Divina Commedia: Inferno, Canto XIX
Franz von Bayros (1866-1924), Inferno, Canto XIX (dettaglio), 1921
Al diciannovesimo canto l’Alighieri giunge rabbioso, colmo di quello sdegno covato nel cuore, nei confronti della corruzione ecclesiastica, che segnò gran parte della sua esistenza.
Come accennato nella biografia precedente il primo canto, Dante apparteneva alla parte bianca della fazione guelfa, ovvero a quella che, nonostante l’esser a pieno riconoscimento del papato, al contrario degli avversari ghibellini, filo imperiali, rispetto alla parte guelfa nera aveva ben chiara la distinzione di ruoli che avrebbe dovuto scongiurare l’espansione pontificia in affari politico-governativi, riconoscendo ai pontefici significativo ed essenziale potere spirituale, da non inficiare assolutamente con interessi monetari, temuta situazione che comunque avvenne, insudiciando la tanto amata Firenze sul cui suolo il poeta, causa il suo esilio, mai più ebbe il piacere di posare piede, rinunciando per sempre a respirarne la poetica aria.
L’avversione dell’autore esplode fra queste terzine in particolar modo nei confronti dei papi, coloro ch’egli ritenne la causa prima del lento decadere della chiesa e della moralità di gran parte dei fiorentini, in concomitanza d’interessi personali ed ingordigia, a discapito d’onestà e misericordia.
L’incipit di canto s’apre in invocazione di “Simon mago”, presumibilmente in aggancio ad un tal Simone, incantatore delle genti di Samaria il quale, come riportato dagli Atti degli Apostoli, ricevuto il battesimo dal diacono Filippo e poi vedendo Pietro e Paolo instillare lo Spirito Santo in coloro che già erano stati battezzati, offrì ai due apostoli una somma in denaro per acquistare le medesime facoltà, ricevendo in riposta il rifiuto e la severa ammonizione di Pietro.
Nella Firenze di quel periodo la pratica di sinomia, ovvero la vendita di cariche ecclesiastiche, era pratica popolare e nei confronti di coloro che se ne servirono e ne beneficiarono, Dante provò estrema sensazione di ribrezzo, sentimento sputato fra le rime d’un canto nel quale vengono citati tre pontefici in particolare, il simoniaco Niccolò III, Bonifacio VIII, all’Alighieri tanto inviso, per aver sostenuto i guelfi Neri nella lotta contro i Bianchi, ed infine Clemente V, trio ch’egli condanna all’atroce pena d’esser infossati fra la roccia, con fiamme ai piedi, soffocati dalla loro stessa avarizia.
L’astio dantesco trapela in un monologo che il rimatore affida al suo alter ego pellegrino, marcandolo con fermezza di tono, inflessibilità d’opinione e potenza di contenuto, bollori lanciati al suo interlocutore fra stizza e rammarico, poi gratificati dalla benevola approvazione di Virgilio e riaddolcitisi nel suo di lui abbraccio quando, in risalita, il vate cinge il suo adorato protetto fino a raggiungere il ponte dove, con estrema gradevolezza, “soavemente spuose il carco”.
O Simon mago, o miseri seguaci | |
che le cose di Dio, che di bontate | |
3 | deon essere spose, e voi rapaci |
per oro e per argento avolterate, | |
or convien che per voi suoni la tromba, | |
6 | però che ne la terza bolgia state. |
Lasciata Taide alle prese con i sui graffi, Dante giunge alla successiva fossa invocando il mago Simone (O Simon mago) ed i suoi sciagurati (miseri) seguaci che, per cupidigia (voi rapaci), svendettero per guadagno (per oro e per argento avolterate) i beni spirituali (le cose di Dio), i quali dovrebbero invece esser esclusivamente uniti a caritatevole spirito (che di bontate deon essere spose), ragion per cui per gli stessi, data la loro collocazione nella terza bolgia (però che ne la terza bolgia state) ora sia giunto il momento (or convien che per voi) che suoni la tromba del giudizio.
Già eravamo, a la seguente tomba, | |
montati de lo scoglio in quella parte | |
9 | ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba. |
Nella voragine consecutiva a quella appena lasciata (a la seguente tomba), i due viandanti già sono (eravamo) saliti (montati) in quel punto del ponte (de lo scoglio in quella parte) che sta a strapiombo sulla centralità del fossato (ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba).
O somma sapïenza, quanta è l’arte | |
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, | |
12 | e quanto giusto tua virtù comparte! |
Proseguendo in invocazione il poeta si rivolge alla somma sapienza della Santissima trinità (O somma sapïenza), affermando quanto sia immensa l’arte divina rivelatasi (quanta è l’arte che mostri) in cielo, in terra e nell’infernale (mal) mondo, e con quanta giustizia (quanto giusto) la sua integrità morale (virtù) ripartisca (comparte) gratificazioni o penitenze.
Io vidi per le coste e per lo fondo | |
piena la pietra livida di fóri, | |
15 | d’un largo tutti e ciascun era tondo. |
Alla vista del pellegrino (Io vidi), sia sulle pareti (ore le coste) che sul fondo della bolgia, la scura (livida) roccia (pietra) appare piena di buchi (fóri) della medesima larghezza e tutti quanti tondi (d’un largo tutti e ciascun era tondo).
Non mi parean men ampi né maggiori | |
che que’ che son nel mio bel San Giovanni, | |
18 | fatti per loco d’i battezzatori; |
l’un de li quali, ancor non è molt’anni, | |
rupp’io per un che dentro v’annegava: | |
21 | e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni. |
All’Alighieri questi fori sembrano avere la stessa dimensione (Non mi parean men ampi né maggiori) di quelli che si trovano nel suo caro battistero fiorentino di San Giovanni (che que’ che son nel mio bel San Giovanni), costruiti per essere utilizzati come fonti battesimali (fatti per loco d’i battezzatori); uno dei quali (l’un de li quali), non molto tempo prima (ancor non è molt’anni), Dante ruppe (rupp’io) poiché un tale vi stava annegando dentro (per un che dentro v’annegava): e questo racconto egli s’augura che si chiarificatorio al fine di condurre a silenzio eventuali malelingue sull’accaduto (questo sia suggel ch’ogn’omo sganni).
L’Alighieri fu battezzato nel battistero citato e l’episodio a cui egli allude, riguarda verosimilmente un episodio, da come s’evincerebbe dalla terzina, in cui egli si sia trovato costretto alla rottura d’un pozzetto battesimale, al fine di trarre in salvo colui che rischiava d’annegarci; le dicerie alle quali il verseggiatore vagamente si riferisce, potrebbero esser riferite a maldicenze riguardanti il suo gesto, probabilmente ritenuto profano.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava | |
d’un peccator li piedi e de le gambe | |
24 | infino al grosso, e l’altro dentro stava. |
Dall’imbocco d’ogni buca (Fuor de la bocca a ciascun) sbucano (soperchiava) i piedi e le gambe fino a poco prima delle cosce (infino al grosso), quindi anche le ginocchia fuoriescono, mentre il resto del corpo (e l’altro) rimane completamente infilato nella cavità (dentro stava).
Le piante erano a tutti accese intrambe; | |
per che sì forte guizzavan le giunte, | |
27 | che spezzate averien ritorte e strambe. |
Entrambe (intrambe) le piante dei piedi sono infuocate (accese), a causa di questo fuoco le giunture si dimenano con tal impetuosità (per che sì forte guizzavan le giunte), che spezzerebbe (spezzate averien) persino corde di vimini (ritorte) o di sparto (strambe), ossia intrecci di fibre vegetali.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte | |
muoversi pur su per la strema buccia, | |
30 | tal era lì dai calcagni a le punte. |
E come di solito (Qual suole) si comportano le fiamme sulle superfici ricoperte di grasso (il fiammeggiar de le cose unte), rasentandone appena l’estremità (muoversi pur su per la strema buccia), egualmente succede su quei calcagni, fino alle punte (tal era lì dai calcagni a le punte).
«Chi è colui, maestro, che si cruccia | |
guizzando più che li altri suoi consorti», | |
33 | diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?». |
A questo punto il poeta, notando uno spirito che si dispera atrocemente (si cruccia), dibattendosi più di tutti i dannati compagni (guizzando più che li altri suoi consorti), chiede al maestro chi sia costui (Chi è colui, maestro, diss’io) che viene consumato da una fiamma più ardente.
Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti | |
là giù per quella ripa che più giace, | |
36 | da lui saprai di sé e de’ suoi torti». |
Virgilio risponde (Ed elli a me) dicendogli che se gli aggrada ch’egli lo conduca laggiù (Se tu vuo’ ch’i’ ti porti là giù), passando per la parte del pendio meno ripida (per quella ripa che più giace), sarà l’anima stessa a raccontargli di sé e dei suoi peccati (da lui saprai di sé e de’ suoi torti).
E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: | |
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto | |
39 | dal tuo volere, e sai quel che si tace». |
Il pellegrino (E io) s’estasia rispondendo quanto a lui appaia bello (Tanto m’è bel) tutto ciò che garbi alla sua guida (quanto a te piace): che Virgilio è il suo signore (tu se’ segnore) e che lo stesso è a conoscenza del fatto che lui mai si discosterà dalle sue volontà (sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere), sapendo inoltre che il vate sappoia intercettare anche le parole che non gli vengono espressamente dette (e sai quel che si tace).
Allor venimmo in su l’argine quarto; | |
volgemmo e discendemmo a mano stanca | |
42 | là giù nel fondo foracchiato e arto. |
Quindi i due poetanti si spostano sul quarto argine (Allor venimmo in su l’argine quarto), quello che unisce la terza e la quarta bolgia, girandosi (volgemmo) e discendendo a sinistra (discendemmo a mano stanca) laggiù (là giù) su quel fondo forato e stretto (fondo foracchiato e arto).
Lo buon maestro ancor de la sua anca | |
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto | |
45 | di quel che si piangeva con la zanca. |
Il (Lo) buon maestro non smette di tener affiancato e stretto a sé il suo discepolo (ancor de la sua anca non mi dipuose) fino a quando i due non sian giunti nella crepa (sì mi giunse al rotto) di colui che si piange addosso agitando i polpacci (di quel che si piangeva con la zanca).
«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, | |
anima trista come pal commessa», | |
48 | comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto». |
L’Alighieri esordisce in maniera alquanto sfrontata dicendo al dannato (comincia’ io a dir), chiunque sia colui che sta capovolto (O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto), pietosa anima confitta come un palo (anima trista come pal commessa) nel terreno, di blaterare qualcosa (fa motto), per quanto gli sia possibile (se puoi).
Io stava come ’l frate che confessa | |
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, | |
51 | richiama lui per che la morte cessa. |
E, nell’atteggiamento assunto, Dante si pone come il frate che stia per confessare il diabolico assassino (Io stava come ’l frate che confessa) il quale (che), dopo esser stato conficcato (poi ch’è fitto), richieda la sua presenza per rimandare l’esecuzione (richiama lui per che la morte cessa).
Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, | |
se’ tu già costì ritto, Bonifazio? | |
54 | Di parecchi anni mi mentì lo scritto. |
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio | |
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno | |
57 | la bella donna, e poi di farne strazio?». |
Lo stupito spirito, grida (Ed el gridò), per ben due volte la stessa frase verso Dante, erroneamente scambiandolo per papa Bonifacio VIII, chiedendogli s’egli sia già lì dritto in piedi (Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio), pertanto credendo che il libro del futuro l’abbia ingannato di parecchi anni (Di parecchi anni mi mentì lo scritto), dunque chiedendo lui s’egli si sia stufato presto tempo (Se’ tu sì tosto sazio) delle sue ricchezze (di quell’aver) per le quali non ebbe remore (per lo qual non temesti) ad unirsi con l’inganno (tòrre a ’nganno) la Chiesa di Roma (la bella donna), per poi farne scempio (e poi di farne strazio).
“Lo scritto”, ovvero il libro del futuro nominato da Niccolò III, rimanda alla capacità propria ai dannati di prevedere eventi futuri, come peraltro già narrato da Farinata nel decimo canto, fra il centesimo ed il centoduesimo versetto: “Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce, le cose – disse – che ne son lontano cotanto ancor ne splende il sommo duce”.
Tal mi fec’io, quai son color che stanno, | |
per non intender ciò ch’è lor risposto, | |
60 | quasi scornati, e risponder non sanno. |
Alle tali parole il poeta, basito, rimane (Tal mi fec’io) come coloro (quai son color) che, per non aver per nulla compreso di quanto risposto ai loro quesiti (per non intender ciò ch’è lor risposto), restano (stanno) completamente sospesi senza capire nulla (quasi scornati), non essendo in grado di rispondere (e risponder non sanno).
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: | |
“Non son colui, non son colui che credi”»; | |
63 | e io rispuosi come a me fu imposto. |
Allora Virgilio dice (disse) al proprio protetto di rivelargli nell’immediato (Dilli tosto) di non esser colui, di non esser colui che il dannato crede (Non son colui, non son colui che credi); pertanto il confuso poeta risponde come gli è stato disposto (e io rispuosi come a me fu imposto).
Per che lo spirto tutti storse i piedi; | |
poi, sospirando e con voce di pianto, | |
66 | mi disse: «Dunque che a me richiedi? |
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, | |
che tu abbi però la ripa corsa, | |
69 | sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; |
e veramente fui figliuol de l’orsa, | |
cupido sì per avanzar li orsatti, | |
72 | che sù l’avere e qui me misi in borsa. |
Di sotto al capo mio son li altri tratti | |
che precedetter me simoneggiando, | |
75 | per le fessure de la pietra piatti. |
Là giù cascherò io altresì quando | |
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, | |
78 | allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando. |
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi | |
e ch’i’ son stato così sottosopra, | |
81 | ch’el non starà piantato coi piè rossi: |
ché dopo lui verrà di più laida opra, | |
di ver’ ponente, un pastor sanza legge, | |
84 | tal che convien che lui e me ricuopra. |
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge | |
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle | |
87 | suo re, così fia lui chi Francia regge». |
All’apprendere lo stato delle cose, lo spirito è talmente infastidito da contorcersi vistosamente i piedi (Per che lo spirto tutti storse i piedi); poi, fra sospiri e lamentosi gemiti (sospirando e con voce di pianto), risponde (disse) in un lungo e seccato monologo: «Quindi da me cosa vorresti sapere (Dunque che a me richiedi)? Se di saper chi sia ti preme così tanto (Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto), da esserti condotto fin quaggiù (che tu abbi però la ripa corsa), sappi che io indossai la veste papale (sappi ch’i’ fui vestito del gran manto); e fui degno figlio dell’orsa (e veramente fui figliuol de l’orsa), talmente famelico di benefici per i miei parenti (cupido sì per avanzar li orsatti), incassando beni materiali nella vita terrestre, al contrario in questo luogo incassando me stesso in un buco (che sù l’avere e qui me misi in borsa). Sotto il mio capo son già stati infossati altri papi (Di sotto al capo mio son li altri tratti) che mi precedettero nell’attività di simonia (che precedetter me simoneggiando), adesso schiacciati nelle spaccature della roccia (per le fessure de la pietra piatti). Làggiu sprofonderò anch’io (Là giù cascherò io altresì) nel momento in cui arriverà colui che io credevo tu fossi (verrà colui ch’i’ credea che tu fossi), quando immediatamente ti posi il quesito (allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando). Ma il tempo durante il quale sono stato a cuocermi i piedi (’l tempo già che i piè mi cossi) rimanendo in questo stato capovolto (e ch’i’ son stato così sottosopra), sarà stato maggiore (più è) rispetto a quello che colui che verra dopo di me trascorrerà sotterrato con i piedi roventi (ch’el non starà piantato coi piè rossi): perché dopo di lui (ché dopo lui), provenendo da ovest (di ver’ ponente), arriverà un papa malfattore (verrà un pastor sanza legge), di azioni ancor più spregevoli (di più laida opra), rispetto a Bonifacio VIII, a tal punto ch’egli coprirà, sotterrandoci, sia me che lui (tal che convien che lui e me ricuopra). Sarà un nuovo Giasone, (Nuovo Iasón sarà), del quale (di cui) si legge nel libro dei Maccabei (ne’ Maccabei); e come a lui il suo re fu arrendevole (a quel fu molle suo re), altrettanto sarà nei suoi confronti (così fia lui) il re di Francia (chi Francia regge)».
Trattasi di Niccolò III, il Giovanni Gaetano Orsini che ricoprì il ruolo di papa, dal novembre del 1277 fino all’agosto del 1280, che, secondo antichi storici, fu il primo papa a praticare simonia nei confronti dei suoi parenti, arricchendoli alle spalle della Chiesa, in pieno contrasto all’atteggiamento umile e caritatevole che si converrebbe ad un pontefice. Il papa che verrà dopo di lui, infossandolo, sarà Bonifacio VIII, con lui imparentato da parte di madre, eletto papa nel 1294 e recidivo simoniaco che, tuttavia, rimarrà a gambe levate e piedi ardenti per minor tempo rispetto a Niccolò III, in quanto poco dopo giungerà alla medesima bolgia papa Clemente V, il Bertrand de Got, nativo di Guascogna, in odio a Dante per aver trasferito la sede apostolica da Roma ad Avignone.
Niccolò III morì nel 1280, Bonifacio VIII nel 1303, Clemente V nel 1314; ecco dunque perché Bonifacio VIII trascorrerà dunque dodici anni in meno, rispetto a Niccolò III, semi infossato con fiammelle ai piedi.
Il Giasone di cui si parla si riferisce ad un ebreo che, nel 175 a. C., acquistò carica ecclesiastica dal re Antioco Epifane, detto anche Mitridate, come raccontato in uno dei cinque “Libri dei Maccabei”, ovvero i testi contenenti le vicende dell’omonima famiglia, a capo della ribellione contro lo stesso sovrano seleucide, ossia del periodo ellenistico, mentre “chi Francia regge” rimanda al re francese Filippo IV “il Bello” (1268-1314), dei cui favori Clemente V godette.
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, | |
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro: | |
90 | «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle |
Nostro Segnore in prima da san Pietro | |
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? | |
93 | Certo non chiese se non “Viemmi retro”. |
Né Pier né li altri tolsero a Matia | |
oro od argento, quando fu sortito | |
96 | al loco che perdé l’anima ria. |
Però ti sta, ché tu se’ ben punito; | |
e guarda ben la mal tolta moneta | |
99 | ch’esser ti fece contra Carlo ardito. |
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta | |
la reverenza de le somme chiavi | |
102 | che tu tenesti ne la vita lieta, |
io userei parole ancor più gravi; | |
ché la vostra avarizia il mondo attrista, | |
105 | calcando i buoni e sollevando i pravi. |
Di voi pastor s’accorse il Vangelista, | |
quando colei che siede sopra l’acque | |
108 | puttaneggiar coi regi a lui fu vista; |
quella che con le sette teste nacque, | |
e da le diece corna ebbe argomento, | |
111 | fin che virtute al suo marito piacque. |
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; | |
e che altro è da voi a l’idolatre, | |
114 | se non ch’elli uno, e voi ne orate cento? |
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, | |
non la tua conversion, ma quella dote | |
117 | che da te prese il primo ricco patre!». |
Evidentemente infastidito, il pellegrino, fissando titubanza fra versi chiedendosi se non sia stato troppo insolente (Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle), gli risponde con tono deciso (rispuosi lui a questo metro) ed alquanto irritato: “Deh, or tu dimmi un po’ (or mi dì): quanto denaro (quanto tesoro) volle il nostro Dio (Nostro Segnore) da San Pietro prima di (in prima) affidargli le chiavi del cielo (ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa)? Certamente (Certo) null’altro chiese se non d’essere seguito (non chiese se non “Viemmi retro”). Nemmeno Pietro o gli altri (Né Pier né li altri) apostoli sottrassero (tolsero) oro od argento a Mattia (Matia), quando fu scelto (sortito) al posto (loco) di colui che perdette (perdé) l’anima malvagia (ria). Pertanto (Però) resta dove ti trovi (ti sta), perché sei giustamente punito (ché tu se’ ben punito); e ben salvaguarda (guarda) il denaro che hai estorto ingannevolmente (la mal tolta moneta) che ti rese ostile nei confronti (ch’esser ti fece contra) Carlo d’Angiò (Carlo ardito). E se non fosse che in questo momento sia frenato (ch’ancor lo mi vieta) dal rispetto nei confronti (la reverenza de) delle somme chiavi che tu custodisti quand’eri vivente (che tu tenesti ne la vita lieta), io utilizzerei (userei) parole ancor più dure (gravi); poiché (ché) la vostra avidità (avarizia) affligge (attrista) il mondo, avvilendo (calcando) i buoni ed esaltando i manigoldi (sollevando i pravi). Di voi papi (pastor) si rese conto (s’accorse) l’evangelista Giovanni (il Vangelista), quando colei che siede sopra le acque della Chiesa, gli fu mostrata (a lui fu vista) a civettare (puttaneggiare) con i re (coi regi); quella che nacque con sette virtù (teste) e che dai dieci comandamenti (corna) trasse energia (e da le diece corna ebbe argomento), fin che al papa piacque la virtù. Vi siete ostruiti (Fatto v’avete) un dio d’oro e d’argento; e che differenza passa fra voi e gli idolatri (altro è da voi a l’idolatre), se non il fatto che gli stessi adorassero un unico Dio, mentre così ne adoraste cento (se non ch’elli uno, e voi ne orate cento)? Ahimè, Costantino (Ahi, Costantin), di quanto male fu origine (mal fu matre), non tanto la tua conversione (conversion) al cristianesimo, ma tanto quella donazione (quella dote) che da te ricevette (prese) papa Silvestro (il primo ricco padre)!”
In piena citazione di testi evangelici, il monologo dantesco richiama la consegna delle chiavi del cielo a Pietro, per l’affidamento delle quali non gli fu chiesto compenso in denaro, come tantomeno fu preteso da Mattia, quand’egli fu sorteggiato per prendere il posto del traditore Giuda; intento dell’Alighieri è quello di sottolineare, per contro, l’opposta condotta morale di Niccolò III, dichiarandola, nella brama di denaro, simile all’idolatria degli Ebrei assoggettati al re dell’Assiria ed ai quali, secondo la Bibbia, venne fabbricato un vitello d’oro che divenisse idolo degli stessi durante l’assenza di Mosè, durante la sua ascesa al monte Sinai; vitello dagli stessi idolatrato quanto le centinaia di monete alle quali s’abbandonarono in adorazione i papi corrotti (e che altro è da voi a l’idolatre, se non ch’elli uno, e voi ne orate cento).
Crescente corruzione della chiesa romana che l’autore della commedia metaforizza in una grande meretrice, intenta a “puttaneggiare coi regi”, simbolizzate una progressiva perdita di moralità che Dante attribuisce in origine all’imperatore Costantino il quale, dopo essersi convertito al cristianesimo, avrebbe donato la città di Roma al papa Silvestro I, come gratitudine al fatto d’esser stato battezzato e guarito dalla lebbra.
L’autenticità della tal donazione, un secolo dopo circa, sarà confutata dallo scrittore umanista, filologo, filosofo ed accademico Lorenzo Valla in un libro, De Falso Credita Ed Ementita Constantini Donatione, scritto nel 1440 ed uscito in prima pubblicazione nel 1517.
E mentr’io li cantava cotai note, | |
o ira o coscïenza che ’l mordesse, | |
120 | forte spingava con ambo le piote. |
E mentre l’Alighieri le canta di santa ragione a Niccolò III (E mentr’io li cantava cotai note), lo stesso, per rabbia o per rimorso (o ira o coscïenza che ’l mordesse), recalcitra entrambi i piedi con potenza (forte spingava con ambo le piote).
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, | |
con sì contenta labbia sempre attese | |
123 | lo suon de le parole vere espresse. |
Al poeta par di capire che il suo duca sia compiaciuto (I’ credo ben ch’al mio duca piacesse), notando com’egli abbia sempre prestato ascolto (attese), con così benevola espressione del viso (con sì contenta labbia) alla veracità ed al tono del suo discorso (lo suon de le parole vere espresse).
Però con ambo le braccia mi prese; | |
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, | |
126 | rimontò per la via onde discese. |
Pertanto Virgilio afferra con entrambe le braccia il suo discepolo (Però con ambo le braccia mi prese); ed una volta alzatolo e strettoselo al petto (e poi che tutto su mi s’ebbe al petto), risale per il percorso da cui era disceso (rimontò per la via onde discese).
Né si stancò d’avermi a sé distretto, | |
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco | |
129 | che dal quarto al quinto argine è tragetto. |
E non si stanca di tenersi stretto avvinghiato il suo protetto (Né si stancò d’avermi a sé distretto), fino a che non l’abbia condotto sulla sommità del ponte (sì men portò sovra ’l colmo de l’arco) che fa da collegamento (tragetto) fra il quarto ed il quinto argine.
Quivi soavemente spuose il carco, | |
soave per lo scoglio sconcio ed erto | |
132 | che sarebbe a le capre duro varco. |
Qui, il vate posa delicatamente a terra il pellegrino (Quivi soavemente spuose il carco), con una tal soavità, considerando la scomodità e la pendenza del ponte (soave per lo scoglio sconcio ed erto) tal che sarebbe un tragitto difficoltoso persino per le capre (che sarebbe a le capre duro varco).
135 | Indi un altro vallon mi fu scoperto. |
Quindi un’altro fossato gli appare alla vista (Indi un altro vallon mi fu scoperto).
E sarà proprio alla descrizion della quarta bolgia che l’Alighieri dedicherà la sua penna al fin di “far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon, ch’è d’i sommersi”…
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