Divina Commedia: Inferno, Canto VII

Cristofano dell’Altissimo (1525-1605), Dante Alighieri, ca. 1568
Di bordo in bordo, i due poeti in viaggio si presentano all’ingresso del quarto cerchio alla cui guardia sta creatura indefinibile che al vederli, d’acchito scaglia contro di loro indecifrabili parole. Senza esitar Virgilio lo cheta e rimprovera, raccomandando lui, come agli altri guardiani incontrati, di non interferire con un pellegrinaggio dal divino benestare, rimembrandogli inoltre la sorte toccata a Lucifero, quando si ribellò all’onnipotente.
Inoltratisi nel cerchio, una miriade d’anime compare in due schiere ben distinte, la cui marcia copre le due semicirconferenze che le stesse percorrono spingendo o rotolando dei pesanti macigni, urlandosi contro una volta incontratesi, poi riprendendo la strada a ritroso per ripigliarsi verbalmente nel punto opposto, in una sorta di andirivieni perenne, reso ancor più greve dalla certezza della dannazione.
Trattasi di avari e prodighi, differenti facce della medesima medaglia che vita terrena mise sullo stesso piano per mala gestione dei beni materiali, seppur in contrapposizione di tendenza, ovvero eccessivamente economizzando gli uni, sperperando senza misura gli altri; grottesco e triste cammino osservando il quale sorgono nell’angosciato Dante numerosi quesiti, ai quali Virgilio, or deciso, or paterno, risponde esplicando l’operare della fortuna, secondo misteriosi disegni divini.
Terminato il fitto conversare e celermente trascorrendo il tempo a disposizione, i due si affrettano a discendere nel cerchio successivo, il quinto, ove nudi ed infangati si troveranno davanti gli spiriti degl’iracondi, sopraelevati rispetto a quelli degli accidiosi dei quali, non essendo visibili in quanto sommersi dall’acqua, s’odono solamente gorgoglianti e rammaricate frasi sull’esistenza condotta in precedenza.
Doppio turbamento, per l’Alighieri che, spronato dal suo maestro, prosegue discendendo, pur faticando a levare lo sguardo da cotanti tormenti.
Il peccato dell’avarizia, protagonista indiscussa di codesto canto, sottolinea la convinzione dantesca, di come essa rappresenti causa prima di tutti i mali del mondo e della perdizione umana, smarrimento ben metaforizzato dall’oscurità della selva d’inizio Commedia; lo stesso Pluto rimanda alla lupa che nella tal selva si fece intimorente ostacolo per il pellegrino, famelica ed ingorda a tal punto da ottimamente rappresentare la corruzione della sua Firenze, a quell’epoca soffocata dalla brama di potere ed accecata nella morale.
Seppur i dannati non abbiano riferimenti nominali, la narrazione degli stessi come chierici, non può che richiamare la crescente corruzione in ambito ecclesiastico che bruciante spina nel cuore fu per il poeta toscano, da sempre sostenitore di una necessaria distinzione del ruolo politico da quello spirituale.
L’ultimo tratto, percorso fra ira ed accidia, lancia fune alla città di Dite, che l’ottavo canto afferrerà con tutte le spiegazioni del caso.
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», | |
cominciò Pluto con la voce chioccia; | |
3 | e quel savio gentil, che tutto seppe, |
disse per confortarmi: «Non ti noccia | |
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, | |
6 | non ci torrà lo scender questa roccia». |
All’ingresso del IV cerchio, spaventoso essere, al nome di Pluto, inveendo contro i due poeti, (cominciò Pluto) con voce roca ed irata (con la voce chioccia), blaterando incomprensibili termini riferite al demonio (Pape Satàn, pape Satàn aleppe!); e quell’antico, saggio e gentile (e quel savio gentil) Virgilio, che, nell’immediato, tutto sa e comprende (che tutto seppe), conforta sull’istante l’Alighieri (disse per confortarmi) raccomandandogli che il timore (la tua paura), all’udir tali parole, non lo sfregi (Non ti noccia); in quanto (ché) per quanto potere abbia Pluto (poder ch’elli abbia), nulla potrà impedire (non ci terrà) il proseguir della loro discesa al cerchio (lo scender questa roccia).
Rispetto ai guardiani dei precedenti canti, di Pluto nulla si conosce, né dal punto di vista delle fisicità, non descritte, se non un ipotizzabile sembianza lupesca, assolutamente opinabile, dedotta dal “maladetto lupo!”, a lui rivolta da Virgilio, né dal punto di vista storico, sebbene il fatto che la tal creatura stia all’ingresso del cerchio in cui son confinati avari e prodighi, possa portar a crederne un suo collegamento in questioni di beni materiali.
Se così fosse, restando ovviamente nel campo delle supposizioni, la sua figura potrebbe riferirsi al mitologico dio greco delle ricchezze Pluto, figlio di Giasone (eroe greco a capo della spedizione degli Argonauti per la conquista del vello d’oro, un alato ariete con poteri di guarigione) e Demetra (nella mitologia greca dea del grano e dell’agricoltura); o ancora a Plutone, divinità greco-classica, signore dell’Ade e sposo della regina degl’inferi Proserpina (la greca Persefone) con la quale regnò sull’oltretomba.
Nemmeno è dato sapere quale sia il significato delle delle frasi urlate dal custode sull’ingresso, se non da intendersi perlomeno indubbia l’invocazione a Satana.
Poi si rivolse a quella ‘nfiata labbia, | |
e disse: «Taci, maladetto lupo! | |
9 | consuma dentro te con la tua rabbia. |
Non è sanza cagion l’andare al cupo: | |
vuolsi ne l’alto, là dove Michele | |
12 | fé la vendetta del superbo strupo». |
Poi, rivolgendosi (si rivolse) a quella gonfia faccia (a quella ‘nfiata labbia), ordina lui di tacere (Taci), appellandolo “maledetto lupo!” ed invitandolo a consumarsi dentro se stesso (consuma dentro te) insieme alla propria rabbia (con la tua rabbia).
Aggiungendo che la loro discesa agl’inferi (l’andare al cupo) non è immotivata (Non è sanza cagion): che sia, la stessa, un volere divino (vuolsi ne l’alto), proveniente dagli stessi cieli (là) dove l’arcangelo Michele vendicò il superbo stupro, inteso come atto infame, (fé la vendetta del superbo strupo) degli angeli ribelli, sconfiggendo Lucifero.
Michele è uno dei principali arcangeli, spesso citato nei biblici testi, a cui si deve la sconfitta di Lucifero, colui che, secondo la tradizione medievale, era l’angelo più incantevole e sfavillante di tutti, nonché appartenente ai Serafini (gli angeli al più alto livello celestiale), la cui invidia e superbia lo condussero a ribellione ed a successiva sconfitta, ad opera dell’arcangelo, trasformandolo in feroce demonio, successivamente relegandolo nel punto più profondo dell’inferno.
Quali dal vento le gonfiate vele | |
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, | |
15 | tal cadde a terra la fiera crudele. |
Così scendemmo ne la quarta lacca, | |
pigliando più de la dolente ripa | |
18 | che ‘l mal de l’universo tutto insacca. |
E come vele gonfiate dal vento (Quali dal vento le gonfiate vele) che ricadono afflosciandosi su se stesse (cagione avvolte), dopo che l’albero s’è spezzato (poi che l’alber fiacca), similarmente (tal) la bestia meschina (la fiera crudele) cade (cadde) a terra.
Così, il pellegrino e la sua guida scendono (Così scendemmo) nella quarta cavità (ne la quarta lacca), guadagnando terreno (pigliando più) sulla dolorosa riva (de la dolente ripa) che l’immenso dolore dell’universo tutto in sé contiene (che ‘l mal de l’universo tutto insacca).
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa | |
nove travaglie e pene quant’ io viddi? | |
21 | e perché nostra colpa sì ne scipa? |
Al che Dante, invocando con sofferenza la giustizia divina (Ahi giustizia di Dio!) si chiede chi possa essere, se non Dio, a stipare (tante chi stipa) nuovi tormenti (nove travaglie) e pene tante quante ad egli toccò vedere ( quant’ io viddi) e perché i peccati umani (nostra colpa) in tal modo trasfiguri (sì ne scipa)?
Come fa l’onda là sovra Cariddi, | |
che si frange con quella in cui s’intoppa, | |
24 | così convien che qui la gente riddi. |
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa, | |
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli, | |
27 | voltando pesi per forza di poppa. |
Per esplicare le pene appartenenti al quarto cerchio, il fiorentin poeta aggancia la similitudine, frequente nella letteratura classica, dello scontro fra ioniche e tirreniche acque, sicché: “Come fa l’onda là sovra Cariddi”, ovvero, così come si comporta l’onda dalle parti di Cariddi, nello stretto di Messina, che s’infrange (frange) contro quella con cui s’incontra (con quella in cui s’intoppa), in simil maniera (così convien che) qui i dannati (la gente) ballano in tondo (riddi).
Il termine “riddi”, deriva da un antico ballo in tondo denominato, per l’appunto “ridda”.
Pertanto le anime, che l’Alighieri nota molto numerose rispetto ai cerchi precedenti (Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa) circolano sui due semicerchi (e d’una parte e d’altra), in direzione gli uni opposta agli altri, acutamente gemendo (con grand’ urli), spingendo macigni (rotolando pesi) con il petto (per forza di poppa).
Lo srotolar un masso di petto richiama la pena che, nella mitologia classica, fu destinata al fondatore di Corinto, Sisifo, il quale, evitando per ben due volte la morte inviatagli dal dio Giove, per la di lui relazione amorosa con la dea Egina, dopo esser deceduto per anzianità, si trovò nell’eterna condizione di spingere una greve pietra fin alla cima d’una collina, ogni volta ritornar a valle per il versante opposto.
Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì | |
si rivolgea ciascun, voltando a retro, | |
30 | gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». |
Così tornavan per lo cerchio tetro | |
da ogne mano a l’opposito punto, | |
33 | gridandosi anche loro ontoso metro; |
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto, | |
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra. | |
36 | E io, ch’avea lo cor quasi compunto, |
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra | |
che gente è questa, e se tutti fuor cherci | |
39 | questi chercuti a la sinistra nostra». |
Le stesse arrivano a scontrarsi le une con le altre (Percotëansi ‘ncontro); e, una volta lì, (e poscia pur lì) si urlano reciprocamente (si rivolgea ciascun), poi ritornando indietro (voltando a retro), chiedendosi, gridando, perché l’una trattenga il masso e perché l’altra lo faccia rotolare (Perché tieni? e Perché burli?).
Così riprendono (tornavano) a circolare nell’oscurità (per lo cerchio tetro), ognuna dalla propria parte (da ogne mano) fino all’opposto (a l’opposito punto), e di nuovo ad urlarsi (gridandosi anche) il loro offensivo (loro ontoso) intercalare (metro);
ogni spirito riprende (poi si volgea ciascun) un altro scontro (l’altra giostra), una volta giunto alla parte opposta (quand’ era giunto) del proprio mezzo percorso. E Dante (E io), il cui cuore s’è quasi turbato (E io, ch’avea lo cor quasi compunto), chiede al suo maestro se subito gli possa spiegare (Maestro mio, or mi dimostra) di che spiriti si tratti (che gente è questa), e se, quelli con la chierica (questi chercuti) alla loro sinistra (a la sinistra nostra), in vita furono tutti ecclesiali (e se tutti fuor cherci).
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci | |
sì de la mente in la vita primaia, | |
42 | che con misura nullo spendio ferci. |
Assai la voce lor chiaro l’abbaia, | |
quando vegnono a’ due punti del cerchio | |
45 | dove colpa contraria li dispaia. |
Questi fuor cherci, che non han coperchio | |
piloso al capo, e papi e cardinali, | |
48 | in cui usa avarizia il suo soperchio». |
Avari e prodighi, 1587
Il virgilian vate gli risponde (Ed elli a me) che tutti quanti, quindi sia quelli alla loro destra, che quelli alla loro sinistra, che indossino o meno la chierica, furono talmente deviati nella mente (fuor guerci sì de la mente) in precedente vita (in la vita primaia), che nessuna misura riuscirono ad utilizzare nello spendere (che con misura nullo spendio ferci).
E assai la loro voce (la voce lor) rende chiaro il loro peccato nel canino manifestarsi dei toni (chiaro l’abbaia), quand’essi arrivano (quando vegnono) ai due punti opposti del cerchio (a’ due punti del cerchio) dove le contrapposte colpe (dove colpa contraria) li separano (li dispaia).
Quelli, che non hanno un capello in testa (questi, che non han coperchio peloso al capo), furono prelati (fuor chierci), e papi e cardinali, nei quali l’avarizia raggiunse il suo livello massimo (in cui usa avarizia il suo soperchio).
L’assoluta assenza di misura esplicata al quarantaduesimo verso, si riferisce sia allo spendere eccessivamente che al non spendere per nulla, introducendo quindi i due peccati della prodigalità e dell’avarizia, traviamenti profondamente odiati dal dantesco verseggiatore, al punto ch’egli arriva a rappresentare completamente calvo il capo di coloro che peccarono di biasimevole sperpero, così a metaforizzare la costretta privazione del superfluo. Essendo però che gli scialacquatori vengono relegati nel secondo girone del settimo cerchio, come violenti contro se stessi, non si comprende con precisione a che tipologia di prodighi egli si riferisca in questo canto, forse semplicemente a coloro che dalla materialità si fecero sedurre e corrompere, ma nulla è dato di sapere con estrema sicurezza.
E io: «Maestro, tra questi cotali | |
dovre’ io ben riconoscere alcuni | |
51 | che furo immondi di cotesti mali». |
In ulteriore quesito, il dantesco affermare (E io) al maestro che fra costoro (tra questi cotali) vi sarà per forza qualcun da lui conosciuto che fu insudiciato (che furo immondi) da codesti peccati (di contesti mali).
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: | |
la sconoscente vita che i fé sozzi, | |
54 | ad ogne conoscenza or li fa bruni. |
La virgiliana risposta (Ed elli a me) dichiara esser il pensiero di Dante illusorio (Vano pensiero aduni): la vita priva d’assennatezza (sconoscente) che macchiò (che i fé sozzi) tali animi, ora li rende oscuri (or li fa bruni) a qualsiasi riconoscimento (ad ogni conoscenza).
In etterno verranno a li due cozzi: | |
questi resurgeranno del sepulcro | |
57 | col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. |
Essi saranno in balia dei due punti opposti (verranno a li due cozzi) per l’eternità (In etterno): questi, da una parte, dopo il giorno del giudizio (del sepulcro) risorgeranno (resurgeranno) col pugno chiuso, e questi, dalla parte opposta, con il capo rasato (coi crin mozzi).
Il “pugno chiuso” ed i “crin mozzi” metaforizzano rispettivamente l’avarizia e la prodigalità.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro | |
ha tolto loro, e posti a questa zuffa: | |
60 | qual ella sia, parole non ci appulcro. |
L’illimitato spendere e l’eccessivo trattenere (Mal dare e mal tenere) ha levato (ha tolto) loro il magnifico (pulcro) mondo, ovvero il paradiso, e li ha condannati a questa lite (zuffa): su come si svolga (qual elle sia), Virgilio non vuol star ad abbellirla (non ci appulcro) di parole.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa | |
d’i ben che son commessi a la fortuna, | |
63 | per che l’umana gente si rabuffa; |
Paternamente appellando il pellegrino “figliuol”, aggiunge com’egli possa ora (Or puoi) comprender il fuggevole artificio (veder la corta buffa) dei beni (d’i ben) che son assegnati (commessi) alla fortuna, per i quali (per che) l’umanità (l’umana gente) s’azzuffa (si rabuffa);
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna | |
e che già fu, di quest’ anime stanche | |
66 | non poterebbe farne posare una». |
tanto è vero che nemmeno tutto l’oro del mondo (ch’è sotto la luna) e che sia stato prima (e che già fu), sarebbe sufficiente (non potrebbe) a portare riposo a nemmeno una (farne posare una) di queste anime sfibrate (di quest’ anime stanche).
«Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche: | |
questa fortuna di che tu mi tocche, | |
69 | che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». |
Nuova richiesta dell’Alighieri (diss’ io) al suo maestro di dir lui anche (or mi dì anche) se questa fortuna della quale egli va discorrendogli (di che tu mi tocche), e che tutti i beni materiali (che i ben) del mondo tiene al proprio dominio (ha sì tra branche) che cosa sia (che è).
E quelli a me: «Oh creature sciocche, | |
quanta ignoranza è quella che v’offende! | |
72 | Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche. |
Il virgilian vate in esclamazione (E quelli a me): “Oh sciocche creature, quanta ignoranza vi svilisce (quanta ignoranza è quella che v’offende)! Ora desiderio (Or vo’) che tu ti lasci indottrinare (ne ‘mbocche) dalle mie delucidazioni a riguardo (mia sentenza).
Colui lo cui saver tutto trascende, | |
fece li cieli e diè lor chi conduce | |
75 | sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, |
distribuendo igualmente la luce. | |
Similemente a li splendor mondani | |
78 | ordinò general ministra e duce |
che permutasse a tempo li ben vani | |
di gente in gente e d’uno in altro sangue, | |
81 | oltre la difension d’i senni umani; |
per ch’una gente impera e l’altra langue, | |
seguendo lo giudicio di costei, | |
84 | che è occulto come in erba l’angue. |
Ed il virgilian poeta continua spiegando che colui dal quale tutto ha origine, Dio, creò tutti i cieli (fece li cieli) affidandoli a delle angeliche guide (e diè lor chi conduce) in maniera che (sì) la luce di ogni angelo si rifrangesse sulla sfera celeste conferita (ch’ogne parte ad ogne parte splende), diffondendo allo stesso modo la luce sul mondo (distribuendo igualmente la luce).
Analogamente (Similmente) il divino assegnò alle ricchezze del creato (ordinò a li splendor mondani) un amministratore generale ed un direttore (general ministra e duce) che commutassero (permutasse) i caduchi beni (li ben van), al tempo opportuno (a tempo), di paese in paese (di gente in gente) e di famiglia in famiglia (e d’uno in altro sangue), oltre l’opposizione (la difension) dell’umano intelletto (d’i senni umani);
ecco il motivo per cui (per ch’) alcuni popoli regnano (una gente impera) ed altri soccombono (e l’altra langue), in base al suo sconosciuto disegno (seguendo lo giudicio di costei), ch’è nascosto (occulto) come un serpente ( l’angue) nell’erba (in erba).
Vostro saver non ha contasto a lei: | |
questa provede, giudica, e persegue | |
87 | suo regno come il loro li altri dèi. |
Il vostro umano sapere (Vostro saver) non può contrastare la fortuna (non ha contasto a lei): in quanto la stessa (questa) provvede (provede), giudica, ed esercita il proprio potere giurisdizionale (e persegue suo regno) proprio come le altre entità angeliche celesti (li atri dèi) fanno nella sfera a loro deputata (come il loro).
Le sue permutazion non hanno triegue: | |
necessità la fa esser veloce; | |
90 | sì spesso vien chi vicenda consegue. |
Come lei decida di permutare i beni (Le sue permutazion) non danno tregua (non hanno triegue): è la necessità a renderla celere (la fa esser veloce); in tal modo succede (sì vien) spesso che taluni subiscano il suo avvicendarsi (chi vicenda consegue).
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce | |
pur da color che le dovrien dar lode, | |
93 | dandole biasmo a torto e mala voce; |
Codesta è colei che tanto vien bistrattata (Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce) proprio da coloro che dovrebbero tesserne lodi (pur da color che le dovrien dar lode), i quali invece tanto la rimproverano criticandola (dandole biasmo) iniquamente (a torto) e calunniandola (e mala voce);
ma ella s’è beata e ciò non ode: | |
con l’altre prime creature lieta | |
96 | volve sua spera e beata si gode. |
ma lei (ella) se ne sta in beata (s’è beata) e tutto ciò non ascolta (non ode): in completa lietezza (lieta) continua ne far ruotar la sua sfera (volve sua spera) insieme agli altri angeli (con l’altre creature), i primi ad esser creati (prime), godendosi là proprio a beatitudine (e beata si gode).
La fortuna, nella dantesca visione, è intensamente collegata al dovuto rispetto per lo sconosciuto disegno divino, ritenendo il poeta di primaria importanza il saper godere di quanto è stato concesso ed il necessario adeguarsi alle sottrazioni a cui l’uomo, nel corso della sua vita terrena, può esser soggetto. Intimo pensiero che potrebbe riferirsi alla dolorosa accettazione dell’Alighieri nei confronti dell’esilio a lui imposto, che l’addolorò per tutto il corso della sua esistenza, impedendogli di riposare piede e cuore nella sua adorata patria fiorentina.
Or discendiamo omai a maggior pieta; | |
già ogne stella cade che saliva | |
99 | quand’ io mi mossi, e ‘l troppo star si vieta». |
Terminata la dettagliata spiegazione, Virgilio invita Dante a continuar la discesa verso più intensi patimenti (Or discendiamo omai a maggior pieta); dato che già ogni (ogne) stella che, all’orizzonte, stava sorgendo (saliva) quando il vate si mosse dal limbo (quand’ io mi mossi), ora inizia il tramonto (cade), e l’eccessivo sostare (e ‘l troppo star) non è concesso (si vieta).
Per la visita agli inferi, ai due poeti sono infatti concesse ventiquattr’ore precise, senza possibilità alcuna di modifica.
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva | |
sovr’ una fonte che bolle e riversa | |
102 | per un fossato che da lei deriva. |
L’acqua era buia assai più che persa; | |
e noi, in compagnia de l’onde bige, | |
105 | intrammo giù per una via diversa. |
Guida e seguace tagliano dunque il percorso, nel suo interno, fino al bordo opposto (ricidemmo il cerchio a l’altra riva) raggiungendo la sommità d’una bollente fonte (sovr’ una fonte che bolle) che getta le proprie acque in un fossato (e riversa per un fossato) che da lei nasce (deriva).
La sua acqua è di colore più simile al nero che al rosso persico (L’acqua era buia assai più che persa); e i due poeti, in compagnia di quelle oscure (bige) ed ondose acque (de l’onde), procedono nel discendere (intrammo giù) per un differente e strano percorso (per via diversa).
In la palude va c’ha nome Stige | |
questo tristo ruscel, quand’ è disceso | |
108 | al piè de le maligne piagge grige. |
Questo rattristante ruscello (tristo ruscel), una volta (quand’ è) disceso ai piedi (al piè) del malefico (de le maligne) e grigio (grige) pendio (piagge), riversa (va) nella palude denominata Stige (In la palude c’ha nome Stige).
E io, che di mirare stava inteso, | |
vidi genti fangose in quel pantano, | |
111 | ignude tutte, con sembiante offeso. |
L’Alighieri (Io), in assorta osservazione (che di mirare stava inteso), vede delle anime infangate (vidi genti fangose) adagiate in quel pantano, completamente nude (ignude tutte), dalle dolenti sembianze (con sembiante offeso).
Queste si percotean non pur con mano, | |
ma con la testa e col petto e coi piedi, | |
114 | troncandosi co’ denti a brano a brano. |
Le stesse si percuotono (Queste si percotean), e non solamente con le mani (non pur con mano), ma con il capo (testa) e con il petto e con i piedi, e dilaniandosi gradualmente con i denti (troncandosi co’ denti a brano a brano).
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi | |
l’anime di color cui vinse l’ira; | |
117 | e anche vo’ che tu per certo credi |
che sotto l’acqua è gente che sospira, | |
e fanno pullular quest’ acqua al summo, | |
120 | come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira. |
Il buon maestro Virgilio, appellando paternamente il suo discepolo “Figlio” gli dice (disse) ch’egli sta vedendo (or vedi) gli spiriti di coloro (l’anime di color) che si fecero dominare dall’ira (l’anime di color cui vinse l’ira); e inoltre vuole abbia certezza (anche vo’ che tu per certo credi) del lor essere al di sotto dell’acqua (è che sotto l’acqua), quindi non visibili, anime sospiranti (gente che sospira), che fanno zampillare (e fanno pullular) la superficie dell’acqua (quest’ acqua al summo), come sguardo gli rivela (come l’occhio ti dice), ovunque lo rivolga (u’ che s’aggira).
Lasciati avari e prodighi nel quarto cerchio, al quinto ecco dunque manifestarsi, rispettivamente agli occhi ed all’udito, gli iracondi e gli accidiosi, immersi nel fango i primi, subissati dall’acqua i secondi.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo | |
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, | |
123 | portando dentro accidïoso fummo: |
or ci attristiam ne la belletta negra”. | |
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza, | |
126 | ché dir nol posson con parola integra». |
Integralmente sommersi nella melmosa poltiglia (Fitti nel limo) essi dicono: “fummo tristi nella dolce aria rallegrata dal sole (ne l’aere dolce che dal sol s’allegra), ovvero in vita terrena, custodendo dentro di noi il peccato dell’accidia (portando dentro accidïoso fummo): adesso siamo addolorati (or ci attristiam) nella scura fanghiglia (ne la belletta negra)”. Questa lagna (Quest’ inno) si gloglottano in gola (si gorgoglian ne la strozza), sicché impossibilitati a pronunciarla (ché di non posson) in maniera chiara ed integra (con parola integra).
Così girammo de la lorda pozza | |
grand’ arco, tra la ripa secca e ‘l mézzo, | |
129 | con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. |
Dopo la sgradevole e dolorosa visione, il pellegrino e la sua guida fanno un ampio giro circolare (girammo grand’ arco) attorno alla lurida pozzanghera (de la lorda pozza), fra la sua parte di riva asciutta e quella infangata (tra la ripa secca e ‘l mézzo), con gli occhi fissi (con li occhi vòlti) verso coloro che di quelle fango s’ingozzano (a chi del fango ingozza).
130 | Venimmo al piè d’una torre al da sezzo. |
Essi giungono (Venimmo) infine (al da sezzo) ai piedi (al piè) d’una torre.
Di poco precedente la visione di una luce sulla sua sommità, “per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre”…
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