Divina Commedia: Inferno, Canto X
Luca Signorelli (1450-1523), Dante Alighieri, Duomo di Orvieto, 1499-1504.
Il decimo canto, come il precedente ed il successivo, narrano delle pene di eretici ed epicurei e, nelle terzine a seguire, lo sfondo argomentativo è prevalentemente politico, rappresentato in particolar modo da Manente degli Uberti, detto Farinata, nonché, in misura minore, da Cavalcante dei Cavalcanti, da Federico II e dal cardinale Ottaviano degli Ubaldini.
Addentrandosi fra i sepolcri della città di Dite, Dante conversa con Virgilio e la sua parlata viene nell’immediato riconosciuta da Farinata, anch’esso fiorentino, il quale, fuoriuscendo dalla propria tomba, gli chiede chi siano i suoi antenati e, subito dopo aver appreso l’appartenenza guelfa dell’Alighieri, in preda ad evidente risentimento, ancor si cruccia per quanto la sua famiglia, nell’intera discendenza, si stata spietatamente perseguitata, poiché ghibellina.
Farinata fu infatti un condottiero ghibellino appartenente ad un’antica ed influente famiglia fiorentina, quella appunto degli Uberti, vivente nel tredicesimo secolo, quindi nel periodo centrale delle feroci lotte fra le due fazioni politiche.
Con il dantesco poeta vi sarà una sorta di battibecco in cui lo stesso ricorderà al pellegrino d’aver cacciato i guelfi da Firenze per ben due volte (per due fïate li dispersi), nel 1248 e nel 1260, risparmiandosi la vista della rimonta guelfa, successiva d’un triennio alla sua morte, avvenuta nel 1267 e durante la quale su tutti i ghibellini, specialmente sulla famiglia degli Uberti, loro fulcro indiscusso, s’abbatté una sanguinaria ed impietosa vendetta.
Il pellegrino risponderà a tono alle accuse d’eccesso di ferocia, dandone giustificazione sulla base dei precedenti massacri subiti dagli stessi guelfi.
A stupire del breve diverbio è, da un lato, l’ancor accesa passione politica di Farinata, a dimostrazione del non aver compreso i propri errori nemmeno dopo la morte, dall’altro, il suo commovente sconforto nell’esser stato l’unico ad opporsi al decreto reale che ordinava di radere al suolo l’intera città, a lui molto cara, a costo di difenderla addirittura con la spada. Di fronte al tal rammarico, anche il comprensivo verseggiatore calma i toni, addirittura dispiacendosi della sofferenza di quell’anima disperata alla quale augura di trovar pace.
All’interno del loro acceso alterco s’inserisce Cavalcante dei Cavalcanti, riconoscendo nel discepolo colui che fu carissimo amico del figlio Guido, illusosi di poterlo vedere al fianco del poeta, poi, per un equivoco di mala comprensione verbale, credendolo morto ed accasciandosi a lutto.
Cavalcante fu filosofo epicureo, di fazione guelfa, vissuto nel medesimo periodo del Farinata, alla cui figlia Bice Uberti, per motivi di riappacificazioni politiche, maritò il suo figliolo; proprio lo stesso Guido, di rara intelligenza e fine poetica, fu fra i più cari amici di Dante e, considerandone la parentela con Farinata, stupisce il fatto che lo stesso, all’accoramento del consuocero, non manifesti reazione alcuna.
Altri due personaggi vengono nominati, ma qui non incontrati:
Federico II, al nome di Federico Ruggero di Hohenstaufen, vissuto fra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, fu duca di Svevia, re di Sicilia e di Gerusalemme, oltre che imperatore del sacro romano impero. Scomunicato nel 1226 per non aver sostenuto le crociate richieste dal papato, fu importante protagonista dello sviluppo culturale e letterario in terra siciliana, attivandosi in una convinta contrapposizione nei confronti dell’autorità papale e degli stessi guelfi, aderendo a causa ghibellina.
Ottaviano degli Ubaldini, denominato “Attaviano”, fu cardinale italiano vissuto anch’esso nel tredicesimo secolo e d’esistenza spesso posta in criptico equilibrio fra l’aver sostenuto sia cause guelfe che ghibelline, tramite la propria influenza ecclesiastica, schieratosi poi apertamente dalla parte dell’impero, pulsando ghibellini palpiti, in completa ambiguità di posizione che, verosimilmente, gli procurarono accusa d’epicureismo.
Terminato ogni quesito al Farinata su virgiliano sprone, maestro e discepolo si avviano oltre.
Ora sen va per un secreto calle, | |
tra ‘l muro de la terra e li martìri, | |
3 | lo mio maestro, e io dopo le spalle. |
Maestro davanti e discepolo appena dietro (lo mio maestro, e io dopo le spalle) quindi proseguono per un recondito sentiero (Ora sen va per un secreto calle), fra il lato interno delle mura della città di Dite (tra ‘l muro de la terra) ed i suoi tormenti (e li martìri).
«O virtù somma, che per li empi giri | |
mi volvi», cominciai, «com’ a te piace, | |
6 | parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. |
La gente che per li sepolcri giace | |
potrebbesi veder? già son levati | |
9 | tutt’ i coperchi, e nessun guardia face». |
Dante inizia il discorso (cominciai), appellandosi alla somma virtù della propria guida («O virtù somma), che per i blasfemi gironi (per li empi giri) lo conduce (mi volvi), chiedendo lui di parlargli (parlami), a sua discrezione (com’ a te piace), al fine di soddisfare alcuni suoi desideri (e sodisfammi a’ miei disiri).
Ovvero se si possano veder le anime (potrebbesi veder La gente) di coloro che giacciono (giace) nei (per li) sepolcri, considerando che i lor coperchi son già sollevati (levati), e che nessuno vi stia a guardia (e nessun guardia face).
E quelli a me: «Tutti saran serrati | |
quando di Iosafàt qui torneranno | |
12 | coi corpi che là sù hanno lasciati. |
Suo cimitero da questa parte hanno | |
con Epicuro tutti suoi seguaci, | |
15 | che l’anima col corpo morta fanno. |
Però a la dimanda che mi faci | |
quinc’ entro satisfatto sarà tosto, | |
18 | e al disio ancor che tu mi taci». |
Il maestro risponde (E quelli a me) che tutte le anime verranno chiuse (Tutti saran serrati) nelle loro tombe quando ritorneranno (quando di qui torneranno) dalla valle di Iosàfat con i corpi che lassù avevano lasciato (coi corpi che là sù hanno lasciati).
Egli indica una parte (Da questa parte) dove stanno i sepolcri (Suo cimitero hanno) di Epicuro e di tutti i suoi seguaci (con Epicuro tutti suoi seguaci), che non credono alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo (che l’anima col corpo morta fanno).
Perciò il quesito lui posto dal pellegrino (Però a la dimanda che mi faci) sarà velocemente soddisfatto (satisfatto sarà tosto) all’interno di quel luogo (quinc’ entro), ed anche il desiderio che ancor il poeta non manifesta al savio duca (e al disio ancor che tu mi taci).
La palestinese valle di Iosàfat, secondo testimonianza del profeta Gioele nell’Antico Testamento, si trova fra il monte Oliveto e le mura di Gerusalemme; leggenda medievale vuole che in tal luogo giungeranno gli spiriti nel giorno del giudizio universale, riprendendo il proprio corpo nella valle del Cedron, dopo la resurrezione, per poi ascoltare il definitivo destino a loro spettante:
“1Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo,
quando ristabilirò le sorti di Giuda e Gerusalemme,
2riunirò tutte le genti
e le farò scendere nella valle di Giòsafat,
e là verrò a giudizio con loro
per il mio popolo Israele, mia eredità,
che essi hanno disperso fra le nazioni
dividendosi poi la mia terra”
(Gioele, 4 – La Sacra Bibbia)
Epicuro (341 a.C.-270 d.C.) fu antico filosofo greco fondatore dell’Epicureismo, una delle più importanti scuole filosofiche la cui dottrina fu una sorta di semi-ateismo in quanto, pur credendo all’esistenza delle divinità, lo stesso le riteneva ininfluenti ed estranee al governo del mondo.
Accennando al desiderio taciuto, Virgilio intuisce la probabile curiosità dell’Alighieri d’incontrare Farinata degli Uberti, essendo che, nel terzo cerchio, fu il primo spirito di cui chiese informazioni a Ciacco dicendo lui: “Ancor vo’ che mi ‘nsegni e che di più parlar mi facci dono. Farinata e ‘l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li ‘ngegni, dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca”.
E io: «Buon duca, non tegno riposto | |
a te mio cuor se non per dicer poco, | |
21 | e tu m’hai non pur mo a ciò disposto». |
Il fiorentin poeta risponde (E io) al suo buon duca di non tener lui nascosti i suoi desideri più reconditi (non tegno riposto a te mio cuor) se non per non parlare eccessivamente (se non per dicer poco), come peraltro il maestro gli ha consigliato più volte (tu m’hai non pur mo a ciò disposto).
«O Tosco che per la città del foco | |
vivo ten vai così parlando onesto, | |
24 | piacciati di restare in questo loco. |
La tua loquela ti fa manifesto | |
di quella nobil patrïa natio, | |
27 | a la qual forse fui troppo molesto». |
Subitamente questo suono uscìo | |
d’una de l’arche; però m’accostai, | |
30 | temendo, un poco più al duca mio. |
All’improvviso (subitamente), da una delle tombe (d’una de l’arche), fuoriesce una voce che al dantesco verseggiatore si rivolge affermando: “O Toscano (Tosco) che per il regno degl’inferi (che per la città del foco) ancor vivo t’aggiri (vivo ten vai) parlando con cotanta onestà (così parlando onesto), ti sia piacevole (piacciati) il fatto di restare in questo luogo (loco).
La tua vocal cadenza (La tua loquela) ti rende riconducibile (ti fa manifesto) a quella nobile città (di quella nobil patrïa) ov’io stesso nacqui (natio) e nei confronti della quale (a la qual) forse fui troppo funesto (molesto)”
All’udir tali parole il pellegrino, fortemente intimorito (temendo), s’avvicina pertanto al suo duca (però però m’accostai un poco più al duca mio).
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? | |
Vedi là Farinata che s’è dritto: | |
33 | da la cintola in sù tutto ‘l vedrai». |
Al che, lo stesso gli chiede (Ed el mi disse) cosa stia facendo (Che fai), intimandolo a voltarsi (Volgiti) e ad osservare che proprio là (Vedi là che) s’è levato Farinata: e che, essendo nel sepolcro, solamente dalla vita (da la cintola) in sù lo potrà vedere in toto (tutto ‘l vedrai).
Io avea già il mio viso nel suo fitto; | |
ed el s’ergea col petto e con la fronte | |
36 | com’ avesse l’inferno a gran dispitto. |
Lo sguardo del poeta (il mio viso) è già acutamente rivolto (Io avea già fitto) in quello del parlante spirito; e lo stesso (ed el) s’erge (el s’ergea) altezzoso col petto e con la fronte come se il regno infernale lo ripugnasse (com’ avesse l’inferno a gran dispitto).
E l’animose man del duca e pronte | |
mi pinser tra le sepulture a lui, | |
39 | dicendo: «Le parole tue sien conte». |
Dunque le rassicuranti e solerti mani del virgilian duca (E l’animose man del duca e pronte) spingono il discepolo (mi pinser) verso i vari sepolcri (tra le sepolture) fino a Farinata (lui), suggerendogli (dicendo) che le sue parole siano brevi e gentili (Le parole tue sien conte).
Com’ io al piè de la sua tomba fui, | |
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, | |
42 | mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». |
Non appena Dante giunge ai piedi della sua tomba (Com’ io al piè de la sua tomba fui), Farinata lo scruta (guardommi un poco), e poi, quasi con disprezzo (sdegnoso), gli chiede (mi dimandò) chi furono i suoi antenati (Chi fuor li maggior tui).
Io ch’era d’ubidir disideroso, | |
non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi; | |
45 | ond’ ei levò le ciglia un poco in suso; |
poi disse: «Fieramente furo avversi | |
a me e a miei primi e a mia parte, | |
48 | sì che per due fïate li dispersi». |
L’Alighieri, desideroso di rispondere (Io ch’era d’ubidir disideroso), nulla nasconde delle proprie origini (non gliel celai), anzi rivelandole senza reticenze (ma tutto gliel’ apersi); apprendendole, Farinata aggrotta lievemente le sopracciglia (ond’ ei levò le ciglia un poco in suso);
poi affermando (disse) che i danteschi parenti furono aspramente avversi (Fieramente furo avversi) a lui stesso ed ai suoi avi ed alla sua fazione (a me e a miei primi e a mia parte), questo il motivo per cui (sì che) per ben due volte (fïate) egli si vide costretto a cacciarli (li dispersi).
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», | |
rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata; | |
51 | ma i vostri non appreser ben quell’ arte». |
Al tal dire, il dantesco verseggiatore, palesemente offeso, gli risponde (rispuos’ io lui) che se furono cacciati (S’ei fur cacciati), i suoi antenati seppero ritornare da ogni dove (ei tornar d’ogne parte), entrambe le volte (l’una e l’altra fïata); al contrario di quelli del Farinata che non furono in grado d’apprendere l’arte del rimpatrio (ma i vostri non appreser ben quell’ arte).
Lo screzio fra le generazioni succitate rimanda ovviamente all’attrito di fondo tra i guelfi, alla cui parte bianca apparteneva l’indispettito poeta, ed i ghibellini, parte politica sostenuta dalla famiglia Uberti.
Allor surse a la vista scoperchiata | |
un’ombra, lungo questa, infino al mento: | |
54 | credo che s’era in ginocchie levata. |
Dintorno mi guardò, come talento | |
avesse di veder s’altri era meco; | |
57 | e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento, |
piangendo disse: «Se per questo cieco | |
carcere vai per altezza d’ingegno, | |
60 | mio figlio ov’ è? e perché non è teco?». |
A quel punto (Allor), dalla parte scoperchiata del sepolcro appare un’anima (surse a la vista scoperchiata un’ombra), affianco a quella di Farinata (lungo questa), che raggiunge il di lui mento (in fino al mento): Dante suppone sia inginocchiata (credo che s’era in ginocchie levata).
Il neo apparso spirito guarda tutt’intorno al pellegrino (Dintorno mi guardò), come se bramasse di scoprire (come talento avesse di veder) se qualcun altro sia con lui (avesse di veder s’altri era meco); e dopo che il desiderio (e poi che ‘l sospecciar) della tal anima vien disilluso (fu tutto spento), la stessa, piangendo, si rivolge al discepolo chiedendogli (disse): “Se per questa cupa prigione (Se per questo cieco carcere) tu, ancor vivente, transiti per meriti d’intelletto (vai per altezza d’ingegno), mio figlio dov’è (ov’ è)? e perché non è con te (teco)?
Il quesito è posto da Cavalcante dei Cavalcanti, essendo lo stesso a conoscenza del fatto che il figlio Guido, grande poeta, fosse un carissimo amico dell’Alighieri, oltre che persona al pari dell’intelletto di quest’ultimo; credendo che Dante abbia varcato la porta degl’inferi per merito, ad egli pare dunque alquanto strano che, per parità di doti, insieme a lui non vi sia l’amato figliolo.
E io a lui: «Da me stesso non vegno: | |
colui ch’attende là, per qui mi mena | |
63 | forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». |
In candida sincerità il poeta risponde (E io a lui) di non essere in visita al regno dell’oltretomba per merito: ma perché guidato da colui ch’è in attesa poco distante (colui ch’attende là), che lo conduce negl’inferi (per qui mi mena) per conto di un’anima che forse Guido non ritenne degna al condurlo (forse cui Guido vostro ebbe a disdegno).
Le sue parole e ‘l modo de la pena | |
m’avean di costui già letto il nome; | |
66 | però fu la risposta così piena. |
Le parole di Cavalcante ed il tipo di pena a lui riservata (sue parole e ‘l modo de la pena), glielo rendono immediatamente identificabile (m’avean di costui già letto il nome); motivo per cui la sua risposta è tanto esaustiva.
Di sùbito drizzato gridò: «Come? | |
dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora? | |
69 | non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». |
Subitamente il Cavalcante si raddrizza (Di sùbito drizzato) gridando (gridò): “Come? hai detto ch’egli “ebbe” (dicesti “elli ebbe”)? egli dunque non è più in vita (non viv’ elli ancora)? la dolce luce solare (lo dolce lume) non infastidisce più i suoi occhi (non fiere li occhi suoi)?
Lo spirito fraintende il verbale esprimersi dell’Alighieri al tempo passato, erroneamente supponendo che il figlio sia ormai deceduto.
Quando s’accorse d’alcuna dimora | |
ch’io facëa dinanzi a la risposta, | |
72 | supin ricadde e più non parve fora. |
Confuso, il pellegrino tarda a rispondere in evidente disagio (alcuna dimora io facëa dinanzi a la risposta) e quando Cavalcante s’accorge (s’accorse) del tal tentennamento, probabilmente considerandolo una conferma al fatto che il figlio non sia più in vita, ricade supino (supinò ricadde) nella sua tomba senza più uscirne (e più non parve fora).
Lo sconcerto del verseggiatore è dovuto alla sua errata convinzione che le anime siano perfettamente a conoscenza di quanto succeda nel mondo dei vivi; al contrario, le stesse possono vedere con nitidezza solamente il futuro, quasi per nulla il presente ed il passato in relazione ad eventi che ne hanno causato estrema sofferenza.
Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta | |
restato m’era, non mutò aspetto, | |
75 | né mosse collo, né piegò sua costa; |
e sé continüando al primo detto, | |
«S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa, | |
78 | ciò mi tormenta più che questo letto. |
Ma non cinquanta volte fia raccesa | |
la faccia de la donna che qui regge, | |
81 | che tu saprai quanto quell’ arte pesa. |
E se tu mai nel dolce mondo regge, | |
dimmi: perché quel popolo è sì empio | |
84 | incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?». |
Ma Farinata, che il discepolo, nonostante l’opinione sullo stesso, definisce magnanimo (Ma quell’ altro magnanimo) e per richiesta del quale (a cui posta) lui stesso s’era fermato (restato m’era) a parlare con lui, rimane impassibile (non mutò aspetto), di fronte al dolore di Cavalcante, non accennando minimamente a movimenti del capo (né mosse collo), tantomeno del busto (né piegò sua costa);
anzi, celermente riallacciandosi al discorso interrotto poco prima (e sé continüando al primo detto), dice (disse) al poeta che, come lo stesso sostiene, se i suoi antenati ed il suo gruppo politico (S’elli) non hanno ben appreso come rientrare in patria (han quell’ arte male appresa), questo fatto lo tormenta (ciò mi tormenta) più dell’esser nell’infernal sepolcro (più che questo letto).
Ma, aggiunge Farinata, prima che la faccia di Proserpina s’illumini cinquanta volte (Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge), il pellegrino sperimenterà lui stesso quanto sia difficile (che tu saprai quanto pesa) rimpatriare (quell’ arte).
Ed augurando a Dante di ritornare (E se tu mai regge) nel dolce mondo terrestre, in ultimo lo spirito gli chiede (dimmi) perché mai il popolo fiorentino (quel popolo) sia tanto crudele (è sì empio), nell’applicazione d’ogni sua legge (in ciascuna sua legge), nei confronti dei suoi familiari (incontr’ a’ miei).
Riferendosi a Proserpina e considerando che la stessa è ritenuta una delle tre sembianze della divinità Luna, insieme ad Ècate (dea della mitologia greco-romana regnante sui demoni, i defunti, i fantasmi la notte e sulla sfera lunare), le quasi cinquanta volte che dovrebbero illuminarne il viso sono ovviamente i pleniluni; Farinata intende quindi dire che il poeta, in circa quattro anni, si renderà conto di quanto sia difficoltoso rivarcare le mura della sua adorata Firenze.
Parlando di spietatezza delle leggi, Farinata si riferisce al fatto che l’intera famiglia degli Uberti, comprese le discendenze, tre lustri dopo l’esilio fu condannata al rogo in contumacia.
Ond’ io a lui: «Lo strazio e ‘l grande scempio | |
che fece l’Arbia colorata in rosso, | |
87 | tal orazion fa far nel nostro tempio». |
L’Alighieri risponde (Ond’ io a lui) che il supplizio e l’immane massacro (Lo strazio e ‘l grande scempio) che riempì di sangue le acque del torrente Arbia (che fece l’Arbia colorata in rosso), son alla base dei provvedimenti comunali successivamente adottati (tal orazion fa far nel nostro tempio).
Il torrente Arbia scorre sotto le alture di Montaperti, ovvio quindi il riferimento alla battaglia omonima durante la quale, il 4 settembre del 1260, la fazion ghibellina di Farinata ebbe la meglio sulla parte guelfa, a suon d’eccidi.
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, | |
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo | |
90 | sanza cagion con li altri sarei mosso. |
Ma fu’ io solo, là dove sofferto | |
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, | |
93 | colui che la difesi a viso aperto». |
Scuotendo il capo sospirante (Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso), Farinata rivela (disse) di non esser stato il solo a provocare quella strage (A ciò non fu’ io sol), tantomeno (né certo) d’averlo fatto, insieme ai suoi alleati, se non per una valida ragione (sanza cagion con li altri sarei mosso), ossia il tentativo di rientrare nella patria natia.
Ma, egli sottolinea con rammarico, d’esser stato invece l’unico (Ma fu’ io solo) a difendere (colui che la difesi) apertamente (a viso aperto) Firenze (Fiorenza), quando ogni suo compagno di battaglia accettò di raderla al suolo (fu per ciascun di tòrre via).
Fra le commoventi righe, egli rimembra quando, nel momento in cui i capi toscani ghibellini vennero convocati ad Empoli, decreto decreto del re Manfredi d’abbattere senza scrupolo la fiorentina terra, lui solamente s’oppose alla tal decisione, dichiarando con con fiero coraggio di difendere la sua amata città con tutto se stesso.
«Deh, se riposi mai vostra semenza», | |
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo | |
96 | che qui ha ‘nviluppata mia sentenza. |
El par che voi veggiate, se ben odo, | |
dinanzi quel che ‘l tempo seco adduce, | |
99 | e nel presente tenete altro modo». |
Il fiorentin poeta, dapprima augurando alla crucciata anima di trovar, prima o poi, pacifico ristoro (Deh, se riposi mai vostra semenza), la prega (prega’ io lui) di sciogliergli un profondo dubbio (solvetemi quel nodo) che gli opacizza (che qui ha ‘nviluppata) la capacità di giudizio (mia sentenza).
Ovvero egli vorrebbe sapere, sempre che abbia ben compreso (se ben odo), se è vero quanto sembra, ossia che loro vedano (El par che voi veggiate) prima (dinanzi) ciò che succederà in là nel tempo (quel che ‘l tempo seco adduce), quindi prevedendo il futuro, e se, al contrario, del presente sappiano poco o nulla (e nel presente tenete altro modo).
Il buon verseggiatore pone il tal quesito non comprendendo come a Cavalcante possa essere oscuro se il figlio Diego sia vivo o morto.
«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, | |
le cose», disse, «che ne son lontano; | |
102 | cotanto ancor ne splende il sommo duce. |
Quando s’appressano o son, tutto è vano | |
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, | |
105 | nulla sapem di vostro stato umano. |
Però comprender puoi che tutta morta | |
fia nostra conoscenza da quel punto | |
108 | che del futuro fia chiusa la porta». |
L’addolorato Farinata risponde (disse) che loro vedono (Noi vegliamo) le cose come quelli che han vista difettosa (come quei c’ha mala luce), a meno che, quelle cose, non siano distanti (che ne son lontano), quindi future; e questo in base a quanto e da come Dio (cotanto ancor il sommo duce) decida di far splendere ciò che si osserva (ne splende).
Quando le cose si avvicinano o stanno (Quando s’appressano o son) davanti agli occhi, tutto si vanifica (è vano) nella lor capacità visiva (nostro intelletto); e se non giungono notizie portate da altri (e s’altri non ci apporta), nulla possono sapere (nulla sapem) riguardo all’esistenze terrestri (di vostro stato umano).
Pertanto (Però) al pellegrino non sarà difficile capire (Però comprender puoi) che, da quel momento in cui (da quel punto) sarà chiusa la porta del futuro (che del futuro fia chiusa la porta), la loro (nostra) conoscenza sarà come lobotomizzata (fia tutta morta).
“Da quel punto” è intuibile riferimento al giudizio universale, giorno in cui ogni sepolcro verrà definitivamente sigillato, con ogni dannato al suo interno.
Allor, come di mia colpa compunto, | |
dissi: «Or direte dunque a quel caduto | |
111 | che ‘l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; |
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto, | |
fate i saper che ‘l fei perché pensava | |
114 | già ne l’error che m’avete soluto». |
A questo punto (Allor), avvilito dal senso di colpa (come di mia colpa compunto) per aver causato disperazione nel Cavalcante, Dante chiede (dissi) al Farinata di riferirgli (Or direte dunque a quel caduto) che suo figlio (che ‘l suo nato) Guido è ancora vivente (co’ vivi ancor congiunto);
e di spiegargli che (fate i saper che) s’egli, poco prima, è stato (e s’i’ dianzi fui) esitante nel rispondergli (a la risposta muto), l’ha fatto (l fei) perché l’incertezza ne ha confuso i pensieri (pensava già ne l’error), dubbio peraltro appena sciolto dallo stesso Farinata (che m’avete soluto).
E già ‘l maestro mio mi richiamava; | |
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio | |
117 | che mi dicesse chi con lu’ istava. |
A questo punto il maestro lo sollecita (E già ‘l maestro mio mi richiamava); pertanto l’Alighieri prega lo spirito in maniera più spiccia (per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio) per farsi dire (che mi dicesse) chi altri ci sia con lui (chi con lu’ istava).
Dissemi:«Qui con più di mille giaccio: | |
qua dentro è ‘l secondo Federico | |
120 | e ‘l Cardinale; e de li altri mi taccio». |
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico | |
poeta volsi i passi, ripensando | |
123 | a quel parlar che mi parea nemico. |
Lo spirito risponde (Dissemi) di sostare in quel luogo con più di mille anime (Qui con più di mille giaccio), ma ne nomina solo due, nulla rivelando sulle altre (e de li altri mi taccio): insieme a lui stanno Federico II (qua dentro è ‘l secondo Federico) e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini.
Quindi Farinata ritorna nel proprio loculo (s’ascose); e il discepolo rivolge i propri passi verso l’antico vate (e io inver’ l’antico poeta volsi i passi), riflettendo con preoccupazione sulla profezia poco prima ascoltata (ripensando a quel parlar) che percepisce funesta (che mi pareva nemico).
Elli si mosse; e poi, così andando, | |
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?». | |
126 | E io li sodisfeci al suo dimando. |
Virgilio s’incammina (Elli si mosse); e poi, in itinere (così andando), chiede al proprio protetto quale sia il motivo per cui egli appaia tanto smarrito (Perché se’ tu sì smarrito?). E Dante glielo eviscera, esaudendo la sua richiesta (E io li sodisfeci al suo dimando).
«La mente tua conservi quel ch’udito | |
hai contra te», mi comandò quel saggio; | |
129 | «e ora attendi qui», e drizzò ‘l dito: |
«quando sarai dinanzi al dolce raggio | |
di quella il cui bell’ occhio tutto vede, | |
132 | da lei saprai di tua vita il vïaggio». |
La saggia guida lo sprona (mi comandò quel saggio) a ricordare (La mente tua conservi) quanto udito contro di lui (quel ch’udito hai contra te); e, levando un dito (drizzò ‘l dito), gl’intima di apprender bene ciò che sta per dirgli (e ora attendi qui): ovvero che quando sì troverà di fronte al dolce e radioso sguardo (quando sarai dinanzi al dolce raggio) di colei i cui begl’occhi tutto vedono (di quella il cui bell’ occhio tutto vede), dalla stessa avrà delucidazioni sulla seconda parte della sua esistenza (da lei saprai di tua vita il vïaggio).
Quel levar dito di Virgilio, assieme al tono deciso del suo conversare, ne delinea un’autoritaria ed insolita sfumatura caratteriale che, tuttavia, s’intreccia all’instancabile ed intimo desiderio di rassicurar il timorato pellegrino, coltivandone con costante premura la speranza interiore.
Appresso mosse a man sinistra il piede: | |
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo | |
135 | per un sentier ch’a una valle fiede, |
Poco dopo Virgilio s’incammina verso sinistra (Appresso mosse a man sinistra il piede): i due poeti s’allontanano dal muro (lasciammo il muro) e si direzionano verso la parte interna (gimmo inver’ lo mezzo) del cerchio prendendo un sentiero (per un sentier) che taglia per l’abisso (ch’a una valle fiede),
136 | che ‘nfin là sù facea spiacer suo lezzo. |
da cui, percepibile fin lassù (che ‘nfin là sù) proviene un ripugnante tanfo (facea spiacer suo lezzo).
Maestro e discepolo apriranno l’XI canto sullo straripante accalco di dannati “In su l’estremità d’un’alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio”…
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