Divina Commedia: Inferno, Canto XV
Federico Zuccari (1539-1609), Dante Historiato, 1586-1588
Lasciati i bestemmiatori, Virgilio e discepolo, fiancheggiando i rocciosi argini adiacenti il sabbione infuocato, s’imbattono in un drappello d’anime, Dante riconoscendovi lo stimato Brunetto Latini (ca.1220-1294), fiorentin notaio, politico, letterato, sostenitore dei guelfi neri che, in qualità di cancelliere comunale, nel 1260, poco prima della Battaglia di Montaperti, venne inviato in territorio spagnolo come ambasciatore presso Alfonso X, re di Castiglia, al fin di richiederne l’appoggio contro la fazione ghibellina allor capeggiata da re Manfredi. Fu proprio sulla via del ritorno che la disfatta guelfa giunse alle sue orecchie, spronandone lo stabilirsi in Francia, dove, ospite d’un benestante fiorentino, proseguì nell’esercitare la sua professione notarile, allo stesso tempo dedicandosi allo studio ed all’attività scrittoria, passion di penna che fu molla originante sapienti opere, fra le quali il Favolello, la Rettorica ed il Trésor; il suo esilio durò un sessennio, egli rientrando infatti a Firenze nel 1266, a seguito della Battaglia di Benevento, ricoprendo le più influenti cariche pubbliche (tra cui quella di priore nel 1287) e mantenendosi attivo fino alla morte, giunta nel 1295.
Colui che l’Alighieri considerò un maestro, sebbene il loro rapporto non fu il classico accademico, bensì un piacevole ed intenso confronto su varie argomentazioni condivise da entrambi, in primis l’attività politica, la scrittura e l’arte della conversazione trasmessa con la stessa.
L’intensità di pathos con la quale l’autore della Commedia ne descrive l’incontro, si fa sorprendente concretezza nel suo riconoscerne istantaneamente l’identità, nonostante le ustioni sul di lui volto, srotolando emozione nei versi a seguire attraverso l’educato rivolgersi allo stesso, con umile devozione ed incommensurabile stima, al punto d’affidar alle sue parole profezia sulla sua vita futura.
Perché Brunetto sia stato collocato fra i sodomiti è interrogativo aperto e vagliato da una moltitudine di storici nel corso dei secoli, non essendovi notizie certe a riguardo, così come non ve ne siano a real conferma nei confronti degli spiriti dal notaio poi indicati al pellegrino, se non in misura di dicerie sulla loro esistenza ipoteticamente macchiata da eventi di pederastia, tuttavia non documentati.
Enigmatici quesiti che mai troveranno risposte inconfutabili, al pari d’innumerevoli misteri che l’opera dantesca racchiude fra le sue terzine, nell’infinito solleticar menti di letterati e studiosi nella ricerca di verosimili chiavi di lettura e nella sibillina beltà d’un poema senza pari.
L’immagine a fine canto, d’un Brunetto in corsa come “quelli che vince, non colui che perde” è impagabile perla poetica di chiusura.
Ora cen porta l’un de’ duri margini; | |
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, | |
3 | sì che dal foco salva l’acqua e li argini. |
Sempre nel terzo girone del VII cerchio, ora Dante e Virgilio proseguono affiancando uno dei rocciosi pendii (Ora cen porta l’un de’ duri margini); e il vapore del Flegetonte, addensandosi in superficie, ricopre ombreggiando (e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia), così da preservar dalla pioggia rovente (sì che dal foco salva) sia l’acqua che gli stessi argini.
Il maestro ed il suo discepolo passano su un sentiero molto stretto, sul quale non piove fuoco poichè il il vapore emesso dal fiume, riesce in qualche modo a spostare la pioggia, proteggendoli.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, | |
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa, | |
6 | fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia; |
e quali Padoan lungo la Brenta, | |
per difender lor ville e lor castelli, | |
9 | anzi che Carentana il caldo senta: |
a tale imagine eran fatti quelli, | |
tutto che né sì alti né sì grossi, | |
12 | qual che si fosse, lo maestro félli. |
Come i fiamminghi (Quali Fiamminghi) fra Wissant e Bruges (tra Guizzante e Bruggia), avendo timore che l’alta marea d’inverno li travolga (temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa), erigono dighe (fanno lo schermo) affinché il mare indietreggi (perché ’l mar si fuggia);
e come i padovani (e quali Padoan) le erigono lungo il Brenta, per difendere le loro città (lor ville) ed i loro castelli, prime che la Carinzia (anzi che Carentana) senta il caldo, ovvero con il rischio di scioglier le proprie nevi: similarmente (a tale imagine) son eretti quelli infernali (eran fatti quelli), nonostante (tutto che) l’edificatore (lo maestro), che fosse Dio, o chi per lui (qual che si fosse), non li fece né così alti né così massicci (félli tutto che né sì alti né sì grossi).
“Guizzante e Bruggia” sono la francese Wissant e la belga Bruges, le due cittadine che demarcano la costa delle Fiandre; “Carentana” sarebbe il ducato di Carinzia, estendendone tuttavia il dantesco autore il territorio fino alla Alpi carniche, dove sorge il Brenta.
Già eravam da la selva rimossi | |
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, | |
15 | perch’io in dietro rivolto mi fossi, |
I due poeti si sono ormai allontanati dalla precedente distesa (Già eravam da la selva rimossi) a tal punto che, per quanto il pellegrino si volti indietro (tanto, perch’io in dietro rivolto mi fossi), non la potrebbe più scorgere (ch’i’ non avrei visto dov’era),
quando incontrammo d’anime una schiera | |
che venian lungo l’argine, e ciascuna | |
18 | ci riguardava come suol da sera |
guardare uno altro sotto nuova luna; | |
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia | |
21 | come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. |
quando incrociano un gruppo di anime (quando incontrammo d’anime una schiera) che stanno per arrivare (venian) verso l’argine, ed ognuna di loro li scruta (ci riguardava) come quando, nel buio serale, (come suol da sera) ci si osserva a vicenda (guardare uno altro) sotto la luna nuova, ch’è scarsamente luminosa; nella medesima maniera (e sì) le stesse aguzzano lo vista verso i due viandanti (ver’ noi aguzzavan le ciglia) proprio come fa l’anziano sarto nell’atto d’infilar l’ago nella cruna (come ’l vecchio sartor fa ne la cruna).
Così adocchiato da cotal famiglia, | |
fui conosciuto da un, che mi prese | |
24 | per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». |
Così adocchiato da quella schiera di dannati (da cotal familia), il fiorentin versificatore viene riconosciuto da uno di essi (fui conosciuto da un), che lo afferra per un lembo della veste (che mi prese per lo lembo), gridando (e gridò): “Qual meraviglia!”
E io, quando ’l suo braccio a me distese, | |
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, | |
27 | sì che ’l viso abbrusciato non difese |
la conoscenza süa al mio ’ntelletto; | |
e chinando la mano a la sua faccia, | |
30 | rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». |
E il poeta (E io), quando lo spirito gli allunga il braccio (’l suo braccio a me distese), lo penetra con lo sguardo (ficcaï li occhi), dato il suo aspetto bruciacchiato (per lo cotto aspetto), in maniera che le scottature del volto (sì che il viso abbrusciato) non gli siano d’intralcio al riconoscerlo (non difese la conoscenza süa al mio ’ntelletto); una volta identificatolo, l’Alighieri, avvicinando la mano verso il suo viso (chinando la mano a la sua faccia), risponde (rispuosi) con stupore, chiedendogli: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia | |
se Brunetto Latino un poco teco | |
33 | ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia». |
L’anima, rispondendo (E quelli) affettuosamente appellando il poetante “O figliol mio”, conferma la propria identità chiedendo allo stesso se non abbia in dispiacere che Brunetto Latini (non ti dispiaccia se Brunetto Latino) rimanga un poco in sua compagnia (teco) invertendo la sua direzione (ritorna ’n dietro) e lasciando per un attimo il proprio gruppo (lascia andar la traccia).
Mentre il poeta si rivolge a colui che fu il suo insegnante con estremo riguardo, dandogli del “voi” e chiamandolo raffinatamente “ser Brunetto”, lo spirito si riferisce invece a se stesso in terza persona, quasi a voler prendere le distanze dalla propria anima dannata.
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco; | |
e se volete che con voi m’asseggia, | |
36 | faròl, se piace a costui che vo seco». |
Il toscano verseggiatore gli risponde (I’ dissi lui) che, per quanto sia nelle sue possibilità (Quanto posso), è lui stesso a pregarlo; anzi, egli aggiunge che, se Brunetto lo desidera, sempre che Virgilio non abbia nulla in contrario (se piace a costui che vo seco), si siederebbe volentieri con lui (con voi m’asseggia).
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia | |
s’arresta punto, giace poi cent’anni | |
39 | sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. |
Di nuovo rivolgendosi al rimatore in evocativa maniera paterna («O figliuol», disse), Brunetto gli spiega di non potersi sedere in quanto colui (qual) che, appartenente alla schiera di anime che camminano senza sosta (di questa greggia), tenti di fermarsi (s’arresta punto), come punizione poi giacerà (poi giace) cent’anni senza potersi proteggere con le mani (sanz’arrostarsi) quando lamelle di fuoco lo sfregiano (’l foco il feggia).
Essendo infatti che la pena dei violenti contro la natura sia quella di camminare incessantemente, ad un lor eventuale arrestarsi seguirebbe un secolo di dannazione secondo la condanna prevista per i bestemmiatori, ovvero la posizione supina nel sabbione infuocato, priva di qualsiasi difesa a protezione dell’infuocata pioggia celeste.
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; | |
e poi rigiugnerò la mia masnada, | |
42 | che va piangendo i suoi etterni danni». |
Pertanto (Però) egli dice al pellegrino di proseguire (va oltre), che lui comminerà standogli appresso (i’ ti verrò a’ panni); e poi raggiungerà (rigiugnerò) di nuovo la sua schiera (masnada), che procede (va) piangendo i suoi eterni tormenti (etterni danni).
Io non osava scender de la strada | |
per andar par di lui; ma ’l capo chino | |
45 | tenea com’uom che reverente vada. |
Dante non osa discendere sotto l’argine (Io non osava scender de la strada) per raggiungere il livello dove si trova lo spirito (per andar par di lui); ma tiene il capo chino in segno di riverenza (’l capo chino tenea com’uom che reverente vada).
El cominciò: «Qual fortuna o destino | |
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? | |
48 | e chi è questi che mostra ’l cammino?». |
Brunetto inizia la conversazione (El cominciò) chiedendo quale casualità o volere divino (Qual fortuna o destino) lo abbia condotto agli inferi (dì qua giù ti mena) prima della morte (anzi l’ultimo dì) e chi sia colui che lo conduce nel tragitto (chi è questi che mostra ’l cammino).
«Là sù di sopra, in la vita serena», | |
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle, | |
51 | avanti che l’età mia fosse piena. |
Pur ier mattina le volsi le spalle: | |
questi m’apparve, tornand’ïo in quella, | |
54 | e reducemi a ca per questo calle». |
L’autore della Commedia gli risponde (rispuos’io lui) narrandogli d’essersi smarrito per una selva (mi smarri’ in una valle) oscura, lassù (Là sù di sopra), nella vita terrestre (in la vita serena), ancor prima d’aver raggiunto la pienezza dell’età (avanti che l’età mia fosse piena).
E d’essere riuscito ad uscirne (le volsi le spalle) soltanto (Pur) la mattina precedente (ier mattina): egli continua spiegando che il mantovan poeta (questi) gli apparve proprio quando lui stesso era in procinto di riaddentrarsi in essa (tornand’ïo in quella), e che lo stia riconducendo a casa (reducemi a ca), ovvero per la retta via, attraverso il percorso che stanno effettuando (per questo calle).
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, | |
non puoi fallire a glorïoso porto, | |
57 | se ben m’accorsi ne la vita bella; |
Lo spirito di Latini allora anticipa al Dante (Ed elli a me) che s’egli asseconderà la costellazione sotto la quale nacque (Se tu segui tua stella), non potrà fallire nel raggiungimento della gloria (non puoi fallire a glorïoso porto), qualora, quand’ancor vivente (ne la vita bella), non abbia sbagliato a giudicarlo (se ben m’accorsi);
“tua stella” si riferisce probabilmente alla costellazione dei Gemelli sotto la quale nacque il poeta e che, secondo la teoria astrologica dei tempi, rendeva propensi ad attività di studio e scrittura.
e s’io non fossi sì per tempo morto, | |
veggendo il cielo a te così benigno, | |
60 | dato t’avrei a l’opera conforto. |
e se non fosse morto così presto (e s’io non fossi sì per tempo morto), vedendo il cielo così favorevole al proprio discepolo (veggendo il cielo a te così benigno), ne avrebbe sostenuto l’opera (dato t’avrei a l’opera conforto).
Essendo Brunetto Latini deceduto nel 1294, il cruccio manifestato nel non aver potuto corroborare l’opera scrittoria dell’Alighieri, è di probabile riferimento alla dinamica partecipazione politica che coinvolse lo scrittore, a partir dal 1295, ed agli scritti a quest’ultima dedicati.
Ma quello ingrato popolo maligno | |
che discese di Fiesole ab antico, | |
63 | e tiene ancor del monte e del macigno, |
ti si farà, per tuo ben far, nimico; | |
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi | |
66 | si disconvien fruttare al dolce fico. |
L’anima del notaio prosegue poi presagendo al verseggiatore che l’ingrato e maligno popolo fiorentino (Ma quello ingrato popolo maligno), che anticamente discese dalla popolazione di Fiesole (che discese di Fiesole ab antico), ed ai quali ancora apparterrebbe la rudezza del monte e la durezza del macigno, gli si farà nemico (ti si farà nemico), per il suo buon operare (per tuo ben far); ed è comprensibile (ragion) il loro agire in tal modo, poiché (ché) fra una moltitudine di arcigni (lazzi) sorbi un dolce fico non potrebbe fruttare.
Secondo narrazioni di antichi storici, la maggior parte dei fiorentini discenderebbe dalla popolazione di Fiesole che, a causa di complotti contro Catilina, furono trasferite sulle sponde dell’Arno ed ivi mischiandosi con i coloni romani; dalle parole di Brunetto si evince che, nonostante il trascorrere dei secoli, gli stessi non abbiano smussato il carattere cocciuto e burbero dei montanari.
Inoltre, le similitudini che l’autore della Commedia affida al racconto di Latini, nel paragonar i fiorentini a delle acide piante di sorbo ed il poeta ad un “dolce fico”, risaltano l’astio che entrambi ebbero nei confronti della maggior parte dei cittadini che all’epoca capeggiavano a Firenze, evidenziando allo stesso tempo la sentita ammirazione dello stesso nei confronti di colui che gli fu allievo prediletto.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; | |
gent’è avara, invidiosa e superba: | |
69 | dai lor costumi fa che tu ti forbi. |
L’aspra critica prosegue narrando di un’antica fama che li descrive come caparbi (Vecchia fama nel mondo li chiama orbi); gente avara, invidiosa e superba: dai loro costumi è bene che Dante non si faccia influenzare (dai lor costumi fa che tu ti forbi).
Pessime caratteristiche dei fiorentini che il pellegrino già aveva udito dalla voce di Ciacco quando, chiedendo lui quali fossero le motivazioni dei tumulti in corso, lo stesso rispose: “superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi” (Inferno, Canto VI, 74-75).
La tua fortuna tanto onor ti serba, | |
che l’una parte e l’altra avranno fame | |
72 | di te; ma lungi fia dal becco l’erba. |
Egli continua anticipando al versificatore che la sua sorte gli riserverà talmente tanto onore (La tua fortuna tanto onor ti serba), che entrambe le parti, ne saranno ingorde (che l’una parte e l’altra avranno fame di te); ma l’erba sarà lontana dal loro becco (ma lungi fia dal becco l’erba).
Una premonizione d’esilio che colloca il toscano lontano dalle grinfie di tutte le fazioni allora contrapposte; “che l’una parte e l’altra” sono ovviamente i guelfi neri, trionfatori, i bianchi e i ghibellini, cacciati ed atrocemente perseguitati.
Faccian le bestie fiesolane strame | |
di lor medesme, e non tocchin la pianta, | |
75 | s’alcuna surge ancora in lor letame, |
in cui riviva la sementa santa | |
di que’ Roman che vi rimaser quando | |
78 | fu fatto il nido di malizia tanta». |
Faccian le bestie fiesolane foraggio (strame) di se stesse, dunque divorandosi nella loro meschinità, sempre che dal loro letame possa nascerne ancora qualcosa (s’alcuna surge ancora in lor letame), e senza sfiorar (non tocchino) la pianta, ossia Dante, in cui rivive il santo seme (riviva la sementa santa) di quei Romani che vi restarono (di que’ Roman che vi rimaser) quando fu fondato quel covo d’immensa malignità (fu fatto il nido di malizia tanta).
«Se fosse tutto pieno il mio dimando», | |
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora | |
81 | de l’umana natura posto in bando; |
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, | |
la cara e buona imagine paterna | |
84 | di voi quando nel mondo ad ora ad ora |
m’insegnavate come l’uom s’etterna: | |
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo | |
87 | convien che ne la mia lingua si scerna. |
Il dantesco poeta, estremamente compiaciuto, gli risponde (rispuos’io lui): “Se tutti i miei desideri si fossero avverati (Se fosse tutto pieno il mio dimando), voi non sareste ancora stato allontanato dalla vita terrena (de l’umana natura posto in bando);
poiché ancora mi è fissa alla memoria (ché ’n la mente m’è fitta) e quella di adesso m’addolora (e or m’accora), la vostra cara, buona e paterna immagine (la cara e buona imagine paterna di voi) di quando, nel mondo terrestre, di tempo in tempo (ad ora ad ora) m’insegnavate come l’uomo possa raggiungere l’immortalità (l’uom s’etterna), ovvero attraverso la nomea delle sue opere scritte: e quant’io abbia tutto questo a cuore (in grado), si paleserà, finché avrò vita (mentr’io vivo), in ciò che andrò a scrivere (convien che ne la mia lingua si scerna).
Ciò che narrate di mio corso scrivo, | |
e serbolo a chiosar con altro testo | |
90 | a donna che saprà, s’a lei arrivo. |
Ciò che mi avete narrato sulla mia futura esistenza (narrate di mio corso) lo memorizzo (scrivo), custodendolo (e serbolo), nell’intento di esporlo, insieme ad altra profezia (con altro testo), ad una donna che saprà darmene interpèretazione (a chiosar), se a lei riuscirò a giungere (s’a lei arrivo).
L’altro presagio a cui si riferisce l’autore è quello che gli fece Farinata degli Uberti, pronosticandogli il futuro esilio: “Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa” (Inferno, Canto X, 79-81)
Tanto vogl’io che vi sia manifesto, | |
pur che mia coscïenza non mi garra, | |
93 | ch’a la Fortuna, come vuol, son presto. |
Ugualmente desidero che voi sappiate (Tanto vogl’io che vi sia manifesto), sempre che la mia coscienza non mi biasimi (pur che mia coscïenza non mi garra), che son preparato a tener testa alla Fortuna (ch’a la Fortuna son presto), secondo la sua mutevolezza (come vuol).
Non è nuova a li orecchi miei tal arra: | |
però giri Fortuna la sua rota | |
96 | come le piace, e ’l villan la sua marra». |
Questa caparra (Tal arra), ossia questa previsione, non è nuova alle mie orecchie (Non è nuova a li orecchi miei): pertanto (però) giri la Fortuna la sua ruota (rota) come le pare (piace), così come il contadino (’l villan) fa con la sua zappa (marra).
Lo mio maestro allora in su la gota | |
destra si volse in dietro e riguardommi; | |
99 | poi disse: «Bene ascolta chi la nota». |
A questo punto il maestro (Lo mio maestro allora), voltandosi verso destra (in su la gota destra), si gira indietro (volse in dietro) ed osserva il proprio protetto (riguardommi); poi dicendogli (disse) che chi sa far tesoro di quanto ascolta, sa ben ascoltare (Bene ascolta chi la nota).
La “Fortuna” di cui parla Dante è prova, per Virgilio, che il suo discepolo abbia ben compreso ed introiettato l’apologo sulla stessa ch’egli gli fece nel IV cerchio, dal sessantunesimo al novantaseiesimo verso del VII canto, dopo aver incontrato avari e prodighi.
Né per tanto di men parlando vommi | |
con ser Brunetto, e dimando chi sono | |
102 | li suoi compagni più noti e più sommi. |
Ciononpertanto (Né per tanto), anche dopo l’apprezzamento della propria guida il poetante non scema la propria conversazione (di men parlando vommi) con ser Brunetto, continuando chiedendogli (e dimando) chi siano i suoi compagni di dannazione più famosi (noti) e rinomati (sommi).
Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono; | |
de li altri fia laudabile tacerci, | |
105 | ché ’l tempo saria corto a tanto suono. |
Egli risponde al poeta (E lui a me) che va bene venire a conoscenza di qualche nome (Saper d’alcuno è buono); ma che di altri convenga tacere (de li altri fia laudabile tacerci), in quanto il tempo sarebbe insufficiente (ché ’l tempo saria corto) per tante parole (a tanto suono) quante sarebbero necessarie ad elencare tutta la lista.
In somma sappi che tutti fur cherci | |
e litterati grandi e di gran fama, | |
108 | d’un peccato medesmo al mondo lerci. |
Prima di tutto (In somma) il pellegrino sappia che furon tutti chierici (sappi che tutti fur cherci) e grandi letterati (litterati) di gran fama, sudici (lerci) del medesimo (medesmo) peccato commesso da viventi.
Priscian sen va con quella turba grama, | |
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi, | |
111 | s’avessi avuto di tal tigna brama, |
colui potei che dal servo de’ servi | |
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, | |
114 | dove lasciò li mal protesi nervi. |
Prisciano se ne va (Priscian sen va) con quel misero manipolo (quella turba grama), e Francesco d’Accorso anche; e il poeta potrebbe (potei) scorgere nel gruppo (vedervi), se avesse avuto desiderio (s’avessi avuto brama) di osservare uno squallido del genere (tal tigna), colui che da Papa Bonifacio VIII (dal servo de’ servi) fu traslocato (trasmutato) dalle sponde dell’Arno a quelle del Bacchiglione (d’Arno in Bacchiglione), dove perì lasciando il proprio organo maschile proteso inopportunamente (dove lasciò li mal protesi nervi).
Trattasi probabilmente del grammatico romano Prisciano di Cesarea, vissuto a cavallo fra il quinto ed il sesto secolo, nonché insegnante di Latini a Costantinopoli, autore delle Institutiones Grammaticae, di cui non esistono notizie certe riguardo alla sua omosessualità; a meno che Dante non avesse voluto riferirsi al vescovo spagnolo, eretico, Priscilliano, ma non è dato sapere.
A seguito Francesco d’Accorso, o d’Accursio, giurista e letterato bolognese, vissuto nel tredicesimo secolo; infine il faccendiere e vescovo Andrea Spigliati dei Mozzi, benestante fiorentino che, per scandalo, venne trasferito da Firenze a Vicenza, secondo Dante da Bonifacio VIII, secondo differenti fonti da Celestino V, dove rimase fino alla morte.
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone | |
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio | |
117 | là surger nuovo fummo del sabbione. |
Infine Brunetto si dice disposto a continuare a parlare (Di più direi); ma che il seguire il viandante conversando (’l venire e ’l sermone) non può proseguire oltre (più lungo esser non può), poich’egli vede (però ch’i’ veggio) levarsi sul fondo nuovo fumo (là surger nuovo fummo) dal sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio. | |
Sieti raccomandato il mio Tesoro, | |
120 | nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». |
È un’altra comitiva che giunge (Gente vien) con la quale non si deve mischiare (esser non deggio). Egli raccomanda infine all’Alighieri (Sieti raccomandato) il suo Tesoro, attraverso il quale vive (nel qual io vivo) ancora, e non chiede di più (e più non chieggio).
Il “mio Tesoro” è Li Livres Dou Tresor, un trattato enciclopedico in lingua francese, scritto fra il 1262 ed il 1268 da Brunetto Latini.
Poi si rivolse, e parve di coloro | |
che corrono a Verona il drappo verde | |
123 | per la campagna; e parve di costoro |
Poi si rivolge (rivolse), per raggiungere velocemente la sua schiera, sembrando come coloro (e parve di coloro) che corrono il palio di Verona (a Verona) per il drappo verde, per la campagna; e sembra fra quelli (e parve di costoro)
124 | quelli che vince, non colui che perde. |
che vincono, non colui che perde.
Correre il drappo verde è espressione che rimanda ad una celebre corsa campestre veronese del XIII secolo, dove il premio era un taglio di broccato verde, un particolare tessuto operato.
In balzo di canto, al XVI il maestro ed il suo discepolo giungeranno “in loco onde s’udìa ’l rimbombo de l’acqua che cadea ne l’altro giro, simile a quel che l’arnie fanno rombo”…
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