ritrassi e ascoltai.

Il sommo scrittore prosegue confermando ai tre spiriti le sue origini fiorentine (Di vostra terra sono), e l’aver sempre (sempre mai) dato ascolto (ascoltai) e riportato (ritrassi) la loro opera ed i loro onorati nomi (l’ovra di voi e li onorati nomi) con batticuore (affezion).

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
63 ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».

Poi egli spiega d’aver intrapreso quel viaggio per abbandonare l’amarezza (Lascio lo fele) del peccato e d’esser alla ricerca (vo per) della dolcezza della grazia (dolci pomi) a lui promessa dall’autentico suo (promessi a me per lo verace) duca; ma che prima di giungere all’Eden sia necessario ch’egli piombi al centro (ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi) del mondo, ovvero fino all’estremo inferno.

«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
66 «e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
69 o se del tutto se n’è gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
72 assai ne cruccia con le sue parole.»

Iacopo risponde (rispuose quelli ancora) lui augurandogli dapprima che l’anima possa albergare all’interno del suo corpo per molto tempo (Se lungamente l’anima conduca le membra tue), ossia ch’egli abbia lunga vita, e che la sua gloria gli sopravviva lucente (e se la fama tua dopo te luca),

poi chiedendo al poeta di lui raccontare (dì) se cortesia e valore ancor alberghino (se dimora) in Firenze (ne la nostra città) com’era un tempo (sì come suole), o se siano scomparse (o se se n’è gita fora) complentamente (del tutto);

Rusticucci gli pone tale quesito in quanto un certo Guglielmo Borsiere (ché Guiglielmo Borsiere), che da poco tempo condivide con loro i tormenti (il qual si duole con noi per poco) e che più in là sta camminando con altri dannati (va là coi compagni), raccontandone a riguardo (con le sue parole) li affligge enormemente (assai ne cruccia).

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
75 Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.»
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
78 guardar l’un l’altro com’al ver si guata.

In tutta risposta Alighieri leva il volto gridando (Così gridai con la faccia levata): “I nuovi cittadini (La gente nuova) ed i celeri (sùbiti) guadagni, altezzosità (orgoglio) e sregolatezza (dismisura) hanno originato in te, Firenze (han generata, Fiorenza, in te), così che tu già ne piangi gli effetti.” (sì che tu già ten piagni). E i tre spiriti, intendendo le parole di Dante come (che ciò inteser per) replica, si guardarono a vicenda come chi si guarda apprendendo una triste verità (guardar l’un l’altro com’al ver si guata).

«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
«rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
81 felice te se sì parli a tua posta!

L’intero trio ribatte (rispuoser tutti) dicendo al poeta che se il soddisfare gli altrui quesiti (il satisfare altrui) anche in altre occasioni gli sia così semplice (Se l’altre volte sì poco ti costa), egli dev’esser gioioso (felice te) di saper parlare con cotanta schiettezza (se sì parli a tua posta).

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
84 quando ti gioverà dicere “I’ fui”,
fa che di noi a la gente favelle.»
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
87 ali sembiar le gambe loro isnelle.

Pertanto (Però) gli stessi gli chiedono se, sempre ch’egli sopravviva agli oscuri regni infernali (se campi d’esti luoghi bui), ritornando a riveder la beltà delle stelle (e torni a riveder le belle stelle), quando potrà trarre soddisfazione (ti gioverà) dal narrare il suo viaggio (dicere “I’ fui”), s’egli s’adoperi per portar alla gente loro notizie (fa che di noi a la gente favelle). Quindi sciolgono il cerchio (Indi rupper la rota), e fuggono con una tal celerità da sembrar possedere ali ai piedi (a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle).

Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ fuoro spariti;
90 per ch’al maestro parve di partirsi.

Nemmeno si sarebbe potuto pronunciare un amen (Un amen non saria possuto dirsi) dato il brevissimo tempo con il quale i tre dannati si sono dileguati (tosto così com’e’ fuoro spariti); pertanto il maestro reputa sia il caso di riprendere il tragitto (per ch’al maestro parve di partirsi).

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
93 che per parlar saremmo a pena uditi.

Il discepolo lo segue (Io lo seguiva) e, da poco ripartiti (e poco eravam iti), già l’echeggiare dell’acqua è talmente vicino (che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino), da non permetter loro d’udirsi se si parlassero (che per parlar saremmo a pena uditi).

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
96 da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
99 e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
102 ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
105 sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.

E come quel fiume che, partendo dal Monviso, per primo dirigendosi verso levante (primo dal Monte Viso ’nver’ levante), con un corso indipendente (c’ha proprio cammino), sulla pendice sinistra dell’Appennino (da la sinistra costa d’Apennino), lo stesso fiume che a monte (suso) prende il nome di (che si chiama) Acquacheta, prima di discendere a valle (avante che si divalli giù nel basso letto), e a Forlì abbandona quel nome (a Forlì di quel nome è vacante) e rimbomba sopra (là sovra) San Benedetto dell’Alpe (de l’Alpe) precipitando in un’unica cascata (per cadere ad una scesa) invece che disgregarsi in piccole cascatelle (ove dovea per mille esser recetto);

in tal modo (così) i due viandanti, sentono il Flegetonte (trovammo quell’acqua tinta) mentre digrada per un erto dirupo (giù d’una ripa discoscesa), rimbombare (rintronar) in maniera talmente fragorosa che l’udirne anche per poco tempo comprometterebbe l’udito (sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa).

Il rumore della cascata del Flegetonte viene paragonato a quello dell’Acquacheta, corso d’acqua affluente del fiume Montone che, poco prima di transitare per San Benedetto dell’Alpe, precipita da un’altezza di circa novanta metri; ad oggi la spettacolare cascata oggi fa parte del Parco Nazionale Delle Foreste Casentinesi.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVI. Cascata dell'Acquacheta Parco Nazionale Foreste Casentinesi • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Cascata dell’Acquacheta
Parco Nazionale Foreste Casentinesi

 

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
108 prender la lonza a la pelle dipinta.

Il pellegrino porta una corda cinta in vita (Io avea una corda intorno cinta), con la quale tempo addietro (e con essa alcuna volta) aveva pensato (pensai) di catturare la lonza dalla pelle chiazzata (prender la lonza a la pelle dipinta).

Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
111 porsila a lui aggroppata e ravvolta.

E dopo essersela slacciata (Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta), così come da ordine del proprio duca (sì come ’l duca m’avea comandato), il discepolo gliela porge (porsi la a lui) annodata ed arrotolata (aggroppata e ravvolta).

Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
114 la gittò giuso in quell’alto burrato.

Quindi Virgilio si rivolge a destra (Ond’ei si volse inver’ lo destro lato), alquanto distante dal bordo (e alquanto di lunge da la sponda) e la scaraventa giù in quel profondo precipizio (la gittò giuso in quell’alto burrato).

«E’ pur convien che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
117 che ’l maestro con l’occhio sì seconda».

Fra sé e sé il pellegrino pensa (dicea fra me medesmo), che qualche novità dovrà pur conseguire (E’ pur convien che novità risponda) al nuovo gesto (al novo cenno), ovvero alla cintola gettata e che il maestro sta seguendo attentamente con lo sguardo (con l’occhio sì seconda).

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
120 ma per entro i pensier miran col senno!

In slancio evocativo il poeta si chiede quanto debbano esser cauti gli uomini (Ahi quanto cauti li uomini esser dienno) che stiano a fianco di coloro (presso a color) che sanno vedere oltre i comportamenti (non veggion pur l’ovra) ed in grado d’interpretare i pensieri altrui tramite la loro saggezza (ma per entro i pensier miran col senno).

Anticipatorio sulla seguente terzina, estremamente riguardoso e compiacente il delicato rimarcare, da parte di Dante, la capacità introspettiva di Virgilio, nei confronti del quale, contemporaneamente, lo stesso parrebbe provare leggera sensazione di soggezione.

El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
123 tosto convien ch’al tuo viso si scovra».

Virgilio gli dice (El disse a me) appunto che presto (tosto) salirà (vedrà di sovra) ciò che lui sta attendendo (ciò ch’io attendo) e che la curiosità del suo protetto tenta d’immaginare (il tuo pensier sogna); presto avverrà che alla sua vista si scopra (tosto convien ch’al tuo viso si scovra).
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XVI. Salvador Dalí (1904-1989), La cascata del Flegetonte, 1950-1959 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Salvador Dalí (1904-1989)
La cascata del Flegetonte, 1950-1959

 

Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
126 però che sanza colpa fa vergogna;

A questo punto l’Alighieri afferma che all’uomo conviene sempre non parlare (de’ l’uom chiuder le labbra), per quanto gli sia possibile (fin ch’el puote), di quella verità che possa apparir fandonia (quel ver c’ ha faccia di menzogna), al fin di non far una figura barbina (però fa vergogna), quindi venendo accusato di falsità, senza averne (sanza) colpa;

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
129 s’elle non sien di lunga grazia vòte,

Ma in questo caso (qui) egli non può tacerlo (tacer nol posso); pertanto, giurando ai lettori (ti giuro) sulle rime di codesta Commedia (e per le note di questa comedìa), augurandosi che le stesse (s’elle) non rimangano prive di lunga benevolenza (non sien vòte di lunga grazia), da parte degli stessi,

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
132 maravigliosa ad ogne cor sicuro,

è appunto in quell’aria spessa ed oscura (per quell’ aere grosso e scuro) ch’egli narra d’aver visto (i’ vidi) giungere nuotando verso l’alto (venir notando in suso), un figura tale da sconcertare anche il cuore più resistente (maravigliosa ad ogne cor sicuro),

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
135 o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

così (sì) come colui che di tanto in tanto s’immerge (talora va giuso) per districare (a solver) l’ancora che s’impiglia (ch’aggrappa) o ad uno scoglio o ad altro che stia sul fondo del mare (o scoglio o altro che nel mare è chiuso), e che poi riemerge (torna),

136 che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

estendendosi verso l’alto (che ’n sù si stende), con la parte superiore del busto, e rannicchiando le gambe (e da piè si rattrappa).

Chi sia la tal figura non è dato sapere in questo canto, venendone a conoscenza nel XVII quando, con scia di nauseante fetore, si paleserà “la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l’armi! Ecco colei che tutto il mondo appuzza!”…
 
 
 
 

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