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Tradurre: la poetica delle emozioni, oltre le parole

La traduzione sposa il testo, lo tradisce di nascosto, ma, se è compiacente, lo arricchisce.
François Vaucluse

Il tradurre, oltre ch’ovvia e coltivata competenza, è arte e atto d’Amore, un cordiale avvicendarsi nel comprendere e nell’interpretare uno scritto, un concepirsi uomo di mare in balia di parole da condurre in differente porto, un immedesimarsi nei concettuali percorsi che di lettera in lettera si fan testo, un fraterno predisporsi a raggomitolarne in sé i vocaboli ch’esso racchiude nei fili d’inchiostro che ne hanno aggraziato la posa.

Dal latino traducĕre, «trasportare», approccio filosofico al significato del termine fu, nel trascendental pensiero di Martin Heidegger, il volervi intuire la funzione del trasferimento traduttivo che non sia fine a se stesso, ma una trasformazione letterale d’un vocabolo insieme alla quale, nel farsi da tramiti da una lingua all’altra, ci si renda disponibili a lasciarsi condurre con essa all’interno dell’elaborato, non raggiungendo pertanto la mera trasposizione di linguaggio bensì l’accompagnarsi ad essa con un sentire che sia in grado d’eviscerare dalle parole il loro senso evocativo universale. Un divenire interpreti che di mediazione emotiva faccian trampolino di lancio, un tradurre in affabilità e benevolenza, un miscelarsi fra concetti di chi si concede in dono al proprio mestiere in onestà di cortesia, ossia un predisporsi che non sia sgarbata gentilezza deputata ad uno sterile tradurre, ove al gentil sgarbo si dia connotazione d’un mite adoperarsi ad esclusivi fini lavorativi, ma di un’aggiunta soavità che di belle maniere si faccia ponte fra sentimento e penna.

Ecco dunque che il decifrare vocaboli viene ad assumere un valore poliedrico ed unanime nella misura in cui alla versatilità ad essi intrinseca si conceda la possibilità d’eruttarsi in variopinte sfumature che fuoriescano dai confini semantici arricchendosi in pathos, in una consapevole e responsabile nuova veste che conceda loro libertà piena d’espressione seppur in assoluta fedeltà all’accezione significante degli stessi. Un’abile ed artigiano giungere ad estrarre dalle parole la trasmissibilità che ne palpita all’interno, assorbendone il suono e rimusicandolo ai cuori umani, facendo propria la loro forza comunicativa ed espandendola ad ampio raggio su differenti culture.

Lo stesso Marco Tullio Cicerone, appassionato traduttore di oratori del calibro di Eschine e Demostene, tracciò nel tempo una magistrale linea traduttiva destreggiandosi magnificamente fra lessicalità e potere espressivo, creando un ponte fra concreto ed astratto, disciplina ed intelletto, in una sorta di trasposizione che divenisse reciproco dialogo in apertura totale, nell’intenzione prima d’omaggiare la lingua latina dell’oratoria greca. Colui secondo il quale «una stanza senza libri è come un corpo senz’anima», aprì dunque la propria sul mondo attraverso la scrittura, la parola, il pensiero, il concetto, l’idea e l’equilibrio con il quale seppe filare il tutto in magnanima capacità espositiva, sapiente ed impareggiabile arte scrittoria a tutt’oggi desumibile da qualsiasi sua opera dalla quale ci si voglia lasciar permeare.

Un rifacimento linguistico, il ciceroniano, potente, nobile, elevato, grammaticalmente corredante, mentalmente avanguardista, temporalmente rievocativo ed emotivamente impattante, un migliorante proporsi al mondo elargendosi ad esso tramite i propri scritti, un percorso esistenziale che, a cavallo dei secoli, ha fatto propria la fascinosa veste dell’intelligibilità che rende imperituri.

Vi è natura sacrale, nel dedicarsi al tradurre, ove il tal predisporsi sia intima consacrazione, una sacralità che congiunta all’ambito biblico esplode in grandiosa solennità, la stessa che San Girolamo (347 d.C. – 30 Settembre 420 d.C.), con estremo coinvolgimento, fermò su antica carta fra predisposizion d’animo e sapere.

Alla sua memoria è dedicata la Giornata mondiale della traduzione, istituita dalla FIT (Fédération Internationale des Traducteurs) dal 1953, ufficialmente riconosciuta nel 1991 e celebrata il 30 settembre in onore e corrispondenza, per l’appunto, della festa di San Girolamo, ritenuto il santo patrono di traduttori, studiosi, bibliotecari, archeologi, librai, pellegrini ed invocato dai deboli di vista, che traspose L’Antico Testamento, dall’ebraico e dal greco, al latino.

 

Tradurre: l’arte di ascoltare le parole

Afferrato il respiro natale a Stridone, nell’antica Dalmazia, attuale Croazia, Sofronio Eusebio Girolamo intersecò il quarto secolo d.C. in protetto contesto familiare cristiano, benessere economico del cui nucleo egli giovò nella scrupolosa e completa formazione scolastica in loco e conseguente perfezionamento degli studi entro romane mura, ove venne battezzato nel 366 d.C.

Bagno d’acqua al capo che suggello fu all’inversione d’edonistiche e mondane esperienze di giovinezza, in nascente avvicinamento all’ascetica inclinazione maturata in Roma, nutrita all’interno d’un gruppo di fervidi cristiani ch’egli frequentò trasferendosi ad Aquileia e definitivamente corroborata grazie ad una lunga permanenza in Oriente, nel deserto di Calcide, ov’egli scelse d’isolarsi per un lungo periodo, in anacoretica scelta meditativa che ne favorì l’intensità di studio e ne accrebbe la cristiana vocazione, definendone in maggior misura i mentali confini rispetto ai paganeggianti atteggiamenti a lui ormai distanti.

Successiva occasion d’approfondimento della lingua greca lo vide, nel 379 d.C., in quel di Costantinopoli, periodo in cui i testi del teologo e filosofo Origene e del vescovo e scrittore Eusebio di Cesarea, di lui spirituale estimatore, nonché studente della scuola dallo stesso fondata, divennero sue letture predilette, oltre a cultural traguardo da ritener significativa tappa d’apprendimento nel suo lungo cammino d’insaziabile studioso.

Nel 382 d.C., in successivo rientro a Roma, ormai lontano dalle frivolezze degli illusori piaceri terreni e precedentemente ordinato sacerdote dal vescovo di Antiochia, Paolino, ministero dal quale volle mantenere indipendenza dell’indole monacale, la frequentazione del papa Damaso I, di cui divenne consigliere e segretario e che nei confronti di Girolamo nutriva seria ed immensa stima, lo spronò ad avvicinarsi all’attività biblica, traslatando sulla lingua latina la perfetta conoscenza del greco, all’epoca necessaria per avvicendarsi nell’approfondita conoscenza della tal lingua ed ulteriormente rafforzato nel personal bagaglio linguistico ebraico che, in riflessivo e prolungato raccoglimento fra le calcidesi dune, egli ebbe a colmare a colpi d’assidua e motivata applicazione, nell’instancabile desiderio d’un insaziabile conoscere. Forgiato in un triennio di letture, approfondimenti, traduzioni e perenne apprendere, sentito desiderio d’avvicinar il femmineo universo della nobiltà allo studio della Bibbia, lo condusse a fondare il circolo biblico dell’Aventino, frequentato dalla romana aristocrazia, in particolar modo da nobildonne che in lui identificarono la guida spirituale da seguire, fra le quali Paola, santificata in seguito ed amicizia costante nella vita di Girolamo.

L’avvenuta morte di papa Damaso I, la successione di Siricio, a Girolamo meno amichevole ed i conseguenti contrasti con il clero per il dilagante malcostume dei prelati, ne reimpostarono l’errante passo in direzione orientale nel 385 d.C., conducendone corpo e pensiero in Terra Santa, simbolicamente in contatto con il Gesù terreno, di seguito in Egitto, patria ove vennero eletti numerosi monaci ed infine a Betlemme dove, nel 386 d.C, adagiò se stesso e le proprie riflessioni all’interno di un monastero maschile (edificato grazie alla munificenza della discepola Paola, oltre ad una parte femminile e ad un ospizio per i pellegrini) iniziando, un lustro abbondante dipoi, la traduzione dell’Antico Testamento in latino, dall’ebraico, original linguaggio differente rispetto alla versione in greco, denominata Septuaginta.

A tutt’oggi versione liturgica delle chiese ortodosse orientali, la Septuaginta ha origine dalla traduzione, in lingua greca, d’un testo in ebraico antico che si discosta leggermente da quello lasciato in eredità dal giudaismo rabbinico, cioè la tradizionale forma d’ebraismo priva di qualsiasi istituzione politica, nonché del culto templare, nata dopo la caduta di Gerusalemme sulle macerie del Tempio e simbolicamente rivincita degli ebrei della tribù di Giuda. Gli stessi che, da Nabucodonosor esiliati in Babilonia fra il 586 a.C. ed 587 a.C., in quattro dozzine annuali rimisero orgoglioso piede sulla propria terra, rigerminati nella fede che la cattività babilonese aveva obbligatoriamente deviato ad un approccio cultuale privo d’un sacro edificio di riferimento e rinvigoriti nel rito della Scrittura come caposaldo d’una nuova pratica devozionale. Spostamento dal Tempio alle sinagoghe che corrispose al passaggio di dottrina dai sacerdoti agli scribi, laici custodi della Tōrāh (orientamento primo della tradizione religiosa ebraica) nella sua forma scritta, unica riconosciuta dai sadducei, rappresentati dai più alti esponenti dell’aristocrazia, ai quali si contrappose una corrente di pensiero più concreta e d’umile origine, quella dei farisei, sostenuta da tutti coloro che, fidi osservanti agli insegnamenti della Tōrāh scritta, attuarono i principi nella quotidianità, dando vita a peculiari tradizioni e raccogliendo le stesse in una forma di Tōrāh orale, disconosciuta e rinnegata dagli stessi sadducei.

Un sacrale fluire di credo religioso che dall’oligarchico ambito sacerdotale, passando per correnti laiche, giunse a gestion di popolo. Farisaismo da cui il giudaismo rabbinico ebbe lenta origine.

La più antica versione in latino della Bibbia (dal greco βιβλ’ια, «libri»), la Vetus latina, ad opera di sconosciuti, venne effettuata sulla base della Septuaginta, versione greca nei confronti della quale Girolamo nutriva seri dubbi, motivo per cui la traduzione ch’egli ebbe a compiere, si svolse partendo direttamente dai testi ebraici, nonostante la parte riguardante i testi deuterocanonici, inseriti per volere della Chiesa, vale a dire quelli riconosciuti dal clero greco-latino, cattolico ed ortodosso, ma respinti dalla Comunione anglicana e dalle chiese protestanti, rimase riferita alla stessa Vetus. Dopo la rivisitazione traduttiva dei Vangeli, su mandato di papa Damaso I, Girolamo intraprese un’imponente opera di traduzione, durata 23 anni, dell’Antico Testamento, versione che fino al XX secolo sarà riferimento primo, periodo dopo cui frequente, viceversa, l’attenersi al testo masoretico, la versione biblica ebraica ufficialmente utilizzata dagli ebrei, diffusa da un gruppo d’eruditi e scribi definiti, per l’appunto, Masoreti.

Gli ultimi anni della vita che in dono gli fu concessa, lo videro saggio maestro, inesauribile  propugnatore del celibato clericale (imposto al clero il medesimo anno della sua dipartita da una legge dell’imperatore Onorio) ed acerrimo paladino della letteratura e del pensiero cristiano, spesso offuscato da movimenti eretici, ed in aperto contrasto con il Pelagianesimo, dottrina cristiana eretica secondo la cui visione il peccato originale non avrebbe ragion d’esser addossato ai discendenti d’Adamo ed Eva, bensì restare alla di loro sfera comportamentale circoscritto, sostenendo in tal modo il libero arbitrio dell’uomo come unica forma possibile di redenzione basata sull’individuale forza di volontà che sia perfettamente in grado di discernere il bene dal male senza intercessione divina, relegando dunque il ruolo del Messia a mero esempio da seguire, in assoluta libertà di scelta, oltre che figura divina alla quale rivolgersi esclusivamente a fini espiativi, in eventuale richiesta di perdono per i peccati commessi.

Le forti contrapposizioni fra Girolamo ed i pelagiani furono alla base del dubbio che, la distruzione del suo monastero e dell’annessa biblioteca, avvenuta nel 416 d.C. ad opera di taluni monaci, fosse malfatto degli aderenti alla tal dottrina.

Ulteriore evento che sulla vecchiaia del futuro santo stese un velo d’estrema afflizione fu il sacco di Roma, nel 410 d.C., arrecato dai Visigoti di Alarico I, sanguinosa e storica barbarie la cui furia, riversata sulla città per tre giorni consecutivi, ne devastò costruzioni private e pubbliche, violandone la fisicità e l’emotività dei cittadini e devastando i sacrali templi a Girolamo tanto cari. Razzia che al di lui cuore turbò il battito, legandosi a triste e ed angoscioso ricordo nel decennio a seguire, l’ultimo in cui egli graziò il mondo della sua presenza, fino al momento dell’ultimo scambio di respiro con l’atmosfera, che ne calò definitivamente le palpebre nella sua cella, accanto alla grotta della Natività.

Espiò nella carne, librando lo spirito al vento e lasciando in eredità all’umana stirpe la nobiltà del proprio animo, intrisa d’un sapere che ne guidò ogni passo, unita ad una capacità traduttiva che ancor oggi sorprende ed incanta, costruita sul paziente incedere di formica che, con zelante andatura, marciò fra parole come fossero briciole da annusare, gustare, tastare e riunire in un unico pane effondendone l’aroma, lumeggiandone la forma, stanandone il senso, ossequiandone il contenuto.

Scrocchiandone il suono.

«Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’uno contro l’altro (…)».

 

L’eredità di San Girolamo

Il traduttore è con evidenza l’unico autentico lettore di un testo. Certo più d’ogni critico, forse più dello stesso autore. Poiché d’un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante.
Gesualdo Bufalino

Fra le varie e parziali traduzioni della Bibbia in latino precedenti quella di Girolamo, un paio erano traduzioni complete, ovverosia l’Afra, d’africane origini e nella parte cristiana di tal continente utilizzata, e l’Itala, di matrice e diffusione occidentale, entrambe redatte ad opera di più e sconosciuti autori. L’incarico che Damaso I diede a Girolamo, si riferiva ad una traduzione biblica che partisse dalla rivisitazione dell’Itala, paradigmatica versione alla quale diffusamente ci si atteneva in quel periodo, a sua volta tradotta in lingua partendo dalla greca Septuaginta. L’innovativo approccio che Girolamo ne volle dare, partì dal personale presupposto di dover attingere dalla fonte linguistica originaria, al fine di trasformare parole e concetti nella maniera più leale possibile, giungendo al mirabile compimento d’un opera, la sua, denominata Vulgata all’inizio del XVI secolo da Erasmo da Rotterdam e consacrata in tal denominazione dal Concilio di Trento nel 1546: «Il Concilio di Trento (IV sess., 8 apr. 1546) “considerando che sarebbe fonte di grande utilità nella Chie­sa di Dio se risultasse quale fra le varie versioni latine in circolazione sia da rite­nersi per ‘autentica’, stabilisce e dichiara che nelle pubbliche letture, nelle dispute, nelle predicazioni e nelle esposizioni si ab­bia per autentica., senza che alcuno con qualsiasi pretesto osi o presuma rigettarla, questa stessa versione antica e diffusa ( = vulgata), che è stata approvata nella Chiesa col suo uso plurisecolare” (EB, 46)».

Dianzi, fra IV ed il V secolo, il termine Vulgata veniva riferito alla versione greca Septuaginta ed alla di lei derivazione latina; essendo inoltre che nella successiva versione geroniminiana alcune parti rimasero senza revisione alcuna di Girolamo, oltre alla necessità di far chiarezza sulla riferibilità delle denominazioni, la differenza di stile fra i vari libri suscitò notevoli dubbi, principalmente sollevati da biblici filologi che ne contestarono attribuzione e validità, ipotesi di non completa veridicità in parte sostenuta dagli stessi ebrei. Sarà la pubblicazione dell’ufficiale versione, avvallata dallo stesso Concilio di Trento nel 1592, durante il pontificato di Clemente VIII, e nominalmente decretata sola autentica Vulgata, a chiudere ogni questione in merito, fermo restando l’invito di alcuni teologi e cardinali a prenderne lettura in perpetuo riferimento, nel caso d’eventuali e sporadiche incertezze, all’originario testo ebraico.

Nella Giornata mondiale della traduzione, cenni storici ed elogio di un impegno ch'è innanzitutto, «arte e atto d’Amore», che si realizza nell'«eviscerare dalle parole il loro senso evocativo universale». (https://terzopianeta.info)
Vulgata clementina, 1592

Il toccante dono lasciato da Girolamo all’umanità tutta, surclassa tuttavia qualsiasi discorso formale, argomentativo e di contenuto, sfondando ogni confine con la pragmaticità esistenziale attraverso la quale egli seppe porsi in contatto con le proprie sfumature recondite, riconoscendo terreni limiti e lavorando costantemente su di essi nel bramoso tentativo d’ascendere al divino, senza per questo obliarsi d’essere un comun mortale, mai perdendo il contatto con la particolarità caratteriale biliosa che lo contraddistinse, vissuta altresì come occasion di miglioramento di se stesso che mirasse alla luce in attraversamento d’ombra. Uno spiritual tendere che di carnal corporeità seppe fare consapevolezza schietta dalla quale evolversi, un partire da un sé spiccatamente umano, miscelato ad una coscienza che di cristianità fece il traguardo da raggiungere, la parola da annotare, il messaggio da diffondere.

Si diede.

Si dedicò all’altrui ascesi considerando lo studio il mezzo primo d’arricchimento mentale, sposando ogni lettera affinché il minuzioso abbigliar vocaboli di nuova veste linguistica, fosse un reciproco confronto fra la sua capacità interpretativa ed il lettore, avvicinandolo alle Sacre Scritture dispensando inchiostro con ineffabile sapienza, stupefacente devozione, callida riflessività e vitale slancio filantropico.

Di frenetico temperamento, a tratti altero ed irrequieto, il fanciullo che in famiglia conversava in dialetto illirico, si fece ragazzo ed uomo nell’apprendimento che divenne passione e missione, abbinando letture teologiche, in ambito accademico, alle pagane nel tempo libero, saggiandosi in apertura di svariate porte interiori scegliendo quale spalancare sulla scia del concreto sperimentarsi, chiudendo le rimanenti alle spalle del passato trascorso.

La misericordia di Girolamo assume concreto valore nel suo non discendere dall’alto d’una sterile teologia avulsa dal quotidiano contatto con il popolo, mentr’egli fu in grado di proporsi come maestro d’un ascetismo che sui personali vissuti era sbocciato, partendo dalle proprie esperienze come fossero fili da intrecciare nella sequenzialità dell’evolversi, conducendo una gradual battaglia fra carne e spirito, a colpi di monachesimo, di cui si fece mezzo primo in un mistico superamento delle tentazioni che, solo in un secondo tempo, forte della vita macinata, volse a passional insegnamento.

La scrittura fu in lui il rifugio primo, il palpito da ascoltare, la nobile ballata in cui danzar con mano su orizzonti che sfondassero il confine dell’intellettualità ritenuta come diritto esclusivo dei potenti, egli ne bevve il nucleo del sapere istruendosi al fine di diffondere un mistico messaggio, tramite la parola e l’esempio, attraccando ai porti degli ultimi, dei peccatori, degli emarginati, cogliendo in loro l’abbandono degli animi ai quali tendersi nel desiderio di recuperarne la fede.

Autenticità e realismo che resero il suo operare magnanimo nella concretezza dei fatti, praticità comportamentale che lo vide adoperarsi all’istante dopo il saccheggio di Roma, accogliendo rifugiati in Terra Santa in quanto egli sostenne “ (…) oggi dobbiamo tradurre i precetti delle Scritture in fatti; anziché dire parole sante dobbiamo metterle in pratica”, saggiamente sdoganando la scrittura dall’elitaria morsa della concettualità fine a se stessa.

Il suo tradurre fu un Amare, un fondersi, un rinascere dall’origine dei termini ai quali rettamente votarsi in assoluta dedizione e riguardo, un puro, ardente, soave, romantico e celestiale partorirsi in esse in rivoluzionario stravolgimento di criteri e metodi. Dell’applicazione ad ampio raggio secondo principio della linguistica restituzione ad sensum, ove la concordanza con l’idea intrinseca, prevalse sulla forma grammaticale, una fuga dell’eccessivo letteralismo, nonché dalla banal retorica e dall’eccessiva raffinatezza di vocabolo, di cui Gerolamo fece un modus operandi splendidamente complementare ad un modus vivendi ch’egli introiettò, radicò e ramificò, eruttandone unicità fra penna e battito, nel cristallino esporsi al mondo ed al prossimo, in variabilità di ceti sociali, in veracità e sostanza, le stesse che, adagiate fra lettere nella Vulgata, ne hanno esploso l’impareggiabile magnificenza, espansasi, oltre al religioso, in ambito  culturale, artistico e letterale, divenendo nei secoli fondamento primo della cultura cristiana occidentale.

Iconograficamente, San Girolamo viene rappresentato in due immagini prevalenti, l’una in veste da cardinale e Vulgata alla mano, la seconda in fase eremitica nel deserto o nella grotta di Betlemme, in quest’ultima con il cappello cardinalizio, il galero, buttato in terra a metaforizzare la sua rinuncia agli onori. Simbologia oggettistica appare nelle raffigurazioni d’un crocifisso, in segno di devozione, d’un teschio, metaforizzante la penitenza, e di una pietra che Girolamo era solito utilizzare per battersi il petto.

Non di rado vien raffigurato un leone, ricollegabile alla Legenda Aurea, 1298, medievale raccolta, in lingua latina, di biografie agiografiche (l’insieme di testimonianze riferibili alla vita di un santo) ad opera del frate domenicano ed arcivescovo di Genova, Jacopo da Varazze, nel 146mo capitolo della quale, al nome De sancto Hieronimo, vien narrata la Leggenda del leone, ove si narra d’un leone ferito che giunse al monastero di Girolamo. Di fronte allo spavento generale di tutti i presenti, il coraggio ed il buon cuore del futuro santo lo indussero ad accudire il dolente animale, scoprendo esser stato un rovo ad averne dilaniato la zampa. Risanato, lo stesso leone rimase nel monastero, a custodia dell’asino del convento, sennonché un giorno, durante l’accudimento, il leone s’addormentò e l’asino fu prelevato da taluni mercanti. Di rientro al monastero, la malfidenza dei monaci li portò ad accusare il leonin quadrupede d’aver divorato l’asino, addossando lui le faticose mansioni fino ad allora svolte dallo scomparso equide. Casualmente rincontrando i marioli mercanti in carovana, il leone riconobbe l’asino e, con feroce ruggito, se ne riappropriò, mettendo in fuga i delinquenti e ritornando al monastero con annessi cammelli e mercanzia. Al ritorno dei furfanti in pietosa richiesta della propria merce, Girolamo optò per la giusta restituzione della stessa, raccomandando loro di non cedere nuovamente alla tentazione del furto.

La maturità, il benigno agire, il coraggio, il buon cuore, la predisposizione al prossimo e la ragionevolezza di Gerolamo, passano anche dalla raffigurazione pittorica del suo levar la spina dalla zampa dell’animale fratello, a testimonianza d’una capacità d’Amare che trascende tempo e dimensione, arricchendo nel profondo.

Nella Giornata mondiale della traduzione, cenni storici ed elogio di un impegno ch'è innanzitutto, «arte e atto d’Amore», che si realizza nell'«eviscerare dalle parole il loro senso evocativo universale». (https://terzopianeta.info)
San Girolamo nel deserto, Bartolomeo ‘Montagna’ Cincani (olio su tavola, 1500-1502)
Nella Giornata mondiale della traduzione, cenni storici ed elogio di un impegno ch'è innanzitutto, «arte e atto d’Amore», che si realizza nell'«eviscerare dalle parole il loro senso evocativo universale». (https://terzopianeta.info)
San Girolamo, Michelangelo Merisi da Caravaggio (olio su tela, 1605-1605)

 

La poetica dei vocaboli

Senza la traduzione abiteremmo province confinanti con il silenzio.
George Steiner

Leggendariamente indietreggiando nel tempo per agganciar l’origine delle traduzioni, la Torre di Babele non potrebbe che essere l’allegorico primo passo nel linguistico traduttivo; biblica narrazione contenuta nella Genesi e rappresentante l’ambizione umana di raggiungere il divino e dallo stesso punita nella frammentazione in più lingue dell’allor linguaggio unico. Realisticamente discorrendo, le traduzioni accompagnano l’uomo fin dai tempi più antichi, proponendosi come divulgazione d’un ristretto conoscere da espandere sui popoli che non sia meramente letterale, bensì propositivo d’uno scambio di conoscenze e culture che ammorbidisca i confini mentali arricchendone i bordi.

Ove il tal tradurre sia stato inteso come un sensibile recepire l’anima d’un testo non compiacendosi dell’essenziale traduzione formale, svariati interrogativi son sorti sull’effettiva possibilità ch’essa abbia d’esser ritenuta valida, contrapponendo pareri spalmati nei secoli da erudite menti ed altrettanti autori, uno su tutti Dante Alighieri la cui opinione, come si legge nel Convivio (dogmatico ed argomentativo saggio composto, su svariati temi, in principio esilio ad intento universalmente divulgativo) affermava: «E però sappia ciascuno che nulla cosa, per legame musaico armonizzata, si può della sua loquela in altra trasmutare, senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Muse ch’egli ebbe ad invocare nel proemio delle prime due Cantiche, in amorevole richiesta d’assistenza poetica, da qui il perenne dilemma se, a favor di fedeltà, le poesie sian da tradursi in prosa o poesia stessa, secolare antinomia a fini chiarificatori sull’effettiva potenzialità dei traduttori.

Nella Giornata mondiale della traduzione, cenni storici ed elogio di un impegno ch'è innanzitutto, «arte e atto d’Amore», che si realizza nell'«eviscerare dalle parole il loro senso evocativo universale». (https://terzopianeta.info)
Torre di Babele, Pieter Bruegel (olio su tavola, 1563)

Facoltà che, al di fuori di ogni diatriba e non circoscritta alla sola poesia, preziosa risorsa diviene nella misura in cui il vero proposito d’un testo, il suo significato e la sua valenza, giungano alle menti e da lì, in emozionale rielaborazione, virino planando sui cuori, tessendo una tela sulla quale improvvisarsi pittori che fra pennellate di conoscenza, pathos, morfologia, ascolto, sintassi e lettura, osino un dipinto introspettivo in aggancio all’autore tramite l’interprete. Ritornando in settoriale esempio al dantesco Convivio, legame al fiorentin poeta si suggella nel momento in cui la trasmutazione del testo riesca ad eviscerarne l’evoluzione di pensiero riferita alla salvezza dell’anima non più considerata raggiungibile attraverso il sentimento amoroso, bensì tramite una mistica ascesi raggiunta partendo dalla filosofia e dal sapere, indagando la realtà col sol mezzo della ragione, in ricerca della verità. È appunto partendo dalla comprensione della conoscenza ritenuta da Dante come unica possibilità di salvezza dell’anima, che il traduttore potrà indossarne la espressioni ed intraprendere un percorso di capovolgimento linguistico, in una sorta d’immedesimazione in cui concetto, grammatica, senso, suono, sensazioni e musicalità, si fan strumenti fra le mani di colui che, in qualità d’artista del percepire, ne originerà melodia al di là di qualsiasi disputa di fondo, quasi che la capacità di rimodellare scritti di vario genere vada ad inserirsi tra arte e scienza, significato e stile, ovviamente partendo da uno spesso e cultural zoccolo conoscitivo, ovviamente indispensabile, parallelamente plasmandosi negli altrui discorsi fra disponibilità intellettiva, libertà di pensiero ed affettivo slancio.

Al presente, l’opera traduttiva assume una valenza più ampia, destinata a fuoriuscire dai testi come insieme d’interpretazioni e valutazioni che s’inseriscano nel panorama mondiale fra globalizzazione e senso d’appartenenza, districandosi su più livelli che non manchino di tener presenti aspetti ideologici, politici, religiosi e culturali, impegnandosi nel mantener vivo un approccio artigiano che sia allo stesso tempo complementare ad una larga e cosciente presa in considerazione delle differenti civiltà. Un’ottica riguardosa nei confronti dei confini territoriali sui quali non intersecarsi polemicamente, ma in flautata predisposizione ed intento divulgativo che abbandoni il pregiudizio, a favor dell’incontro che origina dal privilegio di poter assumere un ruolo esplicativo non esclusivamente ad litteram, ma comprensivo ed accoccolante l’individuale valore d’ogni uomo, in Amor di parole.

Amor di parole tristemente bistrattato dalla tecnologica messaggistica attuale, un vero peccato, uno sgarbo ai tempi che furono, ai poeti, agli autori, ad ogni lingua madre che nel suo abbraccio permise alla comunicazione di concretarsi nella bellezza del suo potere d’interazione. Un lento scivolar in termini monchi, miseramente abbreviati nell’ansiosa brama d’utilizzar il linguaggio nella sua forma più essenziale, quando il dedicar manciate di secondi ad un vocabolo, ad un termine ed ai suoi sinonimi, ad un verbo ed alle sue coniugazioni, dovrebbe emozionare, appagare, completare, elevare, dare un senso all’impegnarsi nel conservare avidamente l’antropologica capacità di scrivere e conversare. Meraviglioso sarebbe dunque intraprendere un cammino a ritroso che fra mura domestiche trasmetta il valore di ciò ch’è stato tramandato nei secoli, un balzo nell’antichità che cupidamente si faccia custode del bel parlare, del suono ch’ogni discorso vibra sulle menti, dell’effluvio ch’ogni pagina di libro infonde alle narici, in emozionale connessione con coloro che nel passato, protagonisti si son resi di manoscritti, narrazioni e poetica, lasciando che il loro struggente amoreggiar con gli alfabeti del mondo scivoli nelle vene e lì continui a scorrere, denso, magnetico, caldo, infinito, fino a perpetrare in ogni strato dell’animo migliorando le sembianze, affinando i lineamenti, adagiandosi negli sguardi.

Il volto è lo specchio della mente e gli occhi senza parlare confessano i segreti del cuore.
San Girolamo

 
 
 
 

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