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Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: uomini fra Stato e mafia

Oggi è una situazione d’instabilità e pericolosità, per chi cerca di contrastare questi fenomeni e all’interno delle organizzazioni, perché c’è qualcosa che non mi convince affatto e temo che si verificheranno fatti gravi, tra poco.
Giovanni Falcone, febbraio 1991

Il 23 maggio 1992, alle ore 17:56, una carica di tritolo collocata in un canale sottostante l’Autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci, venne detonata per mezzo di un radiocomando a distanza dal mafioso Giovanni Brusca detto lo scannacristiani. In un istante persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrato, Francesca Morvillo di 47 anni e 3 uomini della scorta: Rocco Dicillo, 30 anni; Antonio Montinaro, 30 anni; Vito Schifani, 27 anni.


 

Una ferita insanabile al cuore di un Paese improvvisamente chiamato a prendere coscienza del valore dell’uomo e del magistrato, il cui spessore sin a quel momento era stato ignorato e persino messo più volte in discussione. Imperdonabile mancanza compiuta anche nei riguardi di servitori dello Stato assassinati prima di lui e ripetuta anche nei confronti di Paolo Borsellino, protagonista di indagini e arresti per associazione mafiosa fin dalla seconda metà degli anni ’70; ma che pochi giorni dopo esser accorso sul luogo dell’attentato stringendo per l’ultima volta fra le braccia il collega e fraterno amico, si rivolse al proprio confessore per ricever la comunione: «Devo fare presto, non ho più tempo» andava ripetendo, consapevole di essere il prossimo bersaglio e di non aver un’adeguata protezione. Il 19 luglio dello stesso anno, alle ore 16:58, una Fiat 126 caricata con 90 chilogrammi di esplosivo parcheggiata in via D’Amelio, sotto l’abitazione della madre Maria Pia Lepanto, lo strappò per sempre alla famiglia e a questo mondo.

Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.
Paolo Borsellino

23 maggio 1992

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno combattuto fra Stato e mafia, uomini che la memoria conserva come un istante unico, mentre il tempo riconosce loro innegabile vittoria conservandone il prezioso ricordo. (https://terzopianeta.info)
Giovanni Falcone, Palermo, 18 maggio 1939 – Palermo, 23 maggio 1992

 

19 luglio 1992

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno combattuto fra Stato e mafia, uomini che la memoria conserva come un istante unico, mentre il tempo riconosce loro innegabile vittoria conservandone il prezioso ricordo. (https://terzopianeta.info)
Paolo Borsellino, Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992

 

La voragine di Capaci e le successive immagini del massacro di Palermo, mostrarono la ferocia di Cosa Nostra anche agli occhi di coloro che fino ad allora, avevano avvertito la mafia come una realtà distante, impalpabile, quando non un racconto del tutto inesistente. I due magistrati pagarono con la vita il desiderio di giustizia e l’amore per la propria terra, ma l’imponenza di tali sentimenti e l’opera che ne era conseguita, resero la percezione di una scomparsa che sarebbe divenuta continua presenza nella coscienza collettiva e i giovani siciliani, furono i primi a darne prova.
 

Chi è Stato il nemico di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone?

Gli attentati rappresentarono l’apice di un’epoca sanguinaria, segnata dall’ascesa al potere di Cosa Nostra degli esponenti della cosca dei corleonesi guidata da Luciano Leggio detto ‘primula rossa’ e poi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella. Le attività principali erano traffico di armi, droga, gioco d’azzardo, mentre tessevano trame con la politica attraverso la figura di Vito Ciancimino, personaggio che a partire dagli anni ’50, dopo un breve periodo trascorso a lavorare presso la segreteria dell’allora vice Ministro dei Trasporti Bernardo Mattarella, padre di Piersanti e dell’attuale Presidente della Repubblica Sergio, si legò agli ambienti della Democrazia Cristiana aderendo alla corrente di Amintore Fanfani e poi, dalla seconda metà degli anni ’70, a quella adreottiana avvicinandosi a Salvo Lima, eurodeputato in seguito identificato come uno dei principali referenti della mafia.

Per raggiungere i vertici dell’organizzazione, i Corleonesi diedero vita ad una guerra interna con centinaia di morti e parallelamente, per proteggere i propri interessi, colpirono le istituzioni.

Nell’arco di pochi anni furono uccisi il Capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano, l’Ufficiale dei Carabinieri Emanuele Basile, il procuratore Gaetano Costa, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il magistrato Cesare Terranova e il deputato Pio La Torre, autori della Relazione di minoranza del 4 febbraio 1976 in cui venivano evidenziati i rapporti tra mafia, politica e imprenditoria, accusando in modo particolare Vito Ciancimino, Giovanni Gioia e Salvo Lima.

Il 31 marzo 1980 fu presentata alla Camera una proposta di legge che aveva come primo firmatario Pio La Torre ed alla cui formulazione collaborarono due giovani magistrati della Procura di Palermo: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Fu la base da cui nacque il testo regolativo che avrebbe segnato una svolta storica nella lotta contro la mafia, la legge n.646, anche nota come Rognoni-La Torre, benché quest’ultimo non ebbe modo di vederne l’applicazione. Approvata il 13 settembre 1982, innovò profondamente le disposizioni e la disciplina normativa con l’introduzione nel codice penale dell’Art. 416 bis, che riconosce autonoma rilevanza penale e sanziona l’associazione di stampo mafioso, prevedendo la forza d’intimidazione, la condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, includendo inoltre misure di prevenzione a carattere patrimoniale con la confisca dei beni allo scopo di impoverire le organizzazioni criminali.
 

Il Metodo Falcone

Nel 1980, al fine di contrastare il fenomeno mafioso, il dirigente dell’Ufficio Istruzioni di Palermo Rocco Chinnici, modificò radicalmente la metodologia delle indagini formando un gruppo di magistrati «compatto, attivo e battagliero», che si occupasse delle attività malavitose collegialmente, anziché lavorare in maniera individuale come era sempre avvenuto. Lo scambio di informazioni fra coloro che gestivano materie contigue e la corale interazione, avrebbe consentito una maggiore efficacia dell’azione penale affrontando il problema nella sua globalità. Venne così costituito quello che in seguito avrebbe composto il nucleo del Pool Antimafia e a farne parte furono chiamati Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.

A quest’ultimo venne affidata l’inchiesta contro Rosario Spatola, ex ambulante palermitano dalla fedina immacolata divenuto magnate dell’industria edilizia, con imprese e cantieri che davano lavoro a centinaia di famiglie, tanto da esser dipinto alla stregua di un filantropo. In realtà doveva la sua fortuna al riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di stupefacenti che univa la Sicilia agli Stati Uniti ed in cui erano coinvolti i capimafia Stefano Bontate, Salvatore ‘Totuccio’ Inzerillo e John Gambino di New York.

Giovanni Falcone compì le ricerche mettendo assieme tasselli solo all’apparenza disconnessi tra loro ed inviò oltreoceano i vari filoni d’inchiesta creando una visione d’insieme mai concepita prima.
Il magistrato aveva compreso che per seguire e portare alla luce il percorso della droga era necessario intraprendere indagini patrimoniali e dunque, pose gli accertamenti bancari al centro dell’istruttoria.
Una rivoluzione che avrebbe preso il nome di Metodo Falcone.
Superata l’iniziale reticenza dei direttori delle varie filiali presenti nel territorio palermitano, da questi ottenne tutte le distinte di cambio di valuta estera, a partire dal 1975, una ricerca nelle profondità degli istituti dove nessuno si era mai spinto prima, ma fra critiche e malcontento di istituzioni e parte di opinione pubblica, il magistrato riuscì a far emergere i rapporti fra Spatola e la famiglia Gambino.

La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente.
Giovanni Falcone

Il 29 luglio 1983, Rocco Chinnici fu ammazzato con un autobomba contenente 75 chilogrammi d’esplosivo piazzata davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico. Insieme a lui persero la vita il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta ed anche il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Con 28 voti favorevoli e 3 astensioni, il Consiglio Supremo della Magistratura nominò capo dell’Ufficio istruzione Antonino Caponnetto. Lui stesso inviò domanda per ricoprire la carica, benché non avesse alcuna conoscenza diretta sulla lotta alla mafia: «Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall’oppressione della mafia», confessò in una intervista realizzata da Gianni Minà nel mese di maggio del 1996 e il 9 novembre dell’83, concluse il cerimoniale discorso d’insediamento pronunciando le seguenti parole: «La Sicilia ha pagato un alto tributo di sangue: spero che adesso ci lascino lavorare in pace». (Antonino Caponnetto, I miei giorni a Palermo, Garzanti, 1992, p. 25)

Rimanendo in linea con l’operato di Chinnici, poche settimane dopo Caponnetto formalizzò il Pool e dispose che i giudici istruttori si occupassero esclusivamente di questioni legate alla mafia, liberandoli da qualsiasi altro processo. Confermò quindi la precedente squadra di magistrati aggiungendo l’esperienza di Leonardo Guarnotta ed in seguito quella di Ignazio De Francisi, Giacomo Conte e Gioacchino Natoli, toga che assieme a Falcone partecipò all’inchiesta condotta negli Stati Uniti fra il 1979 e il 1984 in collaborazione con l’FBI. Passata alle cronache con il nome di Pizza Connection, portò a un processo terminato il 22 giugno 1987 con l’arresto di Gaetano Badalamenti, Salvatore Catalano, Pietro Alfano, Sam Evola, Joseph Lamberti, Salvatore Mazzurco e Emanuele Palazzolo.

Fra Caponnetto e gli uomini del Pool s’instaurò un profondo legame affettivo — fonte di energia e di futuro dolore — e all’interno del gruppo stesso, il quotidiano scambio di idee ed informazioni avveniva in un’atmosfera di reciproca stima e fiducia, ma dopo gli ennesimi omicidi, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone si videro obbligati ad allontanarsi.

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno combattuto fra Stato e mafia, uomini che la memoria conserva come un istante unico, mentre il tempo riconosce loro innegabile vittoria conservandone il prezioso ricordo. (https://terzopianeta.info)
Flacone, Borsellino e Caponnetto

Il 28 luglio 1985, fu freddato a colpi di pistola il poliziotto Giuseppe Montana, l’agente che alla morte di Chinnici non trattenne amarezza e profonda preoccupazione: «A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà».

Nove giorni più tardi, un manipolo di uomini armati di kalašnikov tese un agguato ad AntoninoNinniCassarà, vice questore aggiunto presso la questura di Palermo e vice dirigente della squadra mobile. Più volte in operazioni a fianco di Montana, aveva preso parte anche la sopracitata Pizza Connection, ma soprattutto stilato il cosiddetto Rapporto dei 162 che svelava l’organigramma di Cosa Nostra, gettando le basi per il Maxiprocesso. La sequela di omicidi culminati con la morte dei due agenti, stretti collaboratori di Borsellino e Falcone, nonché le voci su un possibile attentato, costrinsero i magistrati a preparare l’istruttoria soggiornando con le famiglie nella foresteria penitenziaria di Cala d’Oliva, nell’isola sarda dell’Asinara. 

In ricordo della loro permanenza, nel 2012 è stata apposta una targa in marmo con impresse le parole di Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». E poi quelle di Falcone: «La mafia non e’ affatto invincibile: e’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». Ma al termine dell’esilio forzato, per testimoniare la vicinanza delle istituzioni, l’amministrazione penitenziaria ritenne corretto presentar loro il conto per vitto e alloggio pari a 415mila lire cadauno; somma per la quale non chiesero mai il rimborso nonostante ne avessero avuto diritto.
 

Il Maxiprocesso e l’addio di Antonino Caponnetto

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno combattuto fra Stato e mafia, uomini che la memoria conserva come un istante unico, mentre il tempo riconosce loro innegabile vittoria conservandone il prezioso ricordo. (https://terzopianeta.info)
 
Lontano dalla Sicilia i due magistrati conclusero l’impegno giudiziario che aprì il procedimento passato alla storia come il Maxiprocesso: 750mila pagine d’accusa nei confronti di 475 imputati. Ebbe inizio il 10 febbraio 1986 nell’aula bunker del carcere Ucciardone e per la prima volta la Giustizia si avvalse delle testimonianze dei pentiti. Senza che nulla arrivasse ai media per due mesi Giovanni Falcone tenne colloqui con Tommaso Buscetta, esponente di una cosca rivale dei Corleonesi attorno al quale era stata fatta terra bruciata. Mosso da un mero sentimento di vendetta esitò più volte e i timori lo spinsero anche a tentare il suicidio.

Il processo terminò il 16 dicembre 1987 con 346 condannati a un totale di 2665 anni di pene detentive e 11,5 miliardi di lire di multe. Gli ergastoli furono 19 e tra gli altri, vennero inflitti a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò.

Antonino Caponnetto, provato mentalmente e fisicamente, sentì di poter chiudere la propria esperienza a Palermo, certo di lasciare l’eredità a Giovanni Falcone, ma così non andò. Contro ogni previsione, il 19 gennaio 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura designò consigliere istruttore Antonino Meli, suscitando l’indignazione dello stesso Caponnetto, il quale esplose la sua amarezza commentando l’investitura come il risultato di «cinque, vergognose, letali astensioni e due voti di maggioranza».

A riguardo, Paolo Borsellino dichiarò che «si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio», mentre la decisione presa avrebbe provocato una grave involuzione: «Stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa».

Parole di fuoco che il 31 luglio 1988 gli costarono l’ammonizione del C.S.M.: «Per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, e forse questo lo avevo pure messo nel conto, ma quel che è peggio il Consiglio Superiore, immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo in conto, perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio».

Anni più tardi, durante un’intervista rilasciata a Gianni Minà, Antonino Caponnetto tornò con la memoria su quanto accadde e così rispose alla domanda “Chi ha distrutto il Pool Antimafia, Meli o Giammanco?”: «Ognuno ha fatto la sua parte. Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell’Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana».

In autunno, Antonino Meli sciolse definitivamente il Pool.

La mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile nella struttura stessa dello Stato.
Antonino Caponnetto

 

1992: 23 Maggio – 19 Luglio

In un clima sempre più infuocato i due magistrati si trovarono a dover sopportare subdole inimicizie, angherie, critiche e calunnie provenienti anche dal mondo della politica
Giovanni Falcone venne persino dipinto come l’autore di un finto attentato contro la sua persona con l’obiettivo di amicarsi il Consiglio Superiore della Magistratura. Il 21 giugno 1989, nei pressi della villa situata sul litorale siciliano dell’Addaura che il magistrato aveva affittato per il periodo estivo, gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice trovarono 58 cartucce di esplosivo e dopo alcuni anni di indagini, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato portarono alla condanna di Salvatore Biondino, Salvatore Riina e Antonino Madonia, come responsabili del fallito attentato.
Lo scrittore e politico Gerardo Chiaromonte, allora presidente della Commissione Antimafia, in riferimento a quanto accadde e alle insinuazioni mosse contro Falcone scrisse: «I seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».

Il 6 maggio 2004, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza di condanna per l’attentato dell’Addaura, scrisse: «Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio – prolungato nel tempo, proveniente da più parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme – diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone […] fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all’interno delle istituzioni stesse) tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti».

Denigrazione alla quale il giudice rispose con parole tanto amare, quanto reali: «Per essere credibili bisogna essere ammazzati — affermò durante un’intervista televisiva rilasciata al giornalista e scrittore Corrado Augias — questo è il Paese felice che se ti si pone una bomba sotto casa, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere».

Paolo Borsellino, non aveva mai nascosto le sue idee dopo la scomparsa di Falcone e non perse occasione di ribadirle il 25 giugno 1992, durante una manifestazione promossa dalla rivista MicroMega; sarà il suo ultimo intervento pubblico: «Falcone aveva cominciato a morire nel gennaio 1988, quando il CSM gli aveva preferito Antonino Meli come successore di Antonino Caponnetto. Con questo non voglio dire che la strage sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Anche se oggi tutti ci rendiamo conto che lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire quel giorno».
 

 

Il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino andò incontro al destino che conosceva.
Aveva più volte fatto pressione affinché la Questura disponesse un divieto e rimuovesse i veicoli parcheggiati in via D’Amelio, ma come una inutile pretesa la richiesta non fu mai esaudita e stando alle parole di Totò Riina — intercettato nel marzo 2014 mentre si trovava nel carcere di Opera — fu proprio il magistrato ad azionare la bomba nel momento in cui citofonò alla madre.

Nell’esplosione persero la vita anche 5 agenti della scorta: Emanuela Loi, 25 anni, prima agente donna della Polizia di Stato a venire uccisa in servizio; Agostino Catalano, 42 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, giunto volontariamente da Trieste dopo la Strage di Capaci; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Claudio Traina, 27 anni.


 

L’agenda rossa di Paolo Borsellino

Nei mesi successivi la strage di Capaci, Paolo Borsellino aveva gettato anima e corpo nelle indagini, come sempre appuntando riflessioni, rivelazioni e prove, sull’agenda rossa donatagli dall’Arma dei Carabinieri.

La moglie Agnese e i tre figli non ebbero dubbi nel dichiarare che anche la domenica mattina del 19 luglio 1992, il giudice l’aveva con sé, chiusa nella sua ventiquattrore poi ritrovata integra nel luogo della strage. Il verbale sull’apertura della stessa fu redatto dalla Procura di Caltanissetta circa 4 mesi dopo e per mano del questore La Barbera, venne riconsegnata alla primogenita Lucia, la quale lamentò all’istante l’assenza del diario, ma non le fu dato ascolto.

Depistaggi, accuse, proscioglimenti, testimonianze, versioni incongruenti; al vaglio dei magistrati passeranno agenti di polizia, carabinieri, magistrati, pentiti, ma l’agenda, non è mai stata ritrovata.

L’uomo che ha trafugato l’agenda rossa, sappia che io non gli darò tregua. Nessun italiano deve dargli tregua. 
Agnese Borsellino

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, magistrati che hanno combattuto fra Stato e mafia, uomini che la memoria conserva come un istante unico, mentre il tempo riconosce loro innegabile vittoria conservandone il prezioso ricordo. (https://terzopianeta.info)

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, da taluni additati di protagonismo, insabbiamenti, osarono fra le ombre senza arretrare e mentre la memoria li ricorda come un solo istante, il tempo ha riconosciuto loro la vittoria su coloro che direttamente e indirettamente li hanno sottratti alla vita.

Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo.
Paolo Borsellino

 
 
 
 

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