Divina Commedia: Inferno, Canto VIII
Eugène Delacroix (1798-1863), La barca di Dante, 1822
In riflessione, ancor nel quinto cerchio, sulla curiosa modalità comunicativa fra due fiammelle in botta e risposta fra loro, Virgilio e Dante giungono nella paludosa zona del fiume Stige, interrotti nel loro dialogo dal precipitoso arrivo di Flegïàs, un urlante traghettatore solitario che inveisce contro il toscano poeta per il fatto ch’egli sia persona viva, pertanto fuori luogo nel suo transito all’inferno. Come sempre ripreso dall’attenta e decisa guida, al barcaiolo non rimane che condurre i due nella palude Stigia, al centro della quale, improvvisamente, sarcastica scena si materializza all’immaginazione, creandosi un violento screzio verbale fra un Alighieri eccezionalmente adirato ed un dannato coperto dal fango che, tentando in ultimo d’aggrapparsi con aggressività alla barca, provoca nel mansueto maestro una desueta reazione fisica, in premurosa difesa del proprio pupillo.
Baruffa alle spalle, i due proseguono verso la città di Dite ove da torri ardenti, difese da spaventosi demoni, fuoriescono terribili ed angoscianti lamenti; proprio di fronte all’ingresso principale, Virgilio tenterà di varcar con la parola la diavolesca e compatta difesa, allontanandosi dal proprio discepolo per discorrere appunto con i demoni, ma ritornando alla sua presenza evidentemente scoraggiato per non esser riuscito nell’intento.
Arriva al cuore il puro confronto fra l’intensa empatia delle due disillusioni ed il successivo rianimarsi, insieme, nell’attesa d’un messo celeste che, disceso dal paradiso ed attraversando indisturbato i vari cerchi, a breve li raggiungerà, permettendo loro di varcare il tanto temuto ingresso, per intercessione di grazia divina.
Io dico, seguitando, ch’assai prima | |
che noi fossimo al piè de l’alta torre, | |
3 | li occhi nostri n’andar suso a la cima |
per due fiammette che i vedemmo porre, | |
e un’altra da lungi render cenno, | |
6 | tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. |
Proseguendo (seguitando) nel suo racconto, Dante riporta (Io dico) il fatto che lui e Virgilio, poco prima di giungere ai piedi della torre (ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre), avevano rivolto i loro sguardi alla sua sommità (li occhi nostri n’andar suso a la cima) attirati da due fiammelle (per due fiammette) che avevano notato essere state accese (che vedemmo porre) lassù (i), e un’altra più lontana (e un’altra da lungi) appiccata per render risposta (render cenno) alle due, ma talmente (tanto) distante che a fatica la vista la poteva (ch’a pena il potea l’occhio) percepire (tòrre).
E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno; | |
dissi: «Questo che dice? e che risponde | |
9 | quell’ altro foco? e chi son quei che ‘l fenno?». |
Ed elli a me: «Su per le sucide onde | |
già scorgere puoi quello che s’aspetta, | |
12 | se ‘l fummo del pantan nol ti nasconde». |
Subitanea botta e risposta fra il pellegrino ed il vate: l’uno si rivolge a colui che considera possessore d’immane saggezza (mi volsi al mar di tutto ‘l senno), chiedendogli cosa si comunichino il fuoco più vicino (Questo che dice) e quello più discosto (e che risponde quell’ altro foco), e chi siano coloro che li abbiano accesi (e chi son quei che ‘l fenno).
L’altro risponde (Ed elli a me) che sull’insudiciata superficie dell’acqua (Su per le sucide onde), sempre che la paludosa nebbia (se ‘l fummo del pantan) non gli opacizzi la visione (nol ti nasconde), egli già potrà scorgere (già scorgere puoi) ciò che s’attende di scoprire (quello che s’aspetta).
Corda non pinse mai da sé saetta | |
che sì corresse via per l’aere snella, | |
15 | com’ io vidi una nave piccioletta |
venir per l’acqua verso noi in quella, | |
sotto ‘l governo d’un sol galeoto, | |
18 | che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!». |
All’improvviso, l’ancor intimorito Alighieri vede una piccolissima imbarcazione (io vidi una nave piccioletta), in similitudine rapportata (com’), nell’estrema velocità (che sì corresse), che la rende incredibilmente aerodinamica e leggera all’aria (via per l’aere snella), ad una freccia che mai arco riuscì a lanciare in tal celerità (Corda non pinse mai da sé saetta), appressarsi ai due poeti, in quello stesso istante (in quella), solcando l’onde (venir per l’acqua verso noi) sotto la guida (sotto ‘l governo) d’un unico rematore (d’un sol galeoto), urlante (che gridava): “Finalmente sei arrivata (Or se’ giunta), dannata (fella) anima!”
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», | |
disse lo mio segnore, «a questa volta: | |
21 | più non ci avrai che sol passando il loto». |
Qual è colui che grande inganno ascolta | |
che li sia fatto, e poi se ne rammarca, | |
24 | fecesi Flegïàs ne l’ira accolta. |
“Flegïàs, Flegïàs, tu gridi invano (a vòto)”, lo incalza Virgilio, che il poeta definisce “lo mio segnore”, “stavolta (a questa volta) non ci avrai sotto la tua autorità (più non ci avrai) se non per il tempo necessario ad attraversar il melmoso Stige” (che sol passando il loto).
E come colui (Qual è colui) che ascolta un grande inganno tramatogli contro (che li sia fatto), e per questo s’angustia (e poi se ne rammarca), così fece (fecesi) Flegïàs colmandosi di rabbia (ne l’ira accolta).
Rispetto alle tratte dei precedenti barcaioli, non v’è ressa d’anime in attesa dell’imbarco ad avvallamento dell’ipotesi che il ruolo di Flegïàs sia quello di traghettare dannati fra due cerchi; può esser dunque che la sua mansione, oltre a quella di guardiano, sia eventualmente di portare iracondi ed accidiosi al centro del fiume ed ivi gettarli nelle sue lutulente acque, poi facendosi la di lor sentinella. Le sue diavolesche sembianze son di sconosciuta derivazione, se non per un vago riferimento all’etimologia nominale che rimanda al greco “Flegèton”, quindi al Flegetonte, l’infernale “fiume del fuoco” che scorre nell’Ade e che, insieme al Cocito, si riversa nell’Acheronte; nell’Odissea nominato “Piriflegetonte”, del fiume parla la dea Circe, nel consigliar l’eroe acheo Ulisse su come evocar il cieco indovino Tiresia, svolgendo, secondo le di lei indicazioni, il previsto rituale accanto alla roccia posta al confluir dei due fiumi.
Flegïàs, nella mitologia classica figlio di Marte, dio della guerra, e di Crise, figlia di Almo, diede alle fiamme Delfi per vendetta su Apollo, in quanto seduttore di sua figlia Coronide, ma lo stesso di saetta lo ferì, infliggendogli pena eterna da espiar nel Tartaro, ovvero il luogo, nella letteratura classica greco-latina, dove Zeus relegò i Titani vinti e, nell’Iliade, posto sotto l’Ade e popolato da mitologiche mostruosità; nel sesto libro dell’Eneide, Flegïàs compare invece fra il seicentodiciottesimo ed il seicentoventiseiesimo rigo: “miserrimo Flegias ammonisce tutti ed a gran voce dichiara tra le ombre: «Ammoniti imparate la giustizia e non disprezzare gli dei»”.
Lo Stige, nella concezione dantesca, è un vasto e paludoso fiume, da qui la nomea di “palude Stigia”, che circonda l’intera città di Dite. Più in generale, nella mitologia greco-romana appartiene al gruppo dei cinque fiumi infernali e rappresenta l’odio; i rimanenti, ovvero il Cocito, l’Acheronte, il Flegetonte e il Lete, rispecchiano rispettivamente il pianto, il dolore, il fuoco e l’oblìo.
Lo duca mio discese ne la barca, | |
e poi mi fece intrare appresso lui; | |
27 | e sol quand’ io fui dentro parve carca. |
Tosto che ‘l duca e io nel legno fui, | |
segando se ne va l’antica prora | |
30 | de l’acqua più che non suol con altrui. |
Non appena (Tosto che) imbarcati i due poeti (‘l duca e io nel legno fui), l’antica prua (l’antica prora) della piccola barchetta se ne va solcando l’acque (segando de l’acqua) del fiume più a fondo (più) di quanto non faccia solitamente (che non suol) con altri carichi (con altrui).
La causa del maggior peso del carico è verosimilmente dovuto al fatto che il pellegrino sia ancora in vita, pertanto ancor provvisto d’un corpo. Non è dato sapere con certezza se con “altrui” s’intendano le altre anime: non essendo infatti ben chiaro, come già detto, se Flegïàs sia un ordinario traghettatore, il poeta avrebbe potuto intenderlo come accompagnatore degli spiriti fin al centro dello Stige, per lì abbandonarli, oppure riferirsi al semplice peso del rematore solitario.
Il probabile rimando all’Eneide, di peso discorrendo, richiama un passo del sesto libro, fra il quattrocentododicesimo ed il quattrocentoquattordicesimo verso, dove, al traghettamento del corporuto Enea, il carontiano barchettone scricchiola e s’immerge imbarcando acqua: “poi accoglie sullo scafo il gigantesco Enea. La barca cucita gemette sotto il peso e screpolata accolse molta (acqua di) palude”.
Mentre noi corravam la morta gora, | |
dinanzi mi si fece un pien di fango, | |
33 | e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». |
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; | |
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?». | |
36 | Rispuose: «Vedi che son un che piango». |
E io a lui: «Con piangere e con lutto, | |
spirito maladetto, ti rimani; | |
39 | ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». |
Mentre il pellegrino e il suo maestro navigano in velocità (Mentre noi corravam) sullo stagnante fiume (la morta gora) dinanzi al fiorentin poeta s’eleva un infangato spirito (mi si fece un pien di fango), che gli chiede (e disse) chi sia lui che giunga prima del tempo (Chi se’ tu che vieni anzi ora) all’oltretomba.
Si crea un crudo battibecco, forse l’unico, in tutta la Commedia, in cui il toscano verseggiatore si mostri seriamente irato e per nulla compassionevole.
Egli risponde (E io a lui), in tono estremamente ed insolitamente severo, che il suo esser giunto agl’inferi, non sia per restare (S’i’ vegno, non rimango), chiedendo piuttosto all’anima di riportar chi ella sia (ma tu chi se’), imbruttitasi in quel modo (che sì se’ fatto brutto). Quesito al quale lo spirito risponde (Rispuose), con lieve sarcasmo, chiedendo a Dante s’egli non comprenda, al semplice vederlo, esser lui un dannato (Vedi che son un che piango).
In ribattuta, un Alighieri stranamente risentito ed impietoso, risponde (Ed io a lui) appellandolo “spirito maladetto” ed augurandogli di rimanere lì (ti rimani) a dannarsi ed a tormentarsi (Con piangere e con lutto); ed aggiungendo d’averlo riconosciuto (ch’i’ ti conosco), nonostante la sua trasfigurazione (ancor sie lordo tutto).
Allor distese al legno ambo le mani; | |
per che ‘l maestro accorto lo sospinse, | |
42 | dicendo: «Via costà con li altri cani!». |
Ecco dunque il dannato portare le mani verso la barca (Allor distese al legno ambo le mani), aggrappandovisi; al tal gesto, immediata è la reazione di Virgilio (per che ‘l maestro) che, estremamente desto (accorto) ricaccia (lo sospinse) lo spirito in acqua, dicendo lui d’allontanarsi immediatamente (Via di costà) e di ritornar fra gli altri dannati (con li altri cani)!
Una scena quasi surreale, a volerla immaginare, rispetto alla compostezza, fisica ed intellettiva, che ha caratterizzato fino ad ora i due pacati poeti i quali, fra la dantesca stizza ed il virgiliano senso di protezione, ancora una volta esplodono in un legame, il loro, profondo ed intenso, di reciproco affetto e stima.
Lo collo poi con le braccia mi cinse; | |
basciommi ‘l volto e disse: «Alma sdegnosa, | |
45 | benedetta colei che ‘n te s’incinse! |
Quei fu al mondo persona orgogliosa; | |
bontà non è che sua memoria fregi: | |
48 | così s’è l’ombra sua qui furïosa. |
Quanti si tegnon or là sù gran regi | |
che qui staranno come porci in brago, | |
51 | di sé lasciando orribili dispregi!». |
Poi, in paterno e tenero trasporto, Virgilio abbraccia il proprio discepolo, stringendogli il collo (Lo collo poi con le braccia mi cinse); in seguito, il vate posa delicato bacio sul dantesco volto (basciommi ‘l volto) ed in afflato dicendo: “Anima capace di sdegno (Alma sdegnosa), benedetta colei che ti portò nel grembo (che ‘n te s’incinse)!
Quel dannato (Quei) in vita (al mondo) fu persona altezzosa (orgogliosa); non vi è buona azione alcuna (bontà non è) che abbellisca (fregi) la sua memoria: pertanto (così) la sua anima è destinata ad incollerirsi in codesto luogo (s’è l’ombra sua qui furïosa).
Quanti sin coloro che in vita terrena (or là sù) si reputano (si tegnon) al di sopra d’ogni legge (gran regi) e che qui staranno come porci nelle melmose acque (in brago), lasciando terribili ricordi (orribili dispregi) di loro stessi (di sé) al mondo!
L’espressione “benedetta colei che ‘n te s’incinse” è di probabile riferimento all’undicesimo capitolo del vangelo secondo Luca, al ventisettesimo verso biblico: “In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!»”.
E io: «Maestro, molto sarei vago | |
di vederlo attuffare in questa broda | |
54 | prima che noi uscissimo del lago». |
Il pellegrino (E io), con atteggiamento insolitamente arido, confida al suo maestro che proverebbe immenso compiacimento (molto sarei vago) di veder il tal spirito immergersi completamente nella melma (di vederlo attuffare in questa broda) prima della loro uscita dallo Stige (prima che noi uscissimo del lago).
Ed elli a me: «Avante che la proda | |
ti si lasci veder, tu sarai sazio: | |
57 | di tal disïo convien che tu goda». |
Virgilio gli anticipa (Ed elli a me) che, ancor prima di veder la riva (Avante che la proda ti si lasci veder), egli sarà accontentato (tu sari sazio): aggiunge poi che di tal desiderio (di tal disïo) è sacrosanto (convien) ch’egli s’appaghi (tal disïo convien che tu goda).
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio | |
far di costui a le fangose genti, | |
60 | che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. |
Poco dopo quelle parole (Dopo ciò poco) Dante vede quello spirito esser oggetto d’un tale scempio (vid’ io quello strazio far di costui) da parte dell’altre anime dannate (a le fangose genti), che della suddetta visione ancor egli ringrazia e loda il divino (che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio).
Fa specie percepir, sia nei versi precedenti che, in particolar modo, in quest’ultima terzina, un Alighieri dall’animo stranamente disumano, implacabile e vendicativo a tal punto da ringraziare Dio dell’avvenuto strazio altrui. Mai, come in questi vocaboli, appare una sua sfumatura caratteriale così differente da quelle narrate o percepite nell’intera Commedia, peraltro rafforzata dal dichiarato benestare virgiliano a riguardo; una fiduciosa intesa fra i due poeti che, iniziata nell’oscura selva, pare mantenersi più fitta che mai, in amabile sostentamento morale l’un per l’altro.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; | |
e ‘l fiorentino spirito bizzarro | |
63 | in sé medesmo si volvea co’ denti. |
Tutti i dannati gridano (gridavano) il nome d’un certo Filippo Argenti, spronandosi a vicenda nel mortificarlo (A Filippo Argenti!); e l’arrogante spirito fiorentino (e ‘l fiorentino spirito bizzarro) su di sé s’accanisce (in sé medesmo si volvea) mordendosi (co’ denti).
Storicamente discorrendo, non vi è certezza assoluta su chi sia stato Filippo Argenti; l’ipotesi più accreditata sembrerebbe riguardare un tal Filippo de’ Cavicciuli, famiglia degli Adimari, denominato “Argenti” per la saltuaria abitudine di ferrare il proprio cavallo con zoccoli d’argento. Si trattasse di lui, nella realtà visse in quel di Firenze nel XIII secolo, convinto guelfo di parte nera ed acerrimo nemico dello stesso Alighieri, nonché convinto oppositore del suo rientro in patria dopo l’esilio. Varie dicerie narrano d’un illegittimo impadronirsi, da parte della sua famiglia, di dantesche proprietà, o, ancora, di sonori schiaffi che lo stesso Filippo avrebbe rifilato al Dante, a seguito d’un mancato appoggio in questioni giudiziarie di cui lo stesso Argenti fu oggetto.
Da questo punto di vista, il benevolo sostenere, e non condannare, da parte di Virgilio, la sete di vendetta dantesca, potrebbe anche allegorizzare l’appoggio del maestro al proprio discepolo in virtù alle sue posizioni ideologiche e, ancor più, considerandone i soprusi apparentemente subiti.
Ad ogni modo, nonostante l’ovvia impossibilità di venire a conoscenza dei reali antefatti, indubbio è il fatto che la stessa famiglia Adimari non si trovasse in linea ideologica con il poeta e che con l’Argenti potessero intercorrere aspri dissidi, supposizione che la durezza delle terzine riferite allo stesso suffraga, sia nella meticolosa scelta dei termini che degli atteggiamenti da far trasparire dal loro porne in rima; alla stessa famiglia Adimari, che, al centoquindicesimo versetto del XVI canto del paradiso, verrà definita “oltracotata schiatta” (prepotente stirpe) dal trisavolo Cacciaguida, apparteneva anche Tegghiaio Aldobrandi, podestà di Arezzo di cui il pellegrino chiese informazioni a Ciacco, due canti fa, miseramente relegato fra i sodomiti del settimo cerchio.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; | |
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, | |
66 | per ch’io avante l’occhio intento sbarro. |
In quel luogo i due poeti lasciano l’Argenti (Quivi il lasciammo), di cui ulteriormente l’Alighieri non racconta (che più non ne narro); ma all’udito (ma ne l’orecchie) lo percuote un tal lamento (mi percosse un duolo), da portarlo a sgranar attentamente gli occhi guardando avanti (per ch’io avante l’occhio intento sbarro).
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, | |
s’appressa la città c’ha nome Dite, | |
69 | coi gravi cittadin, col grande stuolo». |
E il buon maestro spiega (Lo buon maestro disse), con affettuoso appellativo di “figliuolo”esser ormai (Omai) vicina (s’appressa) la città di Dite (c’ha nome Dite), con le sue tormentate anime (coi gravi cittadin), con la sua grande truppa (col grande stuolo) di demoni.
La cosiddetta “città di Dite” è la terra appartenente al sesto cerchio, all’interno delle cui mura son sottoposti ad eterna pena le anime degli eresiarchi, coloro che in vita furono a capo d’eretiche sette, e dei loro seguaci; la stessa è rappresentata come un impenetrabile fortino protetto da roventi torri, simili a moschee, con demoni a difesa degl’ingressi. Nella mitologia romana, Dite è antica divinità latina inizialmente collegata alle ricchezze del sottosuolo, poi dello stesso divenuta il dio, pertanto equiparato, se non addirittura identificato, al greco Plutone.
E io: «Maestro, già le sue meschite | |
là entro certe ne la valle cerno, | |
72 | vermiglie come se di foco uscite |
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno | |
ch’entro l’affoca le dimostra rosse, | |
75 | come tu vedi in questo basso inferno». |
Dante (E io) confida al maestro di scorgere già chiaramente le sue torri (già le sue meschine certe cerno) là nella (ne la) valle, purpuree (vermiglie) come se fossero appena uscite dalle fiamme (come se di fuoco uscite fossero). Al che la virgiliana guida spiega (Ed ei mi disse) essere il fuoco eterno (Il foco etterno) a renderle incandescenti dentro (ch’entro l’affoca) facendole sembrare così rosse all’esterno (le dimostra rosse), come il pellegrino le vede (come tu vedi) in questo basso livello infernale (in questo basso inferno).
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse | |
che vallan quella terra sconsolata: | |
78 | le mura mi parean che ferro fosse. |
I due (Noi) alla buon ora (pur) raggiungono i fossati (giugnemmo dentro a l’alte fosse) che fan da cinta (che vallan) a quella desolata città (quella terra sconsolata): e a Dante (mi) le mura appaiono come fossero fatte di ferro (mi parean che ferro fosse).
Non sanza prima far grande aggirata, | |
venimmo in parte dove il nocchier forte | |
81 | «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata». |
Non prima d’aver percorso (Non senza prima far) un ampio giro (grande aggirata) del fossato, spiritual conduttore e fidente discepolo giungono al punto in cui (venimmo in parte dove) il nocchiere urla forte contro di loro (il nocchier forte «Usciteci», gridò), indicando l’entrata («qui è l’intrata»).
Io vidi più di mille in su le porte | |
da ciel piovuti, che stizzosamente | |
84 | dicean: «Chi è costui che sanza morte |
va per lo regno de la morta gente?». | |
E ‘l savio mio maestro fece segno | |
87 | di voler lor parlar segretamente. |
Improvvisamente il pellegrino vede (Io vidi) migliaia (più di mille) di demoni sulle porte murarie (in su le porte) che son coloro che caddero dal paradiso (da ciel piovuti), che con stizza (stizzosamente) chiedono (dicean) chi sia costui che, ancora in vita, gironzola per l’oltretomba («Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente»). La risposta del saggio maestro (E ‘l savio mio maestro) consiste in un segno (fece segno) come richiesta al voler loro parlare in segreto (di voler lor parlar segretamente).
Allor chiusero un poco il gran disdegno | |
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada | |
90 | che sì ardito intrò per questo regno. |
Sol si ritorni per la folle strada: | |
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, | |
93 | che li ha’ iscorta sì buia contrada». |
Limitando dunque d’un poco il loro disprezzo (Allor chiusero un poco il gran disdegno) invitano il vate a seguirli in solitaria, intimando che l’Alighieri se ne vada (e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada) considerandolo colui che talmente scellerato fu (sì ardito) da varcar gl’infernali ingressi (interò per questo regno).
Ch’egli dunque in solitudine retroceda per il folle percorso (Sol si ritorni per la folle strada): che tenti, se ciò conviene (provi, se sa); perché Virgilio (ché tu), che l’ha guidato in luoghi tanto oscuri (che li ha’ iscorta sì buia contrada), in questo regno dovrà restare (qui rimarrai).
Pensa, lettor, se io mi sconfortai | |
nel suon de le parole maladette, | |
96 | ché non credetti ritornarci mai. |
Delicatamente intimo e rievocante l’aggancio del verseggiatore dantesco ai propri lettori, quasi un afflato oltre tempo e dimensione: “Pensa, lettore, quant’io provai sconforto (Pensa, lettor, se io mi sconfortai) all’udir quelle (al suon de le) parole maledette, al punto di non creder (ché non credetti) di riuscire a ritornar mai più al mondo (ritornarci mai).
«O caro duca mio, che più di sette | |
volte m’hai sicurtà renduta e tratto | |
99 | d’alto periglio che ‘ncontra mi stette, |
non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto; | |
e se ‘l passar più oltre ci è negato, | |
102 | ritroviam l’orme nostre insieme ratto». |
Quindi, in amorevole invocazione al caro duca suo (O caro duca mio), che più di sette volte lo rassicurò (m’hai sicurtà renduta) e lo sottrasse (tratto) da un imponente pericolo (d’alto periglio) che gli si piazzò dinanzi (che ‘ncontra mi stette), gli chiede (diss’ io) di non abbandonarlo (non mi lasciar), così disperato (disfatto); e che se il proseguire fosse loro proibito (e se ‘l passar più oltre ci è negato), di ripercorrere il cammino a ritroso (ritroviam l’orme nostre) insieme sull’istante (ratto).
E quel segnor che lì m’avea menato, | |
mi disse: «Non temer; ché ‘l nostro passo | |
105 | non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. |
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso | |
conforta e ciba di speranza buona, | |
108 | ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso». |
In tutta risposta, quel virgiliano signore (E quel segnor) che fin lì lo aveva condotto (che lì m’avea menato), dice lui di non aver timore alcuno (Non temer); che il loro pellegrinaggio (ché ‘l nostro passo) non può esser vietato da nessuno (non ci può tòrre alcun), in quanto voluto da Dio (da tal n’è dato).
Ma d’attenderlo lì (Ma qui m’attendi), cercando di portar ristoro al proprio spirito sconquassato (e lo spirito lasso conforta) nell’attesa rifocillandolo di positive speranze (e ciba di speranza buona), ch’egli non lo lascerà da solo nell’abisso infernale (ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso).
Così sen va, e quivi m’abbandona | |
lo dolce padre, e io rimagno in forse, | |
111 | che sì e no nel capo mi tenciona. |
Udir non potti quello ch’a lor porse; | |
ma ei non stette là con essi guari, | |
114 | che ciascun dentro a pruova si ricorse. |
Così Virgilio, dolcemente paterno (lo dolce padre), se ne va (sen va), abbandonando in loco il poeta (e quivi m’abbandona), e lasciandolo perplesso (e io rimagno in forse), in mental battaglia (nel capo mi tenciona) fra ottimismo ed abbattimento (che sì e no).
Egli ascoltare non può (Udir non potti) tutto quanto il suo maestro espone ai diavoli (Udir non potti quello ch’a lor porse); ma lo stesso (ma ei) non si sofferma con loro (non stette là con essi) a lungo (guari), in quanto ognuno di loro (che ciascun), come in una sorta di sfida (dentro a pruova) se ne ritorna con celerità (si ricorse).
Chiuser le porte que’ nostri avversari | |
nel petto al mio segnor, che fuor rimase | |
117 | e rivolsesi a me con passi rari. |
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase | |
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: | |
120 | «Chi m’ha negate le dolenti case!». |
Quei demoni (que’ nostri avversari) chiudono (chiuser) le porte in faccia (nel petto) a colui che (al) l’affranto poeta appella “mio segnor”, che al di fuori resta (che fuor rimase) e ritorna verso di lui (e rivolsesi a me) con passo incerto (con passi rari).
Il suo sguardo è rivolto al basso (Li occhi a la terra) e le sue sopracciglia sono (e le ciglia avea) corrugate, private (rase) d’ogni gaia certezza (d’ogne baldanza), ed egli sospira (e dicea ne’ sospiri) stupendosi di chi gli abbia negato l’ingresso alla città dolente (Chi m’ha negate le dolenti case)!
Ai danteschi occhi, l’adorato e savio maestro appare per la prima volta con sfumatura quasi umana, una sensazione che trapela dalle righe nel percepir il suo deluso crucciarsi per non esser riuscito in ciò che si proponeva; colpisce allo stesso modo l’immediata ripresa che volontà di scrittore ha voluto descrivere in accorata preoccupazione e simultaneo rianimo dello stesso, al fine di chetare e rincuorare i turbamenti del proprio protetto.
E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri, | |
non sbigottir, ch’io vincerò la prova, | |
123 | qual ch’a la difension dentro s’aggiri. |
Poi, al demoralizzato pellegrino (E a me disse) raccomanda di non sbigottirsi (Tu non sbigottir) al veder il suo inquietarsi (perch’ io m’adiri), ch’egli stesso vincerà la prova (ch’io vincerò la prova), qualsiasi sia il tentativo di difesa tentato dall’interno (qual ch’a la difension dentro s’aggiri), da parte delle demoniache creature.
Questa lor tracotanza non è nova; | |
ché già l’usaro a men segreta porta, | |
126 | la qual sanza serrame ancor si trova. |
Sovr’ essa vedestù la scritta morta: | |
e già di qua da lei discende l’erta, | |
129 | passando per li cerchi sanza scorta, |
La ribelle prepotenza di costoro (Questa lor tracotanza) non è una novità (nova); poiché già (ché già) la utilizzarono (l’usaro) nei confronti d’una porta meno abissata (a men segreta), che ancor si trova senza cardine (la qual sanza serrame ancor si trova), ovvero quella del limbo, dove inutilmente essi tentarono d’impedire la discesa del Cristo, dopo la sua resurrezione.
Virgilio rammenta a Dante d’aver visto, sopra quella porta, una scritta funesta (Sovr’ essa vedestù la scritta morta): e lo informa esser già oltre quella scritta (e già di qua da lei) e d’aver disceso l’erto pendio (l’erta), transitando (passando) per i vari (li) cerchi senza tutela alcuna (senza scorta),
130 | tal che per lui ne fia la terra aperta». |
colui (tal) grazie al quale (che per lui) ai due poeti verrà consentito l’ingresso alla città (ne fia la terra aperta).
In attesa del messo celeste, immensa consolazione aprirà il IX canto sul pallore di Dante, “Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse”…
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