Divina Commedia: Inferno, Canto V
Gustave Doré (1832-1883), Dante e Virgilio, 1861
Come riportato nella descrizione della struttura dantesca, introducendo il primo canto: “i primi cinque cerchi appartengono all’Alto Inferno; dal secondo al quinto sono confinati gli Incontinenti, coloro che subiscono pene meno violente in quanto succubi, nella vita, di passionali pulsioni ed istinti, con perdita della ragione, sebbene la stessa si mantenesse retta e perfettamente in grado di distinguere il bene dal male”.
Usciti dal limbo, Dante e Virgilio giungono al secondo cerchio, ove stanno confinati i lussuriosi, anime che per legge del contrappasso sono soggette a perenne impeto del vento, parallelamente all’assoggettarsi all’impulso passionale che in vita le travolse, perendo la ragione sotto l’istinto.
Sull’ingresso ecco apparir Minosse, a cui l’Alighieri attribuisce sembianze mostruose, ufficial giudice dei dannati le cui colpe valutare al fine d’individuare il cerchio dove precipitarli, ch’egli comunica con giri di coda nel numero corrispondente.
Essendo che scendendo di livello aumenta la gravità della pena, i lancinanti lamenti degli spiriti si fan martello perforante i timpani danteschi, rivelando nell’estrema pietà di ritorno del poeta la sua immensa predisposizione all’empatica immedesimazione.
Alla vista delle anime che, come stormi d’uccelli al fuggir dall’inverno, dall’infernal bufera son perennemente sconquassate, il pellegrino sente il desiderio di conversare con due di loro, che, ad una prima conversazione, si riveleranno essere Paolo e Francesca, trucidati in vita poiché abbandonatisi al proprio amore, essendo Paolo il fratello del di lei marito.
La descrizione con la quale il fiorentin poeta riesce ad immortalare su carta le parole della donna, rivelano un’indole caritatevolmente comprensiva, fuoriuscendo dalla zelante scelta dei vocaboli una bontà di fondo che, attraverso i secoli, giunge ancora piena, sincera, cristallina, a testimonianza del fatto che i sentimenti sian l’unico motivo per cui la sfera terrestre non abbia ad arrestar il proprio moto.
Così discesi del cerchio primaio | |
giù nel secondo, che men loco cinghia | |
3 | e tanto più dolor, che punge a guaio. |
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: | |
essamina le colpe ne l’intrata; | |
6 | giudica e manda secondo ch’avvinghia. |
Così disceso dal primo cerchio al secondo, Dante lo descrive come un luogo più ristretto (che men loco cinghia) e di maggior angustia (tanto più dolor), per la cui pena la sofferenza dei dannati aumenta (che punge a guaio).
Qui vi è Minosse (Stavvi Minòs) in orribile maniera (orribilmente), che rancoroso grida (ringhia): egli esamina ogni peccato (essamina le colpe) all’ingresso (ne l’intrata); si fa giudice (giudica) d’ogni colpa ed invia (manda) al cerchio destinato comunicandolo col giro della sua coda (secondo ch’avvinghia).
Minosse, figlio di Giove e di Europa, è re di Creta, padre del Minotauro, che nella Commedia, rispetto alla solennità con cui viene raffigurato nell’Eneide, è trasformato in orrendo mostro che non parla, se non tramite emissione di raccapriccianti versi; lo stesso, dopo la sua morte, viene collocato come giudice all’entrata del secondo cerchio.
Dico che quando l’anima mal nata | |
li vien dinanzi, tutta si confessa; | |
9 | e quel conoscitor de le peccata |
vede qual loco d’inferno è da essa; | |
cignesi con la coda tante volte | |
12 | quantunque gradi vuol che giù sia messa. |
L’Alighieri racconta (dico) che quando l’anima peccatrice (mal nata) gli si pone davanti (li vien dinanzi), confessa tutti i suoi errori (tutta si confessa): e Minosse, grande conoscitore di peccati (quel conoscitor de la peccata) valuta quale sia il cerchio che ad essa si confaccia (vede qual loco d’inferno è da essa); e lo esprime avvinghiandosi la coda (cinesi la coda) per il numero di volte corrispondente al cerchio da lui individuato (tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa).
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: | |
vanno a vicenda ciascuna al giudizio, | |
15 | dicono e odono e poi son giù volte. |
Le anime che giungono al suo cospetto (dinanzi a lui) sono sempre molte: a turno (a vicenda) si preparano ad essere giudicate (vanno ciascuna al giudizio), dichiarano il loro peccato (dicono) e ascoltano la sentenza (odono) e poi vengono precipitate (so giù volte) al cerchio infernale per loro deciso.
«O tu che vieni al doloroso ospizio», | |
disse Minòs a me quando mi vide, | |
18 | lasciando l’atto di cotanto offizio, |
guarda com’ entri e di cui tu ti fide; | |
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!». | |
21 | E ‘l duca mio a lui: «Perché pur gride? |
Non impedir lo suo fatale andare: | |
vuolsi così colà dove si puote | |
24 | ciò che si vuole, e più non dimandare». |
Notando il pellegrino (quando mi vide) Minosse, interrompendo per un attimo la gravosa attività giudicante (lasciando l’atto di cotanto offizio), gli dice (a me disse Minòs): “O tu che giungi (che vieni) in questo luogo che ospita tormenti (al doloroso ospizio), valuta bene dove stai per entrare (guarda com’ entri) ed in chi hai riposto fiducia (e di cui tu ti fide); che l’ampiezza dell’ingresso non t’inganni (non t’inganni l’ampiezza de l’intrare)!”
Al che, Virgilio, per cui il poeta utilizza l’appellativo “duca”, rafforzato dall’aggettivo “mio”, chiede a Minosse il motivo per cui egli gridi (Perché gride) in continuazione (pur), poi a lui parlando con le stesse parole che, nel novantacinquesimo verso del terzo canto, aveva rivolto a Caronte, dicendogli di non ostacolare (Non impedir) un tragitto voluto dalla provvidenza (lo suo fatale andare): quindi di non chiedere più nulla (e più non dimandare), poiché tale è la volontà (vuolsi così) del luogo dove si può (colà dove si puote) ciò che si vuole. Ovvero il paradiso.
“L’ampiezza de l’intrare” viene intesa da Minosse come facilità d’ingresso agli inferi che non sia da considerare parallelamente come semplicità d’uscita, è dunque un avvertimento dato al pellegrino, a cui egli instilla il dubbio che Virgilio lo possa abbandonare da un momento all’altro, perlessità che nel fiorentin poeta germinerà lieve timore.
Or incomincian le dolenti note | |
a farmisi sentire; or son venuto | |
27 | là dove molto pianto mi percuote. |
Io venni in loco d’ogne luce muto, | |
che mugghia come fa mar per tempesta, | |
30 | se da contrari venti è combattuto. |
La bufera infernal, che mai non resta, | |
mena li spirti con la sua rapina; | |
33 | voltando e percotendo li molesta. |
Dante riporta dunque il rumore del dispiacere (Or incomincian le dolenti note) ch’egli inizia ad udire (a farmisi sentire); d’esser ora giunto (or son venuto) dove gl’infiniti e disperati pianti lo sconvolgono (mi percuote).
Egli si rende conto d’esser arrivato (venni) in un luogo dall’oscurità avvolto (loco d’ogne luce muto), in cui l’atmosfera da lui percepita è paragonabile al muggito (mugghia) del mare in preda alla tempesta (come fa mar per tempesta), quando vittima della furia di venti (se da venti è combattuto) avversari (contrari).
Allo stesso modo l’infernal bufera, che mai si placa (non resta), strascica le anime (li spirti mena) come rapendole (con la sua rapina); roteandole vorticosamente (voltando) e scuotendole (percotendo) le tormenta (li molesta).
Le acute similitudini dantesche rimandano davvero alla violenza con la quale gli animi vengono violati sotto il perenne sfregio dell’infernal pena; anche nella ripetizione dell’espressione “Or”, il fiorentin poeta parrebbe voler far trapelare dalle righe il suo percepirne l’affliggente costernazione, al punto da riuscire a condurre il lettore a visualizzare le sconfortanti scene, gli angosciosi movimenti, fin a quasi riuscir ad avvertirne i laceranti guaiti.
Quando giungon davanti a la ruina, | |
quivi le strida, il compianto, il lamento; | |
36 | bestemmian quivi la virtù divina. |
E quando gli spiriti giungono davanti al baratro (a la ruina), qui (quivi) gli acuti urli (le strida), il pianto comune (il compianto), i disperati lamenti (il lamento) esplodono; qui bestemmie insultano la grazia (virtù) divina.
Intesi ch’a così fatto tormento | |
enno dannati i peccator carnali, | |
39 | che la ragion sommettono al talento. |
E come li stornei ne portan l’ali | |
nel freddo tempo, a schiera larga e piena, | |
42 | così quel fiato li spiriti mali |
di qua, di là, di giù, di sù li mena; | |
nulla speranza li conforta mai, | |
45 | non che di posa, ma di minor pena. |
Il pellegrino comprende (intesi) che alla tal pena (ch’a così fatto tormento) sono (enno) destinati alla dannazione eterna (dannati) i peccatori carnali, che in vita hanno sottomesso (sottomettono) la ragione all’istinto (talento).
E come stormi (tornei) d’uccelli che durante l’inverno (nel freddo tempo) migrano (ne portan l’ali) per svernare, così spinge il soffio del vento (quel fiato) sulla vasta e stessa (larga e piena) schiera dei lussuriosi (spiriti mali), che vengono travolti e turbinati (li mena) in ogni direzione (di qua, di là, di giù, di sù); nessuna speranza porterà mai loro conforto (nulla speranza li conforta mai), non tanto di cessazione (non che di posa), ma d’un scemar della pena (ma di minor pena).
È filo trainante dell’intera Commedia la convinzione dantesca che la dannazione derivi dalla mancanza di riflessione a causa della quale il desiderio prevale sull’intelletto; i “peccator carnali” è evidente riferimento alla lussuria. Per legge del contrappasso, essendo in vita stati travolti dalle passioni, una perenne e violenta bufera li perseguiterà all’infinito.
E come i gru van cantando lor lai, | |
faccendo in aere di sé lunga riga, | |
48 | così vid’ io venir, traendo guai, |
ombre portate da la detta briga; | |
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle | |
51 | genti che l’aura nera sì gastiga?». |
Il poeta nota poi (così vid’ io venir) una seconda schiera d’anime (ombre) che, volando disponendosi in una lunga linea (faccendo in aere di sé lunga riga) simile a delle gru (come i gru) in volo, emettono prolungati e pungenti lamenti (traendo guai), lor stesse travolte dalla suddetta bufera (portate da la detta briga); egli pertanto (per ch’i’) si rivolge al suo “Maestro” chiedendogli (dissi) chi siano quegli spiriti (genti) che la temporalesca aria (l’aura nera) in tal maniera (sì) punisce (gastiga).
«La prima di color di cui novelle | |
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta, | |
54 | «fu imperadrice di molte favelle. |
A vizio di lussuria fu sì rotta, | |
che libito fé licito in sua legge, | |
57 | per tòrre il biasmo in che era condotta. |
Ell’ è Semiramìs, di cui si legge | |
che succedette a Nino e fu sua sposa: | |
60 | tenne la terra che ‘l Soldan corregge. |
Virgilio risponde allora (allotta) che la prima di coloro di cui (La prima di color di cui) L’Alighieri ha desiderio (tu vuo’ saper) d’avere informazioni (novelle) fu imperatrice plurilingue (di molte favelle).
La donna, in vita, fu talmente travolta (fu sì rotta) dal vizio della lussuria (A vizio di lussuria), da render lecita ogni libidine (che libito fé licito in sua legge), al fin d’estinguere il disonore (per tòrre il biasmo), in cui era incappata (in che era condotta).
Ella è Semiramide (Ell’ è Semiramìs), della quale si narra (di cui si legge) fosse stata moglie (sposa) di Nino, nonché la di lui succeditrice (che succedette): regnò (tenne) sulla città (terra) ora governata dal sultano d’Egitto (che ‘l Soldan corregge).
La leggendaria Semiramide, secondo vari autori, si narra sia stata uccisa dallo stesso figlio con il quale consumò rapporti incestuosi; secondo alternativa versione, per sete di potere la stessa fece uccidere il marito ed allontanò il figlio Nynias da palazzo, travestendosi al fine di prenderne false sembianze al fine di governare in piena libertà.
L’antico storico greco Erodoto, ne decanta al contrario le virtù d’eccellente sovrana, realizzante meravigliose opere di pace come, ad esempio, i Giardini pensili di Babilonia.
Storicamente, la figura della donna si riferisce alla regina assiro-babilonese Shammuramat, moglie del re assiro Shamsi-Adad V, vissuta nell’IX secolo a.C.
Per la sua Commedia Dante probabilmente attinse dai racconti di Paolo Orosio, discepolo d’Agostini d’Ippona:
L’altra è colei che s’ancise amorosa, | |
e ruppe fede al cener di Sicheo; | |
63 | poi è Cleopatràs lussurïosa. |
L’altra è invece colei che s’uccise per amore (s’ancise amorosa), dopo aver tradito il giuramento di fedeltà (e ruppe fede) suggellato sulle ceneri (al cener) del compianto marito Sicheo; poi vi è Cleopatra la lussuriosa (poi è Cleopatràs lussurïosa).
Cleopatra è ovviamente la celeberrima amante di Cesare, Marco Antonio ed altri uomini, che si tolse la vita, tramite morso di serpente, nel 30 a.C.
Elena vedi, per cui tanto reo | |
tempo si volse, e vedi ‘l grande Achille, | |
66 | che con amore al fine combatteo. |
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille | |
ombre mostrommi e nominommi a dito, | |
69 | ch’amor di nostra vita dipartille. |
Dante scorge poi (vedi) Elena, a causa della quale (per cui) per molto tempo si succedettero discordie (per cui tanto reo tempo si volse), e poi vede il leggendario Achille (e vedi ‘l grande Achille), i cui combattimenti avvennero per amore (che con amore al fine combatteo).
Il poeta vede Paride (Vedi Parìs), poi Tristano; e migliaia di spiriti (e più di mille ombre) mostrategli (mostrommi) e nominategli indicandole con un dito (nominommi a dito), che amore nelle vita separò (ch’amor di nostra vita dipartille).
“Per cui tanto reo tempo si volse” è rimando al lungo assedio di Troia, il re della cui città, Priamo, ebbe da Ecuba il figlio Paride che, a Sparta, s’innamorò di Elena e la rapì al di lei marito Menelao, dal duello con il quale fu salvato dalla dea Afrodite; la battaglia con Achille, il mitologico personaggio greco citato al sessantacinquesimo verso del canto, vide invece Paride vincitore ed Achille morente per mano dello stesso.
Il Tristano del sessantasettesimo versetto è il protagonista della celtica leggenda che decanta la travagliata storia d’amore, generata da una pozione, tra il valoroso cavaliere e la figlia del re irlandese, Isotta, maritata a Marco re di Cornovaglia, nonché zio di Tristano, che dallo stesso, essendo orfano, fu cresciuto.
Poscia ch’io ebbi ‘l mio dottore udito | |
nomar le donne antiche e ‘ cavalieri, | |
72 | pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. |
Dopo aver udito il suo maestro (Poscia ch’io ebbi ‘l mio dottore udito) nominare antiche donne e cavalieri (nomar le donne antiche e ‘ cavalieri), il pellegrino vien colto da tal senso di compassione (pietà mi giunse), d’esser in procinto di perdere i sensi (e fui quasi smarrito).
I’ cominciai: «Poeta, volontieri | |
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, | |
75 | e paion sì al vento esser leggieri». |
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno | |
più presso a noi; e tu allor li priega | |
78 | per quello amor che i mena, ed ei verranno». |
Rivolgendosi a Virgilio appellandolo “poeta”, l’Alighieri manifesta il desiderio di conversare (volentieri parlerei) con due anime ch’egli nota in affiatato volo (a quei due che ‘nsieme vanno), da parer tanto leggeri (e paion sì esser leggieri) al tocco del vento (al vento).
Egli risponde (Ed elli a me) d’attendere quando (vedrai quando) gli stessi saran meno distanti da loro due (quando saranno più presso a noi); e spronandolo (e tu), in quel medesimo momento (allor), di pregarli (li priega) in nome dell’amore che li conduce (per quello amor che i mena), e lor verranno (ed ei verranno).
Sì tosto come il vento a noi li piega, | |
mossi la voce: «O anime affannate, | |
81 | venite a noi parlar, s’altri nol niega!». |
Quali colombe dal disio chiamate | |
con l’ali alzate e ferme al dolce nido | |
84 | vegnon per l’aere, dal voler portate; |
cotali uscir de la schiera ov’ è Dido, | |
a noi venendo per l’aere maligno, | |
87 | sì forte fu l’affettüoso grido. |
Così, non appena il vento li avvicina (Sì tosto come il vento a noi li piega), il poeta loro si rivolge (mossi la voce): definendole, in afflato iniziale, anime in affanno (O anime affannate), chiede che loro si avvicinino per parlare (venite a noi parlar), sempre che nessuno ponga divieto a riguardo (s’altri nol niega)!
E come colombe che chiamate dal desiderio (Quali colombe dal disio chiamate) esse giungono attraverso il vento (vegnon per l’aere) con le ali alzate e plananti al loro nido (con l’ali alzate e ferme), sul filo del loro desiare (dal voler portate);
le stesse (cotali) abbandonano la fila dove sta anche Didone (uscir de la schiera ov’ è Dido), raggiungendo i due poeti (a noi venendo) attraverso l’aria ostile (per l’aere maligno), richiamate dall’intensità (sì forte fu) dell’amorevole richiesta (l’affettüoso grido) del pellegrino.
«O animal grazïoso e benigno | |
che visitando vai per l’aere perso | |
90 | noi che tignemmo il mondo di sanguigno, |
se fosse amico il re de l’universo, | |
noi pregheremmo lui de la tua pace, | |
93 | poi c’hai pietà del nostro mal perverso. |
Di quel che udire e che parlar vi piace, | |
noi udiremo e parleremo a voi, | |
96 | mentre che ‘l vento, come fa, ci tace. |
La femminea e garbata anima si rivolge in poetico slancio (O) all’Alighieri definendolo graziosa e benevola (grazïoso e benigno) creatura vivente (animal) che prosegue nella sua visita (che visitando vai) per l’aria cupa (aere perso) ed aggiungendo che loro che macchiarono il mondo (tingemmo il mondo) del loro sangue (di sanguigno), se fossero benvoluti dall’onnipotente (se fosse amico il re de l’universo, volentieri lo pregherebbero (noi pregheremmo lui) affinché gli giunga pace (de la tua pace), e questo per aver dimostrato cotanta pietà (poi c’hai pietà) del loro incommensurabile dolore (del nostro mal perverso).
Ella aggiunge che la coppia ascolterà e parlerà ai due poeti (noi udiremo e parleremo a voi), in base a ciò di cui loro avranno piacere di parlare ed udire (Di quel che udire e che parlar vi piace), perlomeno fin quando il vento (mentre che ‘l vento), com’è sua caratteristica (come fa), non li interrompa (ci tace) con il suo potente brontolio.
Siede la terra dove nata fui | |
su la marina dove ‘l Po discende | |
99 | per aver pace co’ seguaci sui. |
Sicché il racconto della stessa parte dal posizionar la terra natia (Siede la terra dove nata fui) nella zona marina dove sfocia il fiume Po (su la marina dove ‘l Po discende) per riappacificarsi nell’unione con i suoi affluenti (per aver pace co’ seguaci sui).
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, | |
prese costui de la bella persona | |
102 | che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. |
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, | |
mi prese del costui piacer sì forte, | |
105 | che, come vedi, ancor non m’abbandona. |
Amor condusse noi ad una morte. | |
Caina attende chi a vita ci spense». | |
108 | Queste parole da lor ci fuor porte. |
In estremo e nostalgico sentire, il femmineo spirito recita poi i celebri e magmatici versi che sulle pagine della Commedia han descritto l’amore nella sua sfumatura di calamitico desio:
“Amore, che in un cuore garbato (ch’al cor gentil) all’istante (ratto) si radica (s’apprende), s’impossessò di costui al mio fianco (prese costui) del cui corpo (de la bella persona) fui privata (che mi fu tolta); e il modo in cui me lo tolsero (e ‘l modo), ancor immensamente mi ferisce (ancor m’offende).
Amore, che a nessuno concede di non riamare chi l’ama (Amor, ch’a nullo amato amar perdona), mi coinvolse (mi potesse) della fisica avvenenza di costui (del costui piacer) in maniera così potente (sì forte), che, come puoi vedere, ancor ne son posseduta (non m’abbandona).
L’amor ci condusse entrambi alla medesima (ad una) morte. Il cerchio che chiude il cratere infernale (Caina) attende chi ci privò della vita (chi a vita ci spense)”
Queste le parole rivolte ai due poeti da Francesca da Polenta e Paolo Malatesta.
Figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, Francesca fu sposa di Gianciotto Malatesta, figlio del signore di Rimini, dalle deformi sembianze, il matrimonio con il quale venne organizzato al fin di chetare antichi rancori fra le due potenti famigli guelfe di Romagna, per l’appunto, i Polenta da Ravenna ed i Malatesta da Rimini.
In vita s’innamorò perdutamente di Paolo, fratello di Gianciotto, il cui amore esplose sulla pagina d’un romanzo narrante l’appassionato bacio fra l’arturiano cavaliere della tavola rotonda Lancillotto e la regina Ginevra, moglie dello stesso re Artù.
Venuto a galla l’adulterio, i due furono trucidati.
Quand’ io intesi quell’ anime offense, | |
china’ il viso, e tanto il tenni basso, | |
111 | fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?». |
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, | |
quanti dolci pensier, quanto disio | |
114 | menò costoro al doloroso passo!». |
All’udire e comprendere (Quand’ io intesi) lo strazio di quelle due anime addolorate (offense), Dante china il capo (china’ il viso), e talmente (e tanto) rimane a sguardo abbassato (il tenni basso), da indurre (fin che) il virgiliano poeta a chiedergli (‘l poeta mi disse) a cosa stia pensando tanto intensamente (Che pense?).
Il pellegrino, all’atto della risposta (Quando risposi), iniziando (cominciai), quasi fra sé e sé, nel sospirar “Oh Lasso!”, ovvero “Me tapino!”, riflettendo su qual dolcezza di pensieri (quanti dolci pensier), quanto desiderio (disio) trascinò i due innamorati verso il peccato (al doloroso passo) e le sue conseguenze.
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, | |
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri | |
117 | a lagrimar mi fanno tristo e pio. |
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, | |
a che e come concedette amore | |
120 | che conosceste i dubbiosi disiri?». |
Rivolgendosi poi alla coppia (Poi mi rivolsi a loro) e prendendo parola (e parla’ io), l’Alighieri confessando a Francesca quanto le sue afflizioni (i tuoi martìri) lo rattristino e l’addolorino (mi fanno tristo e pio) a tal punto da commuoverlo (a lagrimar).
Ma egli desidera sapere dalla stessa (Ma dimmi) per che motivo (a che) e in che modo (come), al tempo del dolce e sospirante innamoramento (al tempo d’i dolci sospiri), l’amore permise (concedette) il completo abbandono (che conosceste) alla titubanza del desiderio (dubbiosi disiri).
E quella a me: «Nessun maggior dolore | |
che ricordarsi del tempo felice | |
123 | ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. |
Ma s’a conoscer la prima radice | |
del nostro amor tu hai cotanto affetto, | |
126 | dirò come colui che piange e dice. |
Noi leggiavamo un giorno per diletto | |
di Lancialotto come amor lo strinse; | |
129 | soli eravamo e sanza alcun sospetto. |
Per più fïate li occhi ci sospinse | |
quella lettura, e scolorocci il viso; | |
132 | ma solo un punto fu quel che ci vinse. |
Quando leggemmo il disïato riso | |
esser basciato da cotanto amante, | |
135 | questi, che mai da me non fia diviso, |
la bocca mi basciò tutto tremante. | |
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: | |
138 | quel giorno più non vi leggemmo avante». |
Alla tal domanda, Francesca risponde (E quella a me) affermando che nulla è più doloroso (Nessun maggior dolore) del rimembrar i tempi felici che furono (che ricordarsi del tempo felice) essendo in stato di miseria; e che ciò è sicuramente verità conosciuta (e ciò sa) a Virgilio (‘l tuo dottore).
Ma se a Dante è così desideroso (tu hai cotanto affetto) di conoscere l’origine del loro amore (la prima radice del nostro amor), ella gliene parlerà malinconicamente come chi parla piangendo (dirò come colui che piange e dice).
Un giorno, lei e Paolo, dilettandosi in lettura (Noi leggiavamo un giorno per diletto), s’avventurarono nella storia di Lancillotto e di come amor per Ginevra lo colse (di Lancialotto come amor lo strinse); il loro stato di solitudine era puro, senza alcun presentimento (soli eravamo e stanza alcun sospetto).
Per più volte (Per più fïate), quella lettura portò i loro sguardi a condividersi (Per più fïate li occhi ci sospinse), impallidendo i loro visi (e scolorocci il viso); ma solamente una pagina (ma solo un punto) fu quella che li sopraffece (fu quel che ci vinse).
Quando infatti lessero del sorriso sulla bocca di Ginevra (Quando leggemmo il disïato riso) baciato dal Lancillotto (esser basciato da cotanto amante), Paolo (costui), che da Francesca mai fu diviso (che mai da me non fia diviso), tremando la baciò (bocca mi basciò tutto tremante). Furfante (Galeotto) fu quindi il libro e colui che lo scrisse (fu ‘l libro e chi lo scrisse): da quel giorno non lo lessero più (quel giorno più non vi leggemmo avante).
Mentre che l’uno spirto questo disse, | |
l’altro piangëa; sì che di pietade | |
141 | io venni men così com’ io morisse. |
Mentre lo spirito di Francesca (che l’uno spirto) narra la di lor storia d’amore (questo disse), lo spirito di Paolo piange (piangëa); e piange in tal modo (sì che) da trafiggere il poeta di compassione (sì che di pietade) fin ad annientargli ogni senso, portandolo allo svenimento (io venni men così com’ io morisse).
144 | E caddi come corpo morto cade. |
Egli dunque cade (E caddi) come fosse completamente inerme (come corpo morto).
Sarà una pioggia “etterna, maladetta, fredda e greve” ad accogliere i due poeti nel terzo cerchio, di cui il sesto canto narrerà peripezie…
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