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Il Sole, una luce per capire se stessi e la felicità

Il Sole e la vita, Frida Kahlo, 1947

 
 

In mezzo a tutti sta il sole. Chi infatti, in tale bellissimo tempio, metterebbe codesta lampada in un luogo diverso o migliore di quello, donde possa tutto insieme illuminare? Perciò non a torto alcuni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri reggitore. Trismegisto lo chiama Dio visibile, Elettra, nella tragedia di Sofocle, colui che tutto vede. Così, per certo, come assiso su un trono regale, il sole governa la famiglia degli astri che gli fa da corona.
Niccolò Copernico

Stella madre del sistema solare, centro di rotazione dei pianeti, custode di energia, potenza e luminosità infinite, da secoli il sole attrae a sé il pensiero dell’uomo come l’ape il fiore. Simbolo di forza, donatore di vita, immagine di splendore fattosi divinità nei popoli antichi, mistero da decifrare nel suo rapporto lunare, ha stimolato menti di filosofi, ispirato penne di poeti e tinteggiato pennelli di pittori. Dal suo intenso sguardo d’ocra ha originato, nutrito e protetto l’intero Pianeta, ferito purtroppo dall’egocentrismo degli stessi uomini ai quali ha donato calore. Generoso a tal punto da offrirsi senza remora alcuna, il suo esser magnanimo e fulgente oltremisura l’ha reso, nei secoli, astro supremo per eccellenza, maestosa supremazia che lo stesso Dante Alighieri ha in lui riconosciuto nel sostener che «non esiste cosa visibile, in tutto il mondo, più degna del sole di fungere da simbolo di Dio, poiché esso illumina con vita visibile prima se stesso, poi tutti i corpi celesti e terreni».

Affascinante, ballerino, camaleontico, timido nelle albe, dolce e rovente d’animo nelle acque marine, danzatore sul tempo e lanterna di vita, lui, unico esemplare di vigoria a tutto tondo, ha ispirato leggende, solleticato sogni, ricamato poemi e turbato pensieri, ‘gialleggiando’ su tele ed orizzonti, costante nel suo ciclo a bordo terra ed in perenne girotondo con la sua luna.

 

Il Sole nella poesia e nell’arte 

Raffigurato su terrecotte e piastrelle, ricamato su tessuti ed impreziosito nei ciondoli, viso giallo sorridente nei disegni fanciulleschi, la sfera solare ha colpito l’animo più profondo degli artisti in genere.

È nel suo Inno al sole che Pablo Neruda, uomo caliente ed appassionato, animo ritroso ed inchiostro sanguigno, renderà ode al tondo infuocato, percependone forza, ardore e valenza emotiva quasi paterna. Sarà poi sull’armonia fra ombre ed emozioni che, con delicata scrittura, la romantica penna cilena adagerà luce solare in ode alla maturità dell’amore, quella passione travolgente, di carne e spirito, che purezza di sentimento si può definire nel rispetto delle differenze.

Due amanti felici fanno un solo pane,
una sola goccia di luna nell’erba,
lascian camminando due ombre che s’unisco,
lasciano un solo sole vuoto in un letto.

Di tutte le verità scelsero il giorno:
non s’uccisero con fili, ma con un aroma
e non spezzarono la pace né le parole.
È la felicità una torre trasparente.

L’aria, il vino vanno coi due amanti,
gli regala la notte i suoi petali felici,
hanno diritto a tutti i garofani.

Due amanti felici non hanno fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.
(Due amanti felici)

Impressione, levar del sole di Claude Monet, Il seminatore, Ulivi con cielo giallo e sole e ancora Il mietitore di Vincent Van Goh, nelle cui campagne par di sentirne il tepore dei raggi sulla pelle, Le soleil rouge di Joan Mirò, Sole sul cavalletto di Giorgio de Chirico, Sole e vita di Frida Kahlo, Summer night by the beach di Edvard Munch, Campo di grano in un pomeriggio d’estate di Marc Chagall, sono solamente alcune (volendo attuare una scelta forzata e profondamente ingiusta nei confronti dei non citati) delle sfere solari portate alla luce da dipinti di eccelsa maestria.

Tonalità dorate che, nel rapporto ravvicinato fra sole e luna, donano agli umani sguardi lo spettacolo di un sole oscurato che, nell’estemporaneità del contatto fra astri, antichi pittori ebbero la capacità d’interiorizzare ed esternare cromaticamente ad interno cornice.

Scaturendone prime raffigurazioni nel basso Medioevo dalle pennellate dell’artista fiorentino Taddeo Gaddi (1300 circa-1366), di Giotto allievo prediletto, proseguendo a fil di setole, con un salto di due secoli, in pieno Rinascimento, nella maestria pittorica di Raffaello (1483-1520), balzando fra colori, nel 1842, sulle nuances ad olio di Ippolito Caffi (1809-1866), la prima fedele riproduzione della corona solare durante un’eclissi, tocca però l’abile mano del pittore statunitense Howard Russel Butler (1856-1934), concretizzandosi in un trittico di spettacolare realismo. I dipinti, capolavori indiscussi, oltre che preziosi riscontri in ambito scientifico, rappresentano tre diversi eventi, rispettivamente alle date del 1918, 1923, 1925, riportando macchie solari con tratto estremamente preciso, addirittura maniacale, richiudendo la loro meraviglia in forme reali e dettagliate, scaturite da una zelante ed instancabile osservazione della palla di fuoco ed effigiate in opere d’attuale interesse astronomico.

Maestri di pennello d’incredibile capacità riproduttiva e di proporzione, sapienti giocolieri di colori, abili rivoluzionatori di tinte ai quali donare un inchino in segno d’ammirazione, perlopiù in epoche in cui lo zampino digitale, oltre che lontano, avrebbe reso semplicemente meno reale la bellezza delle opere stesse.

 

Il significato del Sole nelle diverse culture

D’indiscutibile valore simbolico ad ampio spettro, il sole nero, il teutonico Schwarze Sonne, assume un significato d’importanza primaria nella runologia esoterica, riportando all’antico sciamanesimo druidico ove lo stesso, rappresentato come disco oscuro in atto d’eclissi solare, si pone, nel fascio di luce che emerge dal suo bordo, a trascendental metafora della condizione umana, intesa come perenne rapporto fra mente, spirito e natura.

Sembra invece ricollegarsi ai dischi decorativi del popolo dei Merovingi, prima dinastia dei re franchi, in antico periodo medievale, la raffigurazione del sole come ruota solare a dodici raggi, riferiti alla mensil dozzina annuale. Di cosiddetta “ruota solare”, spesso citata come Sonnenrad, esiste un mosaico nel Castello di Wewelsburg (Büren, Germania), la cui ristrutturazione sarà ardentemente voluta dal gerarca, militare e politico Heinrich Luitpold Himmler (1900-1945), il quale, ritenendo il tal luogo un potente nodo energetico, lo rese roccaforte ideologica del Terzo Reich. Il castello, a tutt’oggi, oltre che ostello per la gioventù, ospita un museo storico a memoria dei crimini nazisti.

Uno spettacolare Crop Circle di oltre 100 metri di diametro, rappresentante un sole nero a dodici raggi, è apparso in un campo a Drove (Wiltshire, UK).

Definita Madre Terra e considerata come portatrice di misteriosi messaggi all’umanità, da interpretare al fine di migliorare le proprie condizioni di vita, la Natura, per gli antichi Celti, era venerata ed idolatrata, in particolar modo, nei fenomeni celesti. Non per niente, dal soffitto azzurro giunsero Fetonte, figlio di Apollo, che volle guidare il “carro del sole” e la Gemma verde (il Graal), smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero e raccolto dagli angeli, scavato a forma di calice, riportato all’Eden e, recuperato da Ermete Trimegisto, riapparso misteriosamente nelle mani del Cristo che vi bevve il vino nell’Ultima cena. Lo stesso Fetonte sarà il principale ispiratore della Kemò-Vad, forma dinamica di meditazione secondo la quale il sole e la luna rappresentano “il pieno” ed “il vuoto”, allegoricamente interconnessi al significato più recondito attribuito al rapporto fra mente e spirito. Nella filosofia Kemò-Vad, la figura di un tondo nero con raffigurato al suo interno, in bianco, il gesto stilizzato delle braccia congiunte al petto, denominato No-Tah, racchiude simbolicamente l’unione del vuoto e del pieno, nella ritualità dell’abbraccio stesso.

L’eclissi solare resta, più di altri eventi, il fenomeno di maggior spessore nell’esperienza mistica che ogni popolo ha interpretato secondo differenti culture, dalle quali hanno avuto origine, nei secoli, numerose leggende avvolte di mistero.

Fra le tante (draghi e demoni ne son spesso protagonisti), curiosa resta l’antica convinzione dei Vichinghi che sole e luna fossero inseguiti e divorati da cani celesti con conseguente oscuramento, fenomeno che, in Vietnam, vede nella figura del rospo il predatore principale. In Togo ed in Benin, il popolo dei Batammaliba crede, ancora oggi, che sole e luna si eclissino a causa di un litigio fra loro e che la gente stessa li sproni alla riappacificazione, interpretando il momento “di copertura” come occasione di rinnovo e catarsi.

A parer di Jarita Holbrook, studiosa di cultura astronomica presso l’University of the Western Cape di Bellville, Sudafrica, l’eclissi solare è una “rottura dell’ordine” che destabilizza, affascina, stimola, rincuora, terrorizza e altro ancora, a seconda dell’approccio culturale con cui viene vissuta. D’idea simile E. C. Krupp, direttore del Griffith Observatory di Los Angeles, California, secondo il quale «Con poche eccezioni, si tratta sempre di una rottura dell’ordine costituito. L’uomo dipende dal movimento del sole. È regolare, affidabile, non lo si può manomettere. Poi, all’improvviso, ecco la tragedia: il tempo va fuori sesto, il Sole e la Luna si comportano come non dovrebbero».

Un disordine di forza maggiore a cui porsi naso all’insù, uno scompiglio sopra ogni testa da cui sarebbe bello lasciarsi spettinare l’esistenza, al di là significati onirici, leggende o spiegazioni scientifiche, rendendosi spettatori di una storia nel quale leggere la propria e provando a tuffarsi dentro l’oscurità nella sua valenza positiva, quella necessaria al conoscersi fino in fondo.

 

Sfidare se stessi in un istante di felicità

Potrebbe dunque esser che scender nei propri coni d’ombra sia occasione d’arricchimento e rinascita, un giungere a solleticar inclinazioni intorpidite, ricolorar sfumature attenuate e rinvigor passioni raggrinzite.

Cercando istanti di felicità, in un certo senso.

Costa fatica la felicità, quella di tutti i giorni, quella degli attimi, così minuscola, così preziosa, così nutriente; la sua ricerca presuppone la volontà d’individuar zavorre esistenziali ed alleggerirsene, ove possibile, senza timor di giudizio alcuno, nella quotidianità degli eventi, per l’appunto, attuando scelte di pensiero e comportamento talvolta scomode e fuori linea. Restar sereni adeguandosi, risulta tuttavia la scelta più semplice, ma la serenità non dà sussulti, seppur meno intermittente, maggiormente costante e garante di un percorso più lineare, ma, non di rado, intriso di rinunce eccessive.

Di fondamentale importanza risulta essere, in un’ottica educativa, l’attitudine alla rinuncia, qualora la si voglia intendere come positiva e salutare inclinazione al non tendere universalmente al desiar il tutto, condizione, quest’ultima, irrealizzabile a priori e pertanto intrinseca d’insoddisfazione nella sua stessa origine. Si desidera ad oltranza, senza limite alcuno, sennonché il limite stesso stia nel desiderare ad oltranza. Un paradosso comportamentale in cui è bene non incombere, pena, un perenne stato d’inappagamento che la ricerca della felicità assoluta, ben diversa dalla felicità delle piccole cose, oltre che inesistente, rende orizzonte utopico con frustrazion d’animo inevitabile. Diverso è, se la rinuncia prende il timone, impedendo virate, attraccando ogni volta al porto più sicuro e non esponendosi oltre boa. Rendendo l’orizzonte un panorama lontano, da cartolina, in una sorta d’autoprotezione che porti a convincersi che il non esporsi ed il conseguente non combattere per se stessi, arrivino a coincidere con uno stato di benessere.

Certamente. Mai si nuota. Mai si annega.

Si galleggia. Senza onde.

Una calma piatta, insomma, che a lungo andare appiattisce dentro.

Ecco allora che gli attimi di felicità, un dopo l’altro, si annidano, si assopiscono, restando avvinghiati al sé più intimo, in penombra, dormienti, quasi in un groviglio emozionale di sensazioni ridottosi in stand by. Un peccato, considerando quanto poco tempo richiedano per manifestarsi.

Li si può trovare ovunque, in una melodia, dentro un libro, fra le pennellate di un dipinto, nella stesura di un racconto. In un raggio di sole sul viso. Passeggiando, cantando, ballando, condividendo una risata o, ancora, nel baleno che intercorre scambiandosi un sorriso ed un buongiorno.

Nei rapporti umani, quelli da selezionare con cura per dedicare il proprio tempo a chi lo merita, imparando a negarsi, di tanto in tanto, trovando il coraggio d’amarsi un po’ di più e provando a scegliere per sé, ove l’alternativa sia possibile. Scriveva saggio, Trilussa: «C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa».

Nella relatività concezionale del tempo, esiste un’oggettività di durata giornaliera alla quale rubare un piccolo pezzo. Ladri di tempo, seppur infinitesimale, tutto da dedicarsi, per un percorso vitale più soave, leggero, libero. Nell’inevitabile permanenza di problematiche e difficoltà quotidiane, ogni istante di piccola felicità sfuma l’esistenza di armonia.

Che la gratificazione implichi un passo in avanti, lasciando qualcosa, lo si sperimenta fin dal primo vagito. Il neonato abbandona l’utero materno così come la madre si adopera affinché la propria creatura esca da sé, percependo entrambi una sensazione nuova, di smarrimento, una “pseudoastinenza da simbiosi” nel non esser più un tutt’uno. Paradossalmente, la vita li unisce separandoli. Il primo attimo di felicità fa capolino in quell’istante. Un carpe diem altalenante, che l’esperienza stessa della crescita permetterà di scovare fra traguardi ed ostacoli.

Fin dalla più tenera età, l’infante sperimenta il proprio desiderio d’autonomia a cavallo d’esperienza, raggiungendo ogni step evolutivo fra limiti, concessioni, salutari frustrazioni e gratificazioni conseguenti al raggiungimento di ogni obiettivo. La lettura di fiabe, in particolar modo le classiche, resta stimolo cognitivo della fantasia per eccellenza, lo strumento per antonomasia grazie al quale, ad ogni fanciullo, viene offerta la possibilità d’immedesimarsi in duelli, situazioni di pericolo, sfide e prove di coraggio; impavidi atteggiamenti che, traslati inconsciamente sulla realtà, ne stimolano l’attitudine al sacrificio in vista di uno scopo ben preciso, rendendolo lentamente consapevole della necessità di non abbattersi di fronte agli imprevisti, imparando gradualmente a considerare gli stessi come parte ineludibile dell’esistenza. Parlano poi il linguaggio dell’amore, i racconti fiabeschi, un sentimento condiviso che, solitamente, i protagonisti si donano a vicenda, completandosi.

Un amore che idealmente dovrebbe essere equilibrato ed equidistante.

Si ama poiché ci si ama.

L’amar se stessi, a condizion che tal atteggiamento non scivoli nell’edonismo, resta la miglior forma d’amore possibile. Se amarsi all’eccesso atrofizza lentamente la capacità d’amare, pur vero è che amandosi al difetto, si corre il rischio d’amar oltremisura, svilendosi. Amar se stessi nella giusta misura rende inclini a donare amore e il dono dell’amore è la più sublime forma d’arte che possa esistere.

Un’euritmia di cuore, una nuance del proprio sentire da tatuarsi a bordo anima.

Quasi una fiaba, per chi abbia il privilegio di viverla, ove la ricompensa finale non consista nel mero raggiungimento di un obiettivo, ma nell’aver saputo credere in se stessi e nei propri sentimenti, leggendosi dentro e specchiandosi l’un l’altra.

Nel rispetto di ogni riflesso.

Ne originerà un amore puro e cristallino. Completo.

Unico.

Parrebbe dunque un romanzo da leggere e assimilare, il sole, una piccola storia da abitare, quasi fosse una casa, una finestra sulla quale appoggiare i gomiti e guardarsi dentro con leggerezza, percorrendosi i corridoi, arredandosi stanze ed appendendosi quadri sul cuore nella maniera più consona al proprio sentire.

Un racconto non è tanto una strada da seguire, è più come una casa. Ci entri e ci stai per un po’, vagando avanti e indietro, fermandoti dove ti piace, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre.
Alice Munro

 

L’onirica danza del Sole e della Luna

Trovai scritta, la storia d’un sole curioso e che volle provar a danzar nella notte.

Giunse dunque nel cielo notturno di una città meravigliosa, ove altissimi palazzi dalle pareti argentate si ergevano maestosi, pulsando, dalle innumerevoli finestre, una luce calda, densa, avvolgente. Puntò dritto al cielo, nel punto ove era solita star la luna a quell’ora. Ne vide una seconda, sconosciuta, piacevolmente stupito, si bloccò. Sebbene con gradevolezza illuminato dalla sua luce gentile, affabile, pacata, volse a lei sguardo sorpreso, le sorrise e tornò al giorno. L’istante del contatto lo accese di bei pensieri, mai si era sentito scaldar di simile garbatezza e raramente aveva percepito un tal calor di petto.

Nei mesi a seguire, titubante, la osservò a bordo mondo, intersecando con lei dolci canzoni e timide poesie. Si rese conto, col passar del tempo, di conoscerla e riconoscerla, quasi fosse capitato che potessero esser nati uniti e staccati come si staccan le figurine e poi, in seguito, incollati su album differenti.

Restando a loro insaputa complementari.

Un pomeriggio di Marzo, a fil di primavera, la luna disse lui d’aver letto in un libro la storia dei suoi raggi ed aggiunse d’aver voluto attendere un giorno per gistarne l’essenza con calma, quasi come chi s’accosti con brama alla lettura davanti ad un caminetto. Quel giorno d’attesa, quel vestir parole d’amabilità e quell’affetto puro, essenziale, che trapelava dai vocaboli lunari, sconvolse il sole a tal punto da esploderne dentro l’energia dell’universo tutto.

S’innamorò in un battibaleno, nemmeno il tempo di rendersene conto.

Si susseguirono discorsi fitti a distanza, chiacchierate intense e risate a squarciagola. Fu un domino di piacevoli prime volte da vivere con la spensieratezza degli infanti, tassello dopo tassello, senza domande, a cuor leggero e con un pizzico di follia. Fin che i battiti non stettero più nei cuori ed il sole desiderò cavalcar la notte per raggiungere la luna che sentiva sua, sentendosi suo egli stesso, d’un appartenenza arcaica, primitiva, antica.

Giunse nella notte alla velocità d’un treno.

Timoroso d’accecarla, si fece sole nero e raccolse i raggi in grembo.

Poi la vide…

Fu un sussulto, si contenne a malapena.

L’avvicinò, fece come per stringerle una mano porgendole un raggio, scambiarono gli sguardi e si abbracciarono di passione.

Fu un abbraccio lungo un’esistenza.

Si reincollarono in un istante come fosse una vita e si sconobbero in complicità.

Il sole, egli stesso custode della propria luce interiore, rimase stupito dalla luminosità della luna la quale, nell’eclissi dell’abbraccio, lo brillò come nessuno mai, concedendogli di dissetarsi d’una solarità nuova, rigenerante, che lei, umile d’animo, negava di possedere.

Quanto l’amò nella sua riservatezza, la stimò nel suo esser timida e nel suo esitante concedersi.

Esplose di felicità, in lei, per lei.

Si sentì accalorato da una tal energia da roteare nel cielo risolarizzandosi l’essenza, girò e roteò su su se stesso, fino ad infiammarsi in una danza di meraviglia.

Una donna, estasiata, tentò di fotografarne lo splendore dalla finestra di un palazzo. Lui le si pose di fronte, sfiammò per lei, si fece fotografare, poi guizzò come pesce infuocato nel mare celeste. Continuò a danzare, ore su ore, giorni su giorni, settimane su settimane, sempre più innamorato della sua luna.

Mai si pose domande, certo che si potessero amare contemporaneamente due lune. Egli credeva che aver tanto Amore dentro, gli avrebbe concesso d’amar ad ampio raggio.

Ma si sbagliava.

Poiché in ogni passo di danza, in ogni tassello di domino, in ogni prima volta ed in ogni vocabolo sussurrato, lesse la sua verità più profonda, arrivando a capire di poter amare una sola luna per volta, la sua luna, quella alla quale, dopotutto, lui apparteneva da sempre, ancor prima di posarsi sul mondo.

L’essersi oscurato per un istante, concedendosi il privilegio di cullarsi nella di lei luminosità, aveva aperto una porta sulle sue luci più profonde, cadute in penombra, che lei, magnanima, aveva saputo riaccendere.

Stesi i raggi, riempì il petto e s’amò con lei nell’universo. S’illuminarono a vicenda, ognuno a suo modo, oltre luogo, oltre tempo, oltre dimensione.

Fu un Amore sublime, corale, delicato.

Dolce come miele, lirico, poetico, esilarante.

Mentalmente estasiante ed emotivamente stimolante.

Libero.

Mirabilmente, incredibilmente, straordinariamente, libero.

Un Amore che nessuno ebbe il piacere e la fortuna di poter eguagliare mai.

Ne parlarono per secoli.

E fu un bel parlare.
 
 
 
 

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