Stato e mafia, le verità nascoste
A pochi giorni dal ricordo della strage di via D’Amelio, non può che far male sentire le dichiarazioni rilasciate in più occasioni da Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato che con Falcone, rimane simbolo della lotta contro la mafia.
Parole forti, colme di dolore per una verità che non è mai arrivata.
Una verità, forse, mai voluta.
Ed è solo il dubbio dell’avverbio che ha permesso fino ad oggi di rimaner attaccati ad una seppur flebile speranza, di continuare a provare rancore e disgusto nel vedere volti come quelli di Salvatore Riina.
«Sono stati buttati via 25 anni, anni di pentiti costruiti con lusinghe o torture», queste le parole della figlia minore di Paolo Borsellino al termine dell’audizione all’Antimafia, denunciando che «ci doveva essere una vigilanza maggiore sui processi e sulle indagini fatte» e chiedendo «scusa agli innocenti che sono stati condannati all’ergastolo».
Aveva già parlato Fiammetta Borsellino in ricordo della strage di Capaci e le sue furono parole ben precise:
“Dobbiamo dire da che parte stiamo […] dobbiamo pretendere la restituzione di una verità, non una verità qualsiasi […] Una verità che dia un nome e un cognome a quelle “menti raffinatissime”, come mio padre stesso le ha definite, che con le loro azioni ed omissioni hanno voluto eliminare questi due servitori dello Stato, quelle “menti raffinatissime” che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione”
Purtroppo non c’è nulla che sorprenda, Falcone e Borsellino non erano amati come spesso si vorrebbe dire oggi, molte sono state le accuse, le critiche e gli ostracismi.
Basterebbe ricordare quando a gennaio del 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura, preferì per “anzianità” e non per competenza, Antonino Meli successore di Antonino Caponnetto, anziché Giovanni Falcone. Scelta che lo stesso Caponnetto dichiarò essere figlia di «cinque vergognose, letali, astensioni e due voti di maggioranza».
Regola di “anzianità” che non fu rispettata dal C.S.M. quando nominò Procuratore Capo di Marsala Paolo Borsellino, tanto che tale decisione fu biasimata anche da Leonardo Sciascia con il noto articolo apparso sul Corriere della Sera dal titolo “I professionisti dell’antimafia“, nel quale si leggeva che «nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso», dando vita a polemiche mai sopite.
Il Maxi-Processo era in pieno svolgimento e allora come oggi, l’opinione si divise tra chi affermava che si trattasse di una critica al solo C.S.M (come affermò in seguito Sciascia) e chi lo considerò come un attacco diretto a Borsellino.
Resta il fatto che quest’ultimo, ricordando Giovanni Falcone in quel suo ultimo discorso tenuto il 25 giugno 1992, sentirà il dovere di tornare a circostanze avvenute proprio quattro anni prima, con dichiarazioni tanto forti quanto nette, molte delle quali, ribadite più volte:
“E’ vero quello che dice Antonino Caponnetto, perché oggi tutti ci rendiamo conto qual è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1 gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, che bollava me come un professionista dell’antimafia”
Tanti anni scanditi da applausi, onori e commemorazioni che non hanno spezzato il silenzio sull’ennesimo mistero svelato ancor prima d’esser raccontato, ma che tale rimane perché come al solito mancano i protagonisti. Tante comparse, ma gli attori non si trovano.
Non esita a cercarne Fiammetta Borsellino, fa nomi e cognomi nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, anticipando inoltre che avrebbe (come poi ha fatto), consegnato alla commissione Antimafia «inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio».
“Una Procura Massonica”
In riferimento ai quattro processi di Caltanissetta, i nomi sono quelli di una Procura definita «massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…»
Nino Di Matteo, è un colpo duro per non sentir esitare le gambe, ma verso di lui Fiammetta Borsellino accenna un passo indietro, altresì affermando una verità indiscutibile «Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».
Un Nino Di Matteo che chiamato in causa, sembra infatti avallare dubbi e volontà della figlia del magistrato, come di chiunque:
“Bisogna rispettare la memoria di Paolo Borsellino e il dolore dei familiari, io so e tanti sanno, fuori e dentro la mafia, fuori e dentro le istituzioni, chi in questi anni ha continuato a cercare la verità sulla strage e si è esposto e ha esposto la propria famiglia a rischi gravissimi sacrificando la propria libertà e anche la carriera […] Il problema non è soltanto il depistaggio ma capire i tanti elementi concreti emersi in 25 anni di inchieste e capire se insieme a Cosa Nostra hanno agito ambienti esterni, forse anche istituzionali”
Pubblico Ministero della “Trattativa Stato-mafia“, Nino Di Matteo indaga sugli omicidi di Falcone e Borsellino, nonché di Chinnici e Saetta ottenendo per questi la condanna dei cugini Salvo e infliggendo il primo ergastolo a Riina.
Investigazioni quelle fra Stato e mafia, che lo porteranno ad intercettare telefonate tra l’indagato Nicola Mancino e Giorgio Napolitano. Benché Di Matteo dichiari che tali registrazioni non sarebbero state usate in sede processuale, dal Quirinale verrà dato ordine di distruggerle, richiesta esaudita nel 2013 e preceduta da contestazioni mosse da ciò che era visto come un “conflitto di attribuzione”.
Un anno dopo, Di Matteo viene sollevato dalle indagini sulla mafia.
A far da eco alle parole di Fiammetta Borsellino, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Le indagini su quella strage sono state segnate da troppe incertezze ed errori. Ancora oggi tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare alla giusta condanna i responsabili di quel delitto».
E tutto sembra una storia già vista, un film senz’attori né titoli di coda, una fine mai scritta, forse, mai voluta.
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