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Divina Commedia: Inferno, Canto XIII

William Blake (1757-1827), Heads of the Poets, 1800

 
Accompagnati da Nesso al di là del Flegetonte, Dante e Virgilio si ritrovano nel secondo girone del VII cerchio, ovvero dove sono puniti i violenti contro se stessi, quindi i suicidi e gli scialacquatori, la cui condanna è quella d’esser stati trasformati in arbusti i cui rami, se spezzati, sanguinano lasciando fuoriuscire lamentosa voce degli spiriti in essi eternamente imprigionati.

Codesto canto scivola sul sottofondo di strani suoni che amplificano l’aspetto orribile della boscaglia nella quale s’addentrano i due poetanti, tipicità stilistica degli autori siciliani, ponendo a fulcro la conversazione con il ramoscello in cui sta rinserrato Pier della Vigna il quale, inconsolabilmente corrucciato per il disonore che, secondo lui ingiustamente, ne macchiò la terrena fama, prostrato si rivolge al fiorentino nel desiderio di riscattarsi agli occhi dei viventi.

La delicatezza con la quale il maestro, avendo poco prima spronato il proprio discepolo a frantumare una fronda al fin di scoprir da sé cosa contenesse, si rivolge al della Vigna rammaricandosi e portando discolpa al pellegrino, racchiude la maturità d’un animo savio e gentile, come mai l’autore della Commedia manca di sottolineare, unendo a consapevolezza un’ammirazione senza limiti.

Dopo dettagliata narrazione di come avvenga la metamorfosi delle anime in alberi, l’apparizione di due scialacquatori in fuga da cagne affamate, irrompono nella dolce atmosfera creatasi precedentemente, movimentando la scena ed aggiungendo, tramite colloquio con ignoto cespuglio, ulteriore racconto legato alla Firenze tanto cara al toscano rimatore che, fra compassione e stordimento, suddivide i propri sensi fra accorato ascolto ed incredula emozione.

Il tema del suicidio attraversa le terzine in maniera mesta e contrita, delineando un Alighieri splendidamente umano e comprensivo nel trattar dell’altrui colpe senza ergersi a giudice, al contrario lasciando trasparire dalle proprie rime una mirabile capacità di misericordia.
 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XIII. Priamo della Quercia (ca.1400-1467), La selva dei suicidi, XV secolo • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Priamo della Quercia (ca.1400-1467)
La selva dei suicidi, XV secolo

 

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
3 che da neun sentiero era segnato.

I due poeti (noi), precedentemente aiutati da Nesso nel guado del Flegetonte, ancor prima che il centauro, una volta lasciatili, abbia raggiunto la sponda di partenza (Non era ancor di là Nesso arrivato), s’inoltrano in un bosco privo di sentiero (quando ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato).
                              

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
6 non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Nella strana boscaglia le foglie non sono verdi (Non fronda verde), ma di colore cupo (fosco); i rami non sono lisci (schietti) e lineari, ma nodosi e ritorti (‘nvolti); non vi sono frutti (non pomi v’eran), ma appuntite sporgenze velenose (stecchi con tòsco).

non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
9 tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Nemmeno le bestie (fiere) selvagge che, tra Cecina e Corneto, disdegnano i campi coltivati (che ’n odio hanno i luoghi cólti), stanno in territori tanto rudi ed incolti (non han sì aspri sterpi né sì folti).

Il riferimento è probabilmente ai cinghiali che popolano la Maremma, fra Cecina e l’attuale Tarquinia, la stessa dove bazzicava lo spietato predone Rinieri da Corneto, incontrato poco prima, guadando il fiume.                                                             

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
12 con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
15 fanno lamenti in su li alberi strani.

In codesto loco (Quivi) nidificano le orribili Arpie (le brutte arpie lor nidi fanno), coloro che cacciarono i Troiani dalle ioniche isole Strofadi (che cacciar de le Strofade i Troiani) con nefasta profezia (con tristo annunzio) di disgrazie future (di futuro danno).

Le stesse hanno ampie ali (Ali hanno late), collo e viso dalle umane sembianze (e colli e visi umani), piedi artigliati (piè con artigli), e un ampio ventre piumato (e pennuto ’l gran ventre); emettono (fanno) lamenti dagli strani alberi.

Le Arpie, future mitologiche classiche figlie della divinità marina greca Taumante e della dea oceanina e personificazione dell’arcobaleno Elettra, erano inizialmente immaginate da Esodo come bellissime donne con grandi ali che, in seguito, d’autore in autore, mutate furono in orripilanti uccelli con testa, tronco e braccia dalle umane e femminee sembianze, collegate all’impetuosità dei venti nelle bufere. Originariamente reputate come coloro che rapivano i naufraghi durante le burrasche, vennero in seguito collegate all’oltretomba, come rapitrici degli spiriti morenti al fin di trasportarli negli infernali regni.

Sulla genealogie delle demoniache figure vi è tuttavia incertezza conseguente alla varia concezione che ne diedero nell’antichità, così come sul numero delle stesse, non specificato in testi omerici ed invece ben determinato da Esiodo il quale, ipotizzando fossero due, alle stesse attribuì il nome “Aello”, “Ocipete”, secondo Virgilio più numerose e capeggiate da tal “Celeno”.

È appunto alle virgiliane narrazioni che l’Alighieri s’ispira nella stesura delle terzine in cui s’accenna agli alati mostri ed al lor funesto predire ad Enea una terribile e sofferente carestia che, in realtà, non avverrà, poiché diabolico inganno per indurre le truppe troiane alla fuga.

E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
18 mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
21 cose che torrien fede al mio sermone.»

A questo punto il buon maestro (E ’l buon maestro) dice a Dante che (mi cominciò a dire), prima ch’egli s’addentri («Prima che più entre), abbia consapevolezza d’esser (sappi che se’) nel secondo girone del VII cerchio, ed ivi resterà fino a quando non giungerà (e sarai mentre che tu verrai) all’orribile estensione di sabbia (ne l’orribil sabbione). Egli raccomanda però al pellegrino di osservare con attenzione (Però riguarda ben); cosicché potrà vedere (sì vederai) cose tali che sfaterebbero ogni suo discorso (torrien fede al mio sermone) introduttivo.

“L’orribil sabbione” è la distesa di sabbia infuocata che inizierà alla fine dell’inquietante bosco, segnando il passaggio al terzo girone del VII cerchio.

Con “cose che torrien fede al mio sermone” Virgilio intende dire che non vi sono parole adatte a descrivere quanto apparirà alla vista del suo discepolo.

Io sentia d’ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che ’l facesse;
24 per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Il fiorentin poeta sente d’ogni parte giungere acuti gemiti (Io sentia d’ogne parte trarre guai), pur non vedendo chi li emetta (e non vedea persona che ’l facesse); pertanto, in completo smarrimento, si ferma (e non vedea persona che ’l facesse).

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
27 da gente che per noi si nascondesse.

L’Alighieri si trova a credere che il suo maestro possa credere ch’egli creda (Cred’io ch’ei credette ch’io credesse) che quel lamentoso e generale vociferar provenga (che tante voci uscisser) da quei tronchi (bronchi) e sia emesso da spiriti che si nascondono alla loro vista (da gente che per noi si nascondesse).

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
30 li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Motivo per cui il maestro dice lui (Però disse ’l maestro) che se spezzerà (Se tu tronchi) qualche rametto (fraschetta) ad una di quelle piante (d’una d’este piante), le sue perplessità svaniranno (li pensier c’hai si faran tutti monchi).

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
33 e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XIII. Jan Van der Straet (1523-1605), Dante raccoglie i ramoscelli nel bosco dei suicidi, 1587 • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Jan Van der Straet (1523-1605)
Dante raccoglie i ramoscelli nel bosco dei suicidi, 1587

 
Allor il poeta allunga la mano (Allor porsi la mano un poco avante), e coglie un ramoscello (e colsi un ramicel) da un gran pruno; e il suo tronco grida (e ’l tronco suo gridò) chiedendo il perché del suo spezzarlo («Perché mi schiante?»).

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
36 non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
39 se state fossimo anime di serpi».

E dopo aver perso del sangue scuro (Da che fatto fu poi di sangue bruno), la piccola frasca riprende a parlare (ricominciò a dir) chiedendo di nuovo il motivo per cui Dante l’abbia estirpato (Perché mi scerpi?) e domandandogli s’egli non possegga sentimento alcuno di pietà (non hai tu spirto di pietade alcuno?)

La misteriosa voce afferma esser quei tronchi stati uomini (Uomini fummo) in vita, ed ora trasformati in arbusti (e or siam fatti sterpi): ben più misericordiosa avrebbe dunque dovuto essere la mano del poeta (ben dovrebb’esser la tua man più pia), se lor stessi fossero state anime di serpenti (se state fossimo anime di serpi).

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
42 e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
45 cadere, e stetti come l’uom che teme.

E come da un verde tizzone (Come d’un stizzo verde) che venga arso da una delle due estremità (ch’arso sia da l’un de’capi), e che dall’altra sembra che pianga (che da l’altro geme) spurgando linfa e scricchiando come conseguenza del vapore che fuoriesce (cigola per vento che va via), alla stessa maniera (così) dal punto di rottura del ramo (de la scheggia rotta) erompono parole unite al sangue (usciva insieme parole e sangue); sicché il pellegrino molla sull’istante il piccolo sterpo, lasciandolo cadere (ond’io lasciai la cima cadere), rimanendo come colui che venga folgorato dal terrore (e stetti come l’uom che teme).

«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa
48 ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
51 indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
54 nel mondo sù, dove tornar li lece.»

 

Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto XIII. Gustave Doré (1832-1883), L'arbusto sanguinante • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)
Gustave Doré (1832-1883)
L’arbusto sanguinante

 
La savia guida interviene (rispuose ’l savio mio) nel tentativo di rimediar all’afflizione dell’ “anima lesa”, affermando che se al dantesco verseggiatore, al fin di credere prima di sperimentarlo, fosse stata sufficiente la lettura di quanto contenuto a riguardo nell’Eneide (S’elli avesse potuto creder prima ciò c’ha veduto pur con la mia rima), non avrebbe allungato la sua mano verso l’albero (non averebbe in te la man distesa); ma l’inverosimile situazione (ma la cosa incredibile), ha costretto il virgilian vate ad indurre il poeta (mi fece indurlo) a compiere un gesto (ad ovra) di cui lui stesso ora si cruccia (ch’a me stesso pesa).

Egli suggerisce poi al legnoso spirito di rivelare la propria identità terrena (Ma dilli chi tu fosti), dando la possibilità, al proprio discepolo, di rimediare (sì che ’n vece d’alcun’ammenda) rimembrando la di lui nomea (tua fama rinfreschi) nel mondo terrestre (sù), dove gli è concesso tornare (tornar li lece).

I versi dell’Eneide ai quali accenna il mantovano autore, si riferiscono all’episodio di Polidoro, il giovane ed ultimo figlio di Priamo che venne ucciso dal cognato Polimestore, re di Tracia, e poi trasformatosi in un cespuglio di mirto a cui Enea strappò dei rametti da utilizzare a scopo votivo, stupendosi e rammaricandosi di vederne sanguinare e piangere le radici.

Al tal gesto, il sofferente arbusto si rivolge ad Enea, come il pruno a Dante, lui chiedendo:

«Ahi! perché sì mi laceri e mi scempi?
Perché di così pio, così spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
Un ch’è morto e sepolto? A che contamini
Col sangue mio le consanguinee mani?
Ché né di patria né di gente esterno
Son io da te; né questo atro liquore
Esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:
Fuggi da questo abbominevol lito:
Ché Polidoro io sono, e qui confitto
M’ha nembo micidiale e ria semenza
Di ferri e d’aste che dal corpo mio
Umor preso e radici, han fatto selva»

 

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
57 perch’io un poco a ragionar m’inveschi.

L’albero (E ’l tronco) confida esser talmente dolce il parlar di Virgilio (Sì col dolce dir) da esserne rapito (m’adeschi), al punto da non poter rimanere in silenzio (ch’i’ non posso tacere); egli si raccomanda però ai due viandanti affinché loro non pesi (e voi non gravi) se si lascerà invischiare raccontando (perch’io un poco a ragionar m’inveschi), quindi dilungandosi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
60 serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorïoso offizio,
63 tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

Lo spirito inizia dunque narrando d’esser stato colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico II (Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo), e colui che le girò (volsi), chiudendo e riaprendo (serrando e disserrando), così soavemente (sì soavi), da impedire a quasi tutti di entrarne in confidenza (che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi): egli continua dicendo d’esser rimasto fedele all’autorevole ruolo (fede portai al glorïoso offizio), fino a perderne la quiete e poi la vita (tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi).

Pier della Vigna, politico, scrittore e letterato vissuto nel tredicesimo secolo, fu notaio e confidenziale segretario di Federico II da Svevia il cui ascendente è ben metaforizzato su quel “serrando e disserrando le chiavi del cor” con il quale ben si comprende il prestigio del ruolo politico a lui affidato. Nominato seguito giudice imperiale con rilevati competenze diplomatiche, fu oggetto, causa prima l’invidia per la sua esclusiva influenza sul re siculo, d’intricate congetture al punto d’essere accusato di corruzione dallo stesso imperatore, a sua volta sobillato dalla bieca malevolenza dei cortigiani. Mai verità assoluta fu accertata sulla sua presunta colpevolezza od innocenza. Arrestato e fatto accecare, si suicidò poco dopo, verosimilmente per mal sopportazione dell’accusa oppure, come si evince dalla Commedia, per disperato senso di vendetta.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
66 morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
69 che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

Ma l’invidia (meretrice), malora dell’umanità (morte comune) e pecca delle corti (de le corti vizio), che mai volse gli svergognati occhi (che mai non torse li occhi putti) dal palazzo imperiale (da l’ospizio di Cesare), attizzò (infiammò) contro di lui tutti i cortigiani (contra me li animi tutti); e tali animi infiammati (e li ’nfiammati), aizzarono a loro volta Federico II (infiammar sì Augusto), al punto che i suoi lieti onori (che ’ lieti onor) divennero funebri afflizioni (tornaro in tristi lutti).

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
72 ingiusto fece me contra me giusto.

Pertanto il suo addolorato animo (L’animo mio), per vendicativo piacere (per disdegnoso gusto), fallacemente credendo di rifuggire il generale disdegno morendo (col morir fuggir disdegno), lo rese ingiusto contro se stesso (ingiusto fece me contra) pur essendo innocente (me giusto).                          

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
75 al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

Egli poi, sulle nuove radici del legno (Per le nove radici d’esto legno) che lo imprigionano, giura ai due poeti (vi giuro) che mai fu infedele (già mai non ruppi fede) a Federico II (al mio segnor), che d’essere onorato fu tanto degno (che fu d’onor sì degno).

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
78 ancor del colpo che ’nvidia le diede».

Al postutto, quasi supplicante chiede a chi ritornasse nel mondo terreno (E se di voi alcun nel mondo riede), di redimerne la memoria (conforti la memoria mia), che ancor giace annichilita dal colpo che l’invidia le infierì (ancor del colpo che ’nvidia le diede).

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
81 ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Il mantovan poeta, dopo una breve attesa, sprona il suo protetto (Un poco attese, e poi disse ’l poeta a me) a non perder tempo (non perder l’ora) ed a parlare (ma parla), intanto che lo spirito s’è silenziato (Da ch’el si tace), e di chieder lui quel che più gli garbi (e chiedi a lui, se più ti piace) domandare.

Ond’io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
84 ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».

Lo scombussolato poeta manifesta al proprio conduttore (Ond’io a lui) il desiderio che sia lui ad interrogare di nuovo lo spirito (Domandal tu ancora) chiedendogli su argomenti ch’egli creda creda possano soddisfarlo (di quel che credi ch’a me satisfaccia); perché egli è talmente addolorato dalla compassione (tanta pietà m’accora), da non poterlo fare (ch’i’ non potrei).

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
87 spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
90 s’alcuna mai di tai membra si spiega».

Riprendendo parola, il maestro (Perciò ricominciò), dapprima augurando all’anima imprigionata (carcerato spirito) che il suo discepolo esaudisca appieno (Se l’om ti faccia liberamente) quanto da lei implorato (ciò che ’l tuo dir priega), cortesemente le chiede se abbia piacere a parlar di nuovo (ancor ti piaccia di dirne) spiegando come avviene che lo spirito venga recluso (come l’anima si lega) a quei nocchiosi arbusti (in questi nocchi); e di rivelare (e dinne), se sia nelle sue facoltà (se tu puoi), se mai qualche anima (s’alcuna mai) sia riuscita a divincolarsi (si spiega) da quel corpo (di tali membra) legnoso.

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
93 «Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
96 Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
99 quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
102 fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
105 ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
108 ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

Dunque (Allor) il tronco soffia energicamente (soffiò forte), e poi quel vento si converte nella tal voce (si convertì quel vento in cotal voce): “Vi risponderò brevemente (Brievemente sarà risposto a voi).

Quando l’efferata (feroce) anima s’affranca (si parte) dal corpo da cui lei stessa (ond’ella stessa) s’è separata (s’è disvelta), Minosse (Minòs) la dirige (la manda) al settimo cerchio (a la settima foce).

Ella piomba (cade) in (ne la) codesta selva, e non in un punto a priori deciso (non l’è parte scelta); ma dove il caso la getta (ma là dove fortuna la balestra), ed ivi (quivi) germoglia come un seme (gran) di farro (scelta).

Affiora come giunco (Surge in vermena) e divien pianta selvatica (silvestra): le Arpie, sfamandosi (pascendo) poi del suo fogliame (de le sue foglie), provocano (fanno) dolore, ed a quel dolore aprono un varco (fenestra), nel punto di potatura.

Come le altre (l’altre) anime giungeremo (verrem) per riprendere i nostri corpi (nostre spoglie), il giorno del giudizio universale, ma non affinché ciascuna se ne rivesta (ma non però ch’alcuna sen rivesta), poiché (ché) non è giusto che si riabbia quanto in vita ci si è tolti (aver ciò ch’om si toglie).

Qui le trascineremo, e per la desolata (mesta) selva i nostri corpi saranno appesi, ciascuno al pruno (prun) della propria anima (de l’ombra sua) avversa (molesta)”.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
111 quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
114 ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Maestro e discepolo sono ancora concentrati sull’albero (Noi eravamo ancora al tronco attesi), credendo lui voglia parlare ancora (ch’altro ne volesse dire), quando vengono improvvisamente colti da un rumore (noi fummo d’un romor sorpresi), del tutto simile a quello che il cacciatore (similemente a colui) sente quando sta per avvicinarsi il cinghiale (che venire sente ’l porco) e chi lo insegue (e la caccia) verso l’appostamento del bracconiere (a la sua posta), che appunto sente i cani (ch’ode le bestie) abbaiare, e le frasche bruire (stormire).

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
117 che de la selva rompieno ogni rosta.

Ed ecco due dannati provenire dalla parte sinistra (Ed ecco due da la sinistra costa), nudi e graffiati, fuggire così velocemente (fuggendo sì forte), da rompere (che rompieno) ogni fronda del bosco (rosta de la selva).

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
120 gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
123 di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Quello davanti (Quel dinanzi) doppiamente invoca la morte di accorrere sull’istante (Or accorri, accorri, morte!). E l’altro, a cui sembrava di non correre abbastanza celermente (cui pareva tardar troppo), grida a colui che lo precede, appellandolo “Lano”, che le sue gambe mai gli parvero tanto frettolose (sì non furo accorte le gambe tue) nelle giostre del Toppo (a le giostre dal Toppo!). E poi, mancandogli probabilmente il respiro (che forse li fallia la lena), s’ingloba in un cespuglio (di sé e d’un cespuglio fece un groppo), ingrovigliandosi in esso.

Il succitato “Lano” fu Arcolano da Squarcia di Riccolfo Maconi, denominato Lano da Siena, fu noto scialacquatore che perì nelle Giostre del Toppo, battaglia combattuta nel 1288 fra Siena ed Arezzo e che, su opinione di Giovanni Boccaccio, cerco deliberatamente la morte a causa dello sciocco sperpero d’ogni suo avere.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
126 come veltri ch’uscisser di catena.

Dietro i due spiriti in corsa (Di rietro a loro) la selva è piena di nere cagne, fameliche (bramose) e celeri nella corsa (correnti) come cani appena liberati dalla catena (veltri ch’uscisser di catena).

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
129 poi sen portar quelle membra dolenti.

Le stesse affondano i denti (miser li denti) in colui che s’era appena ingarbugliato (In quel che s’appiattò) nel cespite, e lo dilaniano brandello a brandello (e quel dilaceraro a brano a brano); poi portandosi via (sen portar) quei pezzi di carne (quelle membra) dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
132 per le rotture sanguinenti in vano.

Al che Virgilio (allor la mia scorta) prende per mano il suo protetto (presemi per mano), conducendolo (e menommi) al cespuglio piangente (che piangeva), per l’invano spezzar dei rami (per le rotture invano) ora sanguinanti (sanguinenti).

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
135 che colpa ho io de la tua vita rea?»

Costui si lamenta invocando tale Jacopo da Sant’Andrea (O Iacopo, dicea, da Santo Andrea), e chiedendosi a cosa gli sia giovato farsi scherno di lui (che t’è giovato di me fare schermo?) e che colpa possa avere lui (che colpa ho io) della malavventurata vita condotta dallo stesso (che colpa ho io de la tua vita rea?).

Jacopo, o Giacomo, da Sant’Andrea fu nobiluomo padovano ridottosi in povertà e probabilmente suicidatosi a causa del suo scellerato e celere dissipamento d’ogni ricchezza anche se, versioni differenti, ne narrano la morte per mani del politico Ezzelino IV da Romano o, ancora, il passaggio a miglior vita, in condizioni d’estrema povertà, fra le mura d’un ospedale.

Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
138 soffi con sangue doloroso sermo?».

Nel mentre, quando il maestro gli si è fermato sopra (Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo), gli chiede (disse) chi sia stato in vita (Chi fosti), lui che ora, da una moltitudine (che per tante) di punte spezzate, soffia sangue unito a dolenti parole (soffi con sangue doloroso sermo?).                     

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
141 c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
144 mutò il primo padrone; ond’ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
147 rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
150 avrebber fatto lavorare indarno.

Ed il dolente rovo, in risposta ai due poeti (Ed elli a noi): “O anime che siete giunte ad osservar il vergognoso scempio (a veder lo disonesto strazio) che i miei rami ha in tal modo divelto da me (c’ha le mie fronde sì da me disgiunte), raccoglietele raggruppandole alla base di questo avvilito cespuglio (al piè del tristo cesto). Io appartenni alla città (I’ fui de la città) che in Giovanni Battista (nel Batista) mutò il primo protettore (il primo padrone); e il precedente (ond’ei) per questo sempre la perseguiterà con la sua arte (con l’arte sua la farà trista) guerriera; e se non fosse che dell’originario patrono (di lui) rimane ancor qualche testimonianza visibile (di lui alcuna vista) sul ponte dell’Arno (’n sul passo d’Arno), quei cittadini che in seguito la riedificarono (que’ cittadin che poi la rifondarno) sulle ceneri rimaste dalla devastazione di Attila (sovra ’l cener che d’Attila rimase) avrebbero fatto tanto lavoro inutilmente (avrebber fatto lavorare indarno)”

Secondo la versione della dolorante voce appartenente ad ignoto, il primo patrono di Firenze, poi sostituito da Giovanni Battista, fu Marte, lo stesso che, per astio nei confronti del suo successore, tiene la città in bilico fra continue guerre; la totale ed ulteriore devastazione del suolo fiorentino, dopo il flagello ad opera di Attila, sarebbe evitata dalla presenza, sul Ponte Vecchio, d’una parte di statua a lui dedicata.

In verità, sebbene leggendarie narrazioni identifichino Attila come colui che rase al suolo Firenze, diversamente fu il re ostrogoto Totila a rendersi protagonista del brutale assedio; per quanto concerne la statua, che ai tempi dell’Alighieri la maggior parte di fiorentini riteneva esser raffigurazione di Marte, è verosimile la stessa raffigurasse, per converso, un re germanico.
 

152 Io fei gibetto a me de le mie case».

L’affranta voce conclude poi confidando d’aver fatto della propria casa (de le mie case) il suo patibolo (Io fei gibetto a me).

L’anonimo spirito confessa dunque d’essersi impiccato nella propria abitazione.

Un Alighieri fortemente scosso dal racconto dell’affranto suicida, aprirà il XIV canto amorevolmente radunandone “le fronde sparte e rende’ le a colui, ch’era già fioco”…                              
 
 
 
 

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