Sibilla Aleramo, poesie e amore di una donna
L’amore è una fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso.
Sibilla Aleramo
Animo ondoso, grido d’inchiostro e penna controcorrente, Marta Felicina Faccio, alias Sibilla Aleramo, fu poetessa di sé, libro aperto, foglio umano, carta di pelle sulla quale poetare un sentire unico, impareggiabile, pungente, scomodo ed incompreso. Autentica, acuta, diretta, pervicace, senza filtro alcuno, in voce, pensiero o scrittura che fosse, disturbò idee e pizzicò convinzioni dell’epoca, rendendosi bersaglio di critiche e disappunti che le piovvero addosso come acquazzoni. Ma lei intanto amò. Seppe amare e rincorrer l’amore per una vita intera, gravida d’amarezza, grondante meraviglia, traboccante d’estro, fradicia di sentimento e satura di vocaboli da esplodere ed esplodersi dentro. Ad ombrello chiuso, cuore aperto ed occhi alle nuvole. Che ne ombreggiarono il profondo.
Marta Felicina, ‘Rina’, l’alba di una donna
La cosiddetta ‘Rina’ pose piede sulla sfera terrestre, in terra alessandrina, il 14 Agosto 1876, gemma nascente del congiungersi amoroso fra l’ingegner paterno Ambrogio Faccio, insegnante di chimica, e la materna Ernesta Cottino, casalinga, assistendo come primogenita al successivo balzo sul mondo di altri tre fratelli, Cora, Aldo, Jolanda. L’Ambrogio che lei amò di un’adorazione quasi edipica, stimandone i tratti caratteriali, riconoscendo in lui che «aveva ereditato da mio nonno, mazziniano, alcuni concetti morali, sincerità, lealtà, onestà, libertà, quelli che oggi chiamano ideologie ottocentesche», guida integerrima ed esemplare. La prima dozzina d’anni la volle meneghina, fino al trasferimento nell’allor Portocivitanova, dove iniziò da subito ad aiutare lo stimato genitore, adoperandosi con esso nella direzione d’una vetreria e ponendosi a spalla paterna nello stesso periodo in cui, nel 1889, il tentato suicidio della madre sfregiò la tenerezza dei suoi anni, rendendola seriosa, adulta e responsabile prima del tempo.
Tragico evento che rafforzò ulteriormente il rapporto d’affetto con il padre, condividendone inclinazioni ed ateismo, privandosi dunque d’un Dio da interrogare quando lo scoprì adultero ed inaffettivo nei confronti della fragile Ernesta, ormai devota alla follia ed internata fino alla dipartita, che renderà il mondo orfano della sua presenza nel 1917. Ad incupirne ulteriormente la giovinezza, fu il prepotente furto della verginità ad opera di un impiegato della fabbrica, grezzo tizio Ulderico Pierangeli il quale, oltre ad impossessarsi con forza del suo corpo quindicenne, al sol fine di soddisfar codardo impulso carnale, l’ingravidò sul colpo, gettando in lei vil seme che la costrinse, sulle ipocrite convinzioni di facciata del periodo, a contrarre matrimonio riparatore nonostante il mancato completamento della gravidanza. Nel giro d’un decennio e d’un lustro appena, Marta Felicina si ritrovò pervasa da quel timor di pazzia che l’aver avuto un parente psicolabile intreccia inevitabilmente all’animo, priva di riferimenti genitoriali allorché la relazione extra coniugale del padre lo rese al cuor estraneo e vittima del gesto più meschino che vorrebbe l’uomo paragonato alle bestie, se di sol bestialità si possa parlare. Fra danno e beffa, il ritrovarsi controvoglia maritata al proprio carnefice non le impedì d’amar con tutta se stessa il figlio Walter, nato nel 1985, a distanza di due anni da quel “Sì, lo voglio”, detto fra i denti sull’altare, che tutto pareva rimediare agli occhi dei più, se non fosse che i suoi, di occhi, avrebbero prestotempo guardato altrove, non prima d’aver tentato d’abbandonar lei stessa la vita, costernata del fatto che l’esser madre non fosse di per sé sufficiente ad appagarne l’esitenza.
Amor per la scrittura, sentimento umanitario ed inclinazione libertina, ne ritemprarono spirito ed intelletto, volgendola in toto alla stesura di articoli che, tredici anni prima del cambio di secolo, nel 1887, la vedranno pubblicata su riviste che di femminismo professavano fede, una su tutte Vita Moderna, e nel periodico d’ispirazione socialista Vita Internazionale, unita su filo epistolare alla battagliera Giorgina Craufurd Saffi, patriota e scrittrice italiana di origini inglesi ed ideali mazziniani e sposa di Aurelio Saffi, erede politico dello stesso Mazzini, fedelissimo alla patria che il ‘Giuseppe nazionale’ considerava «casa dell’uomo, non dello schiavo».
Sarà nel ritorno fra mura meneghine, nel 1899, che la Faccio arriverà a dirigere L’Italia Femminile, settimanale che di socialismo fece filosofia ed a cavallo del quale conobbe e collaborò con intellettuali progressisti di rilievo, cooperando, negli anni a seguire, con stampa patinata di similar concezione del mondo. L’imposto ritorno a Civitanova Marche per questioni lavorative del marito, l’insofferenza verso la di lui rozzezza ed il soffocante provincialismo di paese che le stringeva la vita a mo’ di corsetto settecentesco, la spinsero all’abbandono del tetto coniugale ed a trasferirsi entro mura romane concludendo, con atroce e lacerante dolor di madre che lascia il proprio figlio, un primo e complicato capitolo della propria vita a cavallo del ‘900:
«E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i suoi figli? Ma la buona madre non deve essere come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la danno, ignara, debole e incompleta, a un uomo che non la riceve come una sua uguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i piú profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Sempre più il mio pensiero cadeva sulla parola emancipazione, che ricordavo di avere sentito nella mia infanzia, da mio padre seriamente, ma poi sempre con derisione da ogni classe di uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran folla delle donne inconsapevoli, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo degli esemplari. Un fatto di cronaca mi indusse un giorno di scrivere un articoletto e a mandarlo a un giornale di Roma che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo, e quella parola, dal suono cosí aspro mi indicò un ideale nuovo, che io cominciavo ad amare come qualcosa migliore di me. VIVERE! Ormai lo volevo, non piú solo per mio figlio, ma per me, per tutti».
La nascita di Sibilla Aleramo
Di doppio intreccio, scrittorio ed amoroso, fu il successivo legame con lo scrittore e poeta Giovanni Cena, l’allor direttore della rivista Nuova Antologia, sulla quale una Rina più vissuta adagiò penna in veste di collaboratrice. Sulla di lui sollecitazione scrisse Una Donna, quello che sarà il suo romanzo più importante, edito nel 1906 e nato da una generosa e verace gettata d’inchiostro sulle pagine della sua vita, ancor prima che sulle cartacee, ricamate con audace sofferenza in una rielaborazione di patimento candidamente ed impavidamente miscelata a spirito di libertà e convinto anticonformismo. Luigi Pirandello arriverà a definirlo uno «dei pochi romanzi letti che racchiudano come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentino con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza». Incantevole e toccante scritto che portò il nome di Sibilla Aleramo, lo pseudonimo che da quel libro ebbe i natali e che per tutta la vita restò in capo alla scrittrice, scelto dal Cena stesso in omaggio a Piemonte, poesia carducciana in ode alla region dei gianduiotti, delle sue città, colline e de «l’esultante di castella e vigne suol d’Aleramo».
In lui Sibilla reidraterà il proprio animo nel sentirsi gratificata ed amata, condividendo scrittura, sentimento, umanità, opere benefiche e frequentando contemporaneamente prestigiosi cenacoli letterari dell’epoca. Fra le azioni d’umanitario impulso, che riaffioriranno in lei nell’ultimo periodo della sua vita, in fede al credo comunista, s’impegnarono a favor della bonifica dell’Agro Pontino e s’occuparono dell’umiliante e svilente condizione dei guitti, i poverissimi braccianti allor sfruttati da miserabili latifondisti. Fu durante la visita di entrambi ai luoghi terremotati nel Dicembre del 1908, che la Faccio innamorò Lina Poletti, detta “la favola”, futura amante di Eleonora Duse e, malauguratamente per Giovanni Cena, lupus in fabula del suo rapporto con Sibilla che la stessa interruppe l’anno successivo, sulla frequentazione platonica di un allora giovanissimo Vincenzo Cardarelli, nato Nazareno Caldarelli, poeta, scrittore e giornalista con il quale si trasferì a Firenze, assecondando un innato istinto vagabondo che la spronerà a viaggiare, attivandosi in collaborazioni giornalistiche in ogni dove.
Affrancatasi dal movimento femminista a fine decade, s’originò in lei un forte desiderio di porre accento di donna sulla poesia italiana, reclamando attenzione alla differente sfumatura della scrittura femminile rispetto a quella maschile. Chiusa dunque una parentesi sulle posizioni giovanili e su Giovanni Cena, un’intricata serie di relazioni, fra uomini e donne, la portarono negli anni ad essere spregevolmente definita «lavatoio sessuale della letteratura italiana» da Giuseppe Prezzolini, scrittore, editore, giornalista, aforista e docente universitario al quale, probabilmente, anni di studi e riconoscimenti vari non furono sufficienti a raggiungere quel grado di buon senso ed educazione che risparmi dichiarazioni di basso profilo, in particolar modo se riferite ad una donna, che rendon l’uomo che le pronunci dannatamente borghese, astrusamente mediocre e gratuitamente meschino.
Ma lei intanto riamò. Ad ombrello chiuso, cuore aperto ed occhi alle nuvole. Che ne dissetarono il profondo. E dalle sue profondità sorseggiò parole, sputandole al mondo intrise a tal punto di sé, da non potersi più discernere da ciò che scriveva; era poesia l’Aleramo e l’Aleramo poesia, in un tutt’uno che la penalizzò in numerosi scritti, ben distanti dal successo del primo romanzo. Più dura a dirsi che a darsi. Lei, che di vocabolo fece missione, dopo anni di successo e frequentazioni illustri, di parola fu dischetto per freccette, ristretta suo malgrado in quel corsetto dal quale si era sfilata, ripiombata in un provincialismo di cui anche le grandi città sapevan farsi capanna, forse peggiore rispetto a quello di paese in quanto colto, subdolo, abile a mascherarsi, ora ideologico, ora religioso, dotto e terribilmente strutturato nei salotti intellettuali dell’epoca. Il mancato desiderio o l’incapacità di coglierne il valore simbolico ed avanguardista, unito ad un rassicurante omologarsi ad opinioni socialmente condivise, fece di lei capro da espiar a moralistica condanna, arido gesto nato dalla mischia, perito nell’ipocrisia.
Gli anni a ridosso del primo conflitto mondiale, la videro letteralmente travolta ed assorbita da amor puro e passionale per Dino Campana, l’incompreso poeta istintivo, musicale, lirico, girovago di boschi e pensieri che fra il suo gentil pensar insinuò Rina, come amava chiamarla lui, «Sibilla è di tutti, Rina è soltanto mia». Tumultuoso scambio d’anima e carne che copulò il lor simil sentire in un unico essere. Fu una storia che di sentimento fece or quiete or tempesta, a tratti violenta, ma che permise loro di metter mano ad un estasi così elevata da percepirne il tratto universale, che Sibilla Aleramo stenderà in un romanzo titolato Il Passaggio, pubblicato nel 1921. Di due anni dopo la sua prima raccolta di poesie, Momenti, preceduta d’un anno da Endimione, poema drammatico dedicato a D’Annunzio ed ispirato alla relazione con Tullio Bozza, il giovane atleta la cui tragica morte calò sipario sul loro legame. Il successo parigino riscosso dalla rappresentazione dell’opera, si tramutò in freddezza di critica e fischi nei teatri italiani.
Fra successivi romanzi e raccolte di poesie, d’autobiografica sfumatura, nel 1928 l’Aleramo rivarcherà le mura romane in condizioni di povertà, non prima d’esser stata arrestata, nel 1925, firma in calce al Manifesto degli intellettuali antifascisti, per conoscenza e frequentazione dell’anarchico Anteo Zamboni, linciato quindicenne dagli squadristi poco dopo il tentativo d’assassinio di Mussolini, episodio che inasprì le posizioni dittatoriali fino alla chiusura forzata di alcune testate d’opposizione. A colloquio avvenuto con lo stesso Benito, la scrittrice s’affilierà al fascismo iscrivendosi, nel 1933, all’Associazione Nazionale Fascista Donne Artiste e Laureate, sostenuta economicamente e nella produzione letteraria dallo stesso regime.
L’ultimo legame importante cavalcò la decade fra il 1936 ed il 1947, periodo in cui la sua metà sentimentale si fece intera in Franco Matacotta, il ‘Franco Monterosso’ giornalista, insegnante, scrittore e poeta neorealista, di quarant’anni più giovane, con il quale intraprese numerosi viaggi, condividendo eventi mondani ed iniziando in quegli anni la stesura del Diario, quella che verrà considerata dai critici la sua grande opera dopo Una Donna. Traguardo della loro storia sarà il di lui matrimonio con differente anima.
La fine del secondo conflitto mondiale ne consacrerà convinta fede comunista, balzandola fra due estremi ideologici in un’apertura di going che la vide neo iscritta al PCI e collaboratrice de l’Unità. Seguiranno anni appassionati di penna ed ideali, meno autobiografici, maggiormente impegnati da un punto di vista sociale, politico ed umanitario, trascorsi in una povertà post bellica che non riuscirà a domarne spirito e pensiero. Lo stesso partito la sostenne con una piccola rendita, trovandole un alloggio in via Margutta dalla cui soffitta ringiovanì a seconda notorietà letteraria, seppur fortemente delusa dall’esclusione del proprio nome nella lista de I dieci più grandi scrittori d’Italia.
Il 13 Gennaio 1960, a tre anni dalla pubblicazione dell’epistolario che la legò indissolubilmente all’adorato Dino Campana, la morte ne arrestò i palpiti, ma non la capacità d’amare che rimase impressa in ogni sua frase, vocabolo, accento, virgola. Levò dunque in volo il proprio spirito libero, leggero e sornione, definitivamente sfilato da corsetti esistenziali stretti in vita, proseguendo instancabile l’amare oltre tempo, oltre dimensione, senza ombrello, a cuor pacato ed occhi socchiusi sulle nuvole. Che ne arricchirono il profondo.
Non so se sono stata donna, non so se sono stata spirito. Son stata amore
La poesia del vivere l’amore
Penna ed amore furono nell’Aleramo in permanente alleanza. Fu ciò che scrisse e scrisse di ciò che fu. Una donna. Semplicemente, sfacciatamente, meravigliosamente, donna. Nata felice, oscurata in giovinezza e cresciuta in malinconia. Ma splendidamente e spudoratamente appassionata. Nella scrittura, negli ideali, nel grido, nel sentimento, nel sesso. Nella vita. Quell’esistenza beffarda che volle sgambettarla rendendola roccia chiusa sulle fragilità tipiche di chi vien da follia e prepotenza fisica emotivamente sfigurato, trovandosi al bivio fra l’annullamento di sé e la rinascita. Riuscì invece a fottersi il mondo, la tosta Sibilla, e lo fece non rinunciando mai ad amare, animo dolce, vulcanico, ardito, ribelle, femmina voluttuosa, volitiva, risoluta, libera, amò infinitamente d’erotismo corporeo ed intellettivo uomini, donne, prose e poesie, carezzando idee e sposando ideali in totale autonomia comportamentale, ridisegnandosi dagli stessi graffi che ne deturparono l’intimo fisico e mentale.
Una gran partita a scacchi, quella della Faccio con l’amore.
Completamente distaccata da amor divino, subì il primo scacco matto da quello terreno nell’infrangersi dell’immagine esemplare paterna, trasfigurata dall’adulterio che rese ai suoi occhi l’adorato padre al pari dell’universo maschile comune. Nella più tenera età, le fu dunque levata da sotto i piedi la possibilità di quell’amor genitoriale ovattato e rassicurante che attecchisce radici, impiccandola ad un senso di vuoto esistenziale logorante, essendo la degenerazione mentale materna lacuna affettiva da appendersi al cuore, piccola pietra che in lei resterà ancorata per sempre, sospesa fra nostalgia e dolore. Decisamente devastante e meschino, la destabilizzò il barbarico furto di linfa ad opera del maramaldo Ulderico, quella canaglia d’uomo senza umanità che dopo l’abbandono del tetto coniugale, le impedirà a di rivedere il figlio, che la stessa tenterà invano di riavere a sé, riuscendo a rivederlo ormai uomo. Lo strazio del non poter provare in quell’incontro sensazioni di conoscenza vissuta, sarà strappo di carne al petto.
«Mio figlio mi pensa, stamane. Gli ho scritto qualche rigo, giorni fa. Tristezza irreparabile del nostro rapporto, dappoi che ci siamo rivisti dopo i trent’anni d’intervallo e invano abbiamo provato a sentire come una realtà il fatto ch’io sono sua madre e che lui è mio figlio […] Un solo momento abbiamo avuto: la prima sera del ritrovamento; un singhiozzo profondo nel petto d’entrambi, abbracciandoci, e subito appresso, seduti di fronte, avviando un discorso qualunque, a frasi mozze, un sorriso in cui ci specchiammo a vicenda, in cui nel suo largo viso d’uomo già maturo io vidi affiorare e tremare, sorridendo timida e innocente, quella che so essere l’anima mia, la qualità nativa inalterabile dell’anima mia. Un solo momento. Poi, tutto della vita ci ha fatti immediatamente apparire su due piani differenti, con l’impossibilità di qualsiasi scambio verace: incomunicabili, nonostante il sangue, nonostante l’uguale bontà della natura umana»
Sputò dunque sangue sradicata dagli affetti più cari, la poetessa d’acciaio con lava dentro, riconcimandosi l’ego e rifiorendo fra china e pennino ancor più rigogliosa, dissociata fra rami secchi ed una femminilità da eruttare al mondo, proteggere, incalzare e salvaguardare, inconsapevole antesignana del femminismo sessantottino, del quale avrebbe avuto diritto ad esser degna paladina. Ne diede prima supporto puramente ideologico, fiero, giungendo poi a traslare sulla poesia quel sentir di donna che lei percepiva, nelle modalità di scrittura femminile, ritmicamente diverso, più capillare, sottile, originale e profondo rispetto all’intinger nel calamaio di mano maschile.
«Come nella vita, nell’arte. Oscar Wilde disse, in uno dei suoi paradossi di genio, che la vita non è se non un prodotto dell’arte. Una continua creazione dello spirito, appunto. Una lunga misteriosa religiosa costruzione, per la quale il poeta, uno ed innumere, cuore dei cuori, adopra tutto quanto ha scavato dentro di sé, armonizzando il principio ed il fine d’ogni realtà e d’ogni sogno. E l’universo ne pare rinnovato. Nessuna donna ancora ha compiuto uno di questi miracoli. E a costo di ripetermi, io dico che la causa non sta in una sua organica incapacità, ma nel fatto che ella non ha ancora liberata la propria essenza, non ha ancora trovata una sua autentica forma d’espressione. Non si tratta, si intende, di creare un linguaggio speciale per la psiche femminile: il linguaggio umano è uno, dalle sue remote origini, sotto tutte le latitudini, ormai lo sappiamo. Ma forse le segrete leggi del ritmo hanno un sesso. Se siamo persuasi d’una profonda differenziazione spirituale fra l’uomo e la donna dobbiamo persuaderci che essa implica una profonda diversità espressiva; che un autoctono modo di sentire e di pensare ha necessariamente uno stile proprio, e nessun altro; e sia pur barbaro, al principio. Il mondo femmineo dell’intuizione, questo più rapido contatto dello spirito umano con l’universale, se la donna perverrà a renderlo, sarà, certo, con movenze nuove, con scatti, con brividi, con pause, con trapassi, con vortici sconosciuti e la poesia maschile… Se la donna non avrà paura e non avrà fretta»
Così in Andando e Stando, raccolta di articoli in prosa sviluppata a bordo del suo «vagabondaggio geografico e culturale», a cui il titolo si riferisce e che verrebbe da traslar in allegoria sui vissuti di una scrittrice in evoluzione continua fra sé ed il mondo, come instancabile peregrina che da passo nomade origini verso poetico visceralmente strepitante, in raminga danza lirica sulla sua solitudine interiore. Un subbuglio recondito tutto da esternare che nel suo romanzo d’esordio, Una Donna, raggiunge la massima espressione elegiaca e drammatica, aprendo un affabile spiraglio comunicativo fra presente e passato che solleciti il lettore ad empatizzare, lasciando emozioni nei passaggi più toccanti e sentiti, oltre pagina, oltre dimensione, oltre stile.
«Certo, io non sono quella che si chiamerebbe “narratrice nata”. Sono irrimediabilmente lirica. Soltanto in Una Donna, quando il gorgo lirico ancora in me non s’era sciolto, potei raccontare, e anche lì quel che c’è di meglio non è l’esposizione della vicenda, ma il riflesso di essa sull’anima dell’autrice». (Diario di una donna)
Dino Campana, struggente volo dell’essere uno
Nell’ellisse amorosa, in senso lato, che vide nell’amor di suo padre l’inizio e nel giovane ed aitante Mattacota la chiusura di un’intera esistenza a bordo pathos, Sibilla racchiuse varie frequentazioni di personalità più o meno conosciute dell’epoca. Abbandonato il barbarico coniuge fra le mura domestiche, concluso l’intenso rapporto con Giovanni Cena, balzata con salto di gazzella fra le braccia della Poletti ed adagiatasi a vol di libellula fra mura fiorentine col Cardarelli, cooperando nel frattempo con La Tribuna, trascorse l’estate del 1914 divisa fra il pittore Michele Cascella ed i poeti Giovanni Boine e Clemente Rebora, ai quali ella stessa dedicherà Il Frustino, quarto ed ultimo romanzo, d’esuberanza autobiografica impressionante. Saran comprese fra il 1911 ed il 1916 (anno in cui s’infatuerà di Campana), le relazioni intrecciate con il saggista, poeta e scrittore Giovanni Papini, l’allor direttore de La Voce dal 1912, con la quale collaborò, i pittori Umberto Boccioni, conosciuto nella Milano socialista del primo Novecento, che l’avvicinò al movimento futurista, lasciandola nel tempo d’un lampo a causa del di lei approccio al rapporto quasi esclusivamente intellettuale e Michele Cascella, dirigendo nel mentre La grande Illustrazione, e ancora Giuseppe Prezzolini, il poeta Raffaello Franchi ed altri.
Del trentennio e poco dopo le liaisons che l’affiancarono all’editore Enrico Bemporadu, al deputato socialista Tito Zaniboni, all’insegnante Giulio Parise, a cui sarà dedicato Amo Dunque Sono, al filosofo Julius Evola, al giornalista Enrico Emanuelli, di 23 anni più giovane, ricordato in Sì alla Terra, poesie che affascineranno Salvatore Quasimodo, legandola a lui, l’altro vero poeta amato da Sibilla dopo Campana. Punto di chiusura ellittica sarà in Matacotta, per lui le poesie contenute in Orsa Minore e Selva d’Amore.
La donna il cui profilo fu ritratto da Leonardo Bistolfi sulla moneta da venti centesimi, donò bellezza fra essenza e scrittura, sensualità e perspicacia, esprimendo idee senza timore, protagonista di repentine virate ideologiche che la resero barca in balia delle onde, in rapporto squisitamente paritario con quel mondo maschile che era solito detener scettro d’opinione. Lei, la donna che ogni donna dovrebbe conoscere, l’amica che si vorrebbe accanto, erudita, determinata, di forza immane e sensibilità peculiare, anima preziosa alla quale sarebbe privilegio poter stringere la mano, non foss’altro per l’incalzante colpo di coda con cui aprì porte da cui ogni donna è passata nella misura in cui le sia concesso di potersi esprimere senza costrizioni. Colei che fu tangente ellittica fra l’amare ed il farsi amare, fra il dare ed il darsi, riempiendo un vuoto e sfiatando un tormento, in una sorta di altalenante percorso freudiano fra amor proprio e “filantropia emotiva” che la rese amazzone di vita, aprendo un varco atemporale in cui potersi inserire sull’esperienza estatica della lettura, traendone stimolo al galoppo, al salto dell’ostacolo, alla leggerezza dello stato brado.
Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevano tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose, quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole quasi, di fronte alla grandezza del mostro da atterrare
Amò d’immenso una sola volta, di quell’amor ch’è impossibile obliare, scambiando se stessa con il Dino poeta, il sognatore idealista, seducente manipolatore di vocaboli d’accostar con palpabile maestria a carta e meningi. Stregata e sedotta da versi poetici idilliaci e sospesi sulla lirica della vita, quelli di un Campana pioniere di elevata poesia, animo fragile e potente, contorto, misterioso, profondo, schietto, vero, mirabilmente amabile, colui che adorò «la povertà delle cose quassù, sui monti, che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza», sembra d’udirlo vociferar in afflato, «passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più aerei del dolore, ore di felicità completa che aboliva il tempo e il mondo intero», abbandonati così, nel vorticoso intreccio d’occhi e mani fra carezze, scritti, ricordi e desideri.
Le mani
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente
mani fatte per più dolci opere
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo
(Le Mie Mani)
S’infilarono ardore e dolcezza l’un addosso all’altra come coralli rari su filo argentato, il Dino e la sua Rina, s’appartennero fondendosi nonostante il mondo, nonostante lo spazio e l’universo tutto, funamboli di se stessi e su se stessi in un vibrante aggrovigliamento da vertigine, focosamente avviluppati a quell’Amor cristallino, rovente, impetuoso, a cui è d’obbligo porre la maiuscola, in onor a quel tipo di passione che travolge e sconvolge, fra mente e carne, pelle e pensiero, quell’impeto romantico che di corpo fa strumento da suonare e di gemito melodia d’ascoltare, consumandosi di baci, scambiandosi sguardi, spellandosi il cuore.
«Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice. M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa. Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue».
(Lettera scritta a Dino Campana, 7-8 agosto 1916)
Donna nel domani del mondo
Incinta sono di te,
donna che vivrai nel domani del mondo.
In un anno remoto
genitrice fu la mia carne,
le mie fibre ricordano,
ogni giorno era oscuro travaglio,
fisica sofferenza che volontà dominava
e speranza addolciva
ineffabilmente.
Ora non il seme d’un uomo in me
non un embrione dal mio sangue nutrito,
ma nel mio spirito
l’ansiosa proiezione, donna, di te,
di quella che tu sarai,
che lentamente si plasma s’accresce
batte alle porte vuoi vivere,
compiuta forma finalmente
in aura di libertà e purità,
donna nel domani del mondo.
In me ti reco, immagine chiara,
contrasto e compenso
di quanto nel cuore m’angoscia,
patimento di tante misere oggi,
misere per inumane fatiche
misere per scheletriti figli
o per figli rapiti in guerra,
oppur inanimate cose di libidine,
ah avvilita mia specie, onta per tutte!
E altre odo stridule
ridere inconsapevoli
e altre trasalendo veggo
egoiste più ancor dei loro maschi,
avide insaziate d’oro e tossico.
Come se ti portassi nel mio grembo
io in te mi concentro, creatura nuova,
nei lineamenti che tu avrai,
creatura tutta vera in una vita di raggiunta verità,
redenta la vita da ogni ferino residuo,
più bella questa terra ogni dì più
nel lavoro di tutti fervido come un inno,
inno del concorde genio umano.
E non io sola, molte e molte
al par di me in seno ti recano
e in lampi di benedizione
qualcosa del sereno tuo sguardo in lor già traluce,
in salvo anch’esse la visione di te
la speranza la visione di te portano
mentre il mondo d’oggi ci dileggia,
torvo e cieco ci osteggia,
oh tutte brave in oprare e coraggiose,
fanciulle, spose, tenere gravi vegliarde,
in travaglio fiero e pur soave,
ineffabilmente,
per il tuo avvento, donna, nel domani del mondo,
in questo fraterno asilo
giusto e benigno
e di gloria finalmente degno,
armoniosa sovrana tu di libertà e purità.
Luce nella selva
Luce nella selva,
musica di luce,
guizzante ed estatica
canorità raggiante,
fragori d’ombre,
aureole,
filtri di suoni,
e carezze, carezze,
confusione dei sensi,
fragranze agli occhi,
i colori mordono suggono,
labbra aperte attente,
chiaro sonoro
guizza il mondo,
il mondo
è un raggiante brivido canoro,
luce nella selva,
musica di luce.
Tentazione
Hai avuto un gesto delle mani, dolce,
mentre parlavi dell’amore femineo,
hai figurato col cavo delle mani dolcemente
la raccolta e tremula dedizione d’un cuore.
Per qualche attimo così m’hai tenuta,
il giovanile fuoco dei tuoi occhi rideva
desioso e scherzoso, e m’avvolgeva,
per qualche attimo come in nuvole d’oro.
Oh abbandonarsi e tutta rabbrividire,
innamorata d’un lucente sguardo,
oh rivivere alla gioia e rossa rifiorire
ed aulente prostrarsi ad una carezza forte!
Poi piangere piangere soavemente.
Da tanto tempo resisto altera e sola!
Le lacrime son tante che vorrei versare!
Ma tu su la mia fronte e sul fermo viso
hai letto solamente forza e signoria,
mentre a cimentarmi dicevi
che troppo io ho l’anima virile
e certo non so non so piegarmi e darmi.
Il giovanile fuoco dei tuoi occhi rideva,
hai avuto un gesto delle mani, dolce.
È il lavoro oggi l’aurora
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
dal mondo patita
geme ch’io in parole le redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l’orrore
e sempre l’insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
chi mai l’ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insieme cancellando
e tutte le speranze? Speranza aurora!
Chi ancora guarda l’aurora?
Mio cuore, ma tu lo sai!
e non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s’alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe, libri,
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni,
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s’anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l’aurora!
Nome non ha
Nome non ha,
amore non voglio chiamarlo
questo che provo per te,
non voglio tu irrida al cuor mio
com’altri a’ miei canti,
ma, guarda,
se amore non è
pur vero è
che di tutto quanto al mondo vive
nulla m’importa come di te,
de’ tuoi occhi de’ tuoi occhi
donde sì rado mi sorridi,
della tua sorte che non m’affidi,
del bene che mi vuoi e non dici,
oh poco e povero sia,
ma nulla al mondo più caro m’è,
e anch’esso,
e anch’esso quel tuo bene
nome non ha.
Ricordo
Sempre che un giardino m’accolga
io ti riveggo, Padre, fra le aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all’esser tuo.
Palme delle mani
Oh palme delle mani iscritte di segni,
triangoli, rami, croci, stelle,
tutta la mia vita ch’è stata e sarà,
il punto ch’io ignoro della morte e non temo,
e altri, altri che sembrano di confitti chiodi,
ma intorno vi raggiano ali di gloria,
oh palme delle mani vi guardo come specchi,
così umane e così arcane,
appannati specchi che la luce più indora,
brevi e morbide, e tanto destino inciso,
immagini d’immensi spazi e musiche,
e fantasia e follia e solitudine e carità,
linee linee in catena in croce in danza,
oh palme delle mie mani, scrittura d’astri!
Sono tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno.
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!».
Sembrami d’aver fra le dita
a stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo perduto, e vene.
Grandi occhi
Grandi occhi, radianti, buoni,
figlio, avevi stanotte nel mio sogno,
nel tuo viso d’uomo che m’è ignoto,
figlio, e a me t’accostavi e mi baciavi,
tutto era assolto in silenzio e sorriso,
un tremore una dolcezza santa
ci riunivano come all’alba tua natale
dopo che da me staccato a me ti strinsi.
Ma sì, sempre
(A Dino Campana, Firenze, aprile 1917)
Chiudo il tuo libro
Sento che sorrido,
intenerita,
c’è pudore e c’è grazia puerile
in questo che m’investe,
sola,
tremore improvviso,
oh luce tra le rame gemmate,
sera che avvicini la primavera,sento che sorrido,
intenerita,
così tersa così lieve e presente
la vita,
con suo senso anch’essa di casto bene,
ridente,
di un’ora che torna, torna, ma sì, sempre
di un’ora sospesa,
oh nuova!
III
(A Dino Campana, Mugello, 25 luglio 1916)
Chiudo il tuo libro
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei tuoi canti
come un addio a me
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli
meravigliati e vilenti con lo stesso ritmo andavamo
liberi singhiozzando senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo…
Opere maggiori
Prosa
Una donna (1906), Il passaggio (1919), Andando e stando (1921), Trasfigurazione (1922), Il mio primo amore (1924), Amo, dunque sono (1927), Gioie d’occasione (1930), Il frustino (1932), Orsa minore (1938), Dal mio diario (1940-1944), Il mondo è adolescente (1949).
Poesia
Momenti (1921), Endimione (1923), Poesie (1929), Sì alla terra (1935), Selva d’Amore (1947), Aiutatemi a dire (1951), Luci della mia sera (1956).
Collaborazioni principali
Gazzetta letteraria, L’indipendente, Vita moderna, Vita internazionale, L’Italia femminile, Unione femminile, Nuova Antologia, La Tribuna, Resto del carlino, Tempo, Fiera letteraria, Giornale d’Italia, L’Italia che scrive, Novelle ottocentesche, Il piccolo, Il popolo di Roma, Pegaso, Noi donne, La Voce, La grande illustrazione, Il Giornale delle Signore Italiane di Gran Lusso, di Moda e Letteratura, La Rivista per le Signorine, Giornale della fanciulla, Cordelia, Vita Intima, L’Unità, ed altri.
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