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Mario D’Agata, storia di un piccolo grande campione

 
L’avventura di Mario D’Agata cominciò ad Arezzo, città della Chimera incastonata nell’abbraccio delle dolci alture della Toscana sudorientale, culla di Petrarca, Vasari, Pier della Francesca, Pietro Aretino e poi Spinello, Michelangelo, il Monaco Guido inventor di note, sommi spiriti all’ombra dei quali, esile e dal nulla D’Agata s’elevò dipingendo intensa, romantica e indimenticabile parabola umana in voto al pugilato, da sempre musa ed espressione di passione, la medesima mediante cui in trama di storia e leggenda, forgiò animo fronteggiando avversari e prima ancor traversie ordite da sorte che, ancorché severa, accolta e con pertinacia, umiltà e benevolenza sgorgante dal sempiterno sorriso, amata.

La boxe mi ha insegnato ad essere forte, superare gli ostacoli della vita e, più importante, a sentirmi uguale agli altri.

Terzo dei sei figli di Rosa (1900-1969), casata Laurenzi, e Luigi (1900-1967), maresciallo dell’Esercito originario della catanese Fiumefreddo, Mario D’Agata nacque il 29 maggio 1926 e fato volle si schiudesse alla vita totalmente spoglio d’udito, sottoponendone dunque spirito a tempra, assommando avversità, agli stenti d’una famiglia ai limiti della sopravvivenza, ragion per cui, i genitori, dibattuti fra difficoltà e desiderio d’offrirgli un domani quanto più sereno, nel 1933, ne rimisero educazione al Regio Istituto per Sordomuti di Siena, fondato nel 1828 dal padre scolopio, filosofo e pedagogo genovese, Tommaso Pendola (1800-1883), per dar ospitalità a quelle creature provenienti delle classi disagiate, curandone l’istruzione dalla scuola dell’infanzia alla media inferiore, oltreché favorendone l’integrazione sociale a conclusion di decennale esperienza nella struttura, mettendo loro a disposizione laboratori di sartoria, calzoleria, disegno, tipografia e falegnameria.

D’Agata manifestò particolare attitudine verso la pittura, l’arte dell’intaglio e tornato ad Arezzo, diciassettenne, mise in pratica creando capolavori di ceramica decorata e legno inciso d’estrema delicatezza, benché scalpelli, mirette e sgorbie, mani posaron allorché nell’immediato dopoguerra, fortuitamente assistendo ad incontri di boxe tenuti da un nucleo di militari britannici di stanza in città, disciplina sin ad allora sconosciuta, cuor ne catturò e alla nobil arte, convinto l’eminente maestro Bruno Giuliattini, frequentando la rinomata Accademia Pugilistica Aretina e nel 1946, all’improbabile età di vent’anni, peso Gallo di 54kg su 157cm, esordì fra i dilettanti: guardia ortodossa, coriaceo incassatore ed inesauribile combattente dal caratteristico carburar col passar delle riprese, in Toscana fece presto il vuoto e disputati 110 match esaltati da 90 vittorie, nel 1950 avanzò richiesta d’accesso all’agonismo null’altro ottenendo se non amara delusione, giacché quantunque riconoscendone promettente avvenire, la Federazione Italiana, mai trovatasi a dover rispondere a domanda d’iscrizione inoltrata da un atleta sordo, ritenne inopportuno conceder idoneità. D’Agata non percepiva la campana e al termine delle riprese spettava all’arbitro avvisarlo toccandolo sulla spalla, nondimeno, in molti Paesi, inclusi gli Stati Uniti, tale fattore non precludeva l’ingresso al professionismo e l’affetto dei concittadini, in sempiterno legame proruppe a tumulto popolare ed in nome di Mariolino, furono coinvolti organi di stampa, lanciata una petizione raccogliendo in poche settimane migliaia di firme fra le quali, probabilmente determinante, l’autografo di Amintore Fanfani, all’epoca Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nel governo De Gasperi.

Federazione fu costretta a rassegnarsi ed ottenuta licenza, il 14 ottobre 1950, Mario D’Agata principiò parabola in arena senese, battendo ai punti sulle 6 riprese l’esperto Giuseppe Salardi e ad augural battesimo seguirono nove consecutivi successi, postremo dei quali riportato sul mancino mirese Arturo Paoletti, alloro italiano nel 1945 ed all’appuntamento arrivato vantando 41 vittorie su 59 incontri.

Cammino s’interruppe con una resa decretata dai cartellini ad agosto 1951, davanti a Kid Arcelli, al secolo Romolo Re, altrettanto fallendo opportunità di riparar a dicembre, dopo un pari con Giuseppe D’Augusta e un knockout tecnico inferto a Luigi Fasulo, al 3° dei fissati 10 round e se a febbraio del 1952, ancor più repentinamente annientò il romano Giuliano Catini, fulminandolo alla 2° ripresa, il 17 maggio, squalifica contro il mancino milanese Renato Denti, determinò terza battuta d’arresto. A lenir delusione il contratto con il procuratore sanfredianino Libero Cecchi della fiorentin fucina, Sempre Avanti Juventus, altresì legato alla scuderia Ignis sostenuta dal mecenate dello sport Giovanni Borghi, ed accordo, l’aretino celebrò liquidando Enzo Ganadu, Rino Stiaccini, Gaetano Annaloro, Giuseppe D’Augusta, i francesi Jacques Louni e Arthur Emboule, il monegasco Edmond Moletto ed il 26 settembre 1953, sotto i riflettori del Teatro Politeama di Arezzo, al cospetto di circa duemila spettatori, prevalendo sul cagliaritano Gianni Zuddas, argento olimpico ai Giochi londinesi del 1948 ed oro agli europei dilettanti di Oslo del 1949, Mario D’Agata si laureò campione italiano, conquistando alloro a quarantott’ore dal fallito assalto di Roland La Starza al titolo dei Massimi, detenuto da Rocco Francis Marchegiano, asceso all’empireo del pugilato come Rocky ‘The Brockton Blockbuster’ Marciano, leggenda d’origini abruzzo-campane, alla quale il toscano in simil espressione d’esplosività e tenacia, venne accostato in soprannome di Piccolo Marciano.
 

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Mario D’Agata Campione Italiano
L’Unità, 1953

 
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Intervallati da una sconfitta e un pari col parigino André Valignat, registrato alla Maison de la Mutualité della Ville Lumière, considerando la con questi rivalsa in terra natia, D’Agata collezionò seconda serie d’otto vittorie, tra gli altri superando Emile ‘Stella del Sud’ Chemama, il belga Alex Bollaert, onorando la cintura nella rivincita concessa a Zuddas e nella Palestra Gymnasium di Napoli — al cospetto dell’asso svedese Hasse Jeppson, numero 9 nei diari del calcio partenopeo alla voce «’o Banc ‘e Napule» in virtù d’alto ingaggio — respingendo l’offensiva del puteolano Luigi Fasulo, arrecandogli un profondo taglio sull’arcata sopracciliare da costringerlo a getto della spugna alla 4° campana e sul finire del 1954, volò in Australia ed al West Melbourne Stadium infiammò il patrio orgoglio degli emigrati italiani, dominando, il 19 novembre, su Robert Roy Wills — meglio noto al nome di Bobby ‘Bulimba Bull Ant’ Sinn — e il 10 dicembre, sul californiano William ‘Sweet Pea’ Peacock, ricevendo il plauso del mancino di Paddington — nella Hall of Fame della boxe nazionale — Jimmy Carruthers, detentore del massimo titolo Gallo dal ’52 al ’54, entusiasta tra gli astanti e con bontà dipingendo l’aretino, «tremendo, completo, delle doti di un vero combattente del ring, mai visto un picchiatore migliore».
 
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Australian Ring, 1954

 
A gennaio 1955, il Comitato Esecutivo della National Boxing Association, a un mese dall’ingiunzione a Robert Cohen di deporre corona mondiale per mancata difesa della stessa entro i limiti prefissati di novanta giorni, contro il messicano Raúl ‘El Ratón’ Macías Guevara — bronzo ai Giochi Panamericani del 1951 — elesse il sfidante di quest’ultimo nella contesa dell’orfano scettro, stabilita in data 9 marzo nelle sale dello storico Cow Palace della californiana Daly City ed appena il tempo di carezzar sogno, che destino ordì l’assurdo ed attentandone la carriera, gli impedì sbarcar negli Stati Uniti. Nel pomeriggio di sabato 12 febbraio, a una settimana dall’impegno in suolo oceaniano e rientro in Arezzo, celebrato d’acclamazioni e conferimento di Medaglia all’Onor Civico, atteso in palestra da Giuliattini, coi genitori e la sorella Mara dapprima si recò alla tintoria La Moderna, esercizio situato in zona centrale e di cui era cointeressato unitamente al cinquantanovenne gestore, Giovanni Petitto, sventurato commerciante, anch’egli fortuitamente fiumefreddese, spintosi in Toscana in volontà d’obliar vari naufragati progetti e risorger, ma viceversa rovinando oltre il concepibile: motivo d’appuntamento l’aver D’Agata appreso da ricezione d’ingiunzione di pagamento di 2 milioni di lire e d’atto di precetto dovuto ad una cambiale di centomila lire andata in protesto, d’avventato acquisto — attraversando l’attività un periodo di sofferenza finanziaria — d’alcuni macchinari effettuato dal socio, inevitabilmente acuendo così tensioni d’una situazione già critica a causa di molteplici circostanze e a risentimento dall’iridato espresso con peculiar mitezza, il catanese rispose estraendo rivoltella e nel peggior intento, mal valutò però l’animosa reazione di Mariolino, il quale difatti, immediato l’aggredì e mandandone a vuoto gli spari, riuscì a disarmarlo, ma non a frenarne l’ira ed invero, il catanese, divincolatosi, si precipitò nel retrobottega ed afferrato il fucile da caccia ivi custodito, a distanza ravvicinata aprì il fuoco all’indirizzo dell’atleta centrandolo all’emitorace destro e persin cogliendone la madre — al secondo probabile fatal colpo, impavidamente immolatasi a protezione del figlio — dopodiché dandosi alla fuga e D’Agata, ancor munito della pistola strappatagli, sebben gravemente ferito, si lanciò all’inseguimento sinché abbondante perdita di sangue — copiosa dal petto quanto dalla bocca — crollò a terra privo di conoscenza.

Petitto venne intercettato e condotto in carcere da una volante della Polizia — la Corte di Assise d’Arezzo, l’8 marzo del ’56, lo condannerà a 6 anni di reclusione — allarmata dai vicini residenti e da alcuni dei medesimi, le vittime furon trasportate all’ospedale Santa Maria Sopra i Ponti, dove, alla cinquantacinquenne Rosa Laurenzi, i medici indicarono prognosi di venticinque giorni, mentre a Mario D’Agata, il Prof. Raffaello Pazzagli, Primario del reparto di Chirurgia, all’indomani d’intervento al polmone sinistro, lacerato dal piombo, diagnosticò un periodo di recupero superiore ai tre mesi, d’acchito escludendone un ritorno alla boxe.

Non nutro rancore verso Petitto. Già paga con la prigione l’errore commesso.

 

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Mario D’Agata durante la degenza all’ospedale Santa Maria Sopra i Ponti: «A presto sul ring».

 
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L’Unità, 14 febbraio 1955

 
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Mario D’Agata con la madre e Luana Bacci, accolto dalla folla all’uscita dall’ospedale, 1955

 
A dispetto di previsioni, a poco più di dodici settimane dall’accaduto, il 25 maggio 1955, al Torino Esposizioni di San Salvario, storico quartiere del capoluogo piemontese ad oriente lambito dalle acque del Po, l’inarrendevole aretino disfidò sorte opponendosi al martinicano Arthur Emboulè e pochi minuti bastaron perché d’incanto, in cuor di Cecchi e Giuliattini, timori svanissero nel nulla e poema ripigliasse narrazione dal verso sospeso in Oceania, dipingendo D’Agata, avvolto dal calore del pubblico, tornar a danzar e sul rivale gradualmente prevalendo mediante rapide serie di montanti, poi, sfiancato, proseguendone demolizione sferrandogli possenti combinazioni al volto fin a costringerlo, all’ottava delle dieci stabilite riprese, al getto della spugna.

Nei successivi cinque mesi il toscano inanellò ancora otto successi, peraltro infliggendo K.O. al madrileno Pedro Paris — abbattuto alla 3° ripresa con un corto gancio al volto — al basco di Vitoria-Gasteiz, José Luis Martinez, all’8° round lasciato privo di sensi dopo avergli sferrato, ancora, un potente destro al petto e il 15 ottobre, al Palazzo del Ghiaccio di Milano — nel sottoclou d’una serata in cui incontro di cartello della riunione pugilistica fu tra il londinese Joe Lucy e Duilio Loi, affermatosi ai punti — al belga Jean Kidy, al tappeto alla quinta campana e dunque guadagnando confronto col già affrontato francese, all’appuntamento esibendo personale primato di 58 vittorie su 78 duelli, Andre Valignat, valido per il vacante titolo europeo dei Gallo: il 29 ottobre nella cornice del Palazzo dello Sport del capoluogo meneghino, davanti a circa 12mila spettatori, Mario D’Agata, sul quadrato comparve da veste nera bordata oro avvolto e sorridente, alle decine di fotografi, durante le prime 3 riprese si limitò a studiare il transalpino, temporeggiando e contenendone la foga, dal successivo suono del gong, cominciò a scardinarne guardia e logorarne tenuta, dand’aìre a crescente martellamento al quale il francese, stretto alle corde ed estenuato da incessante pioggia di ganci e montanti, in ultimo reagì scagliando una testata al viso dell’aretino e pertanto ricevendo ufficiale richiamo dell’arbitro, nondimeno, nel corso della 5° frazione, rinchiodato all’angolo e bersagliato, ripeté gesto ed incassato ulteriore ammonimento, a frustrazione ricedette subendo inevitabile squalifica e quindi consegnando cintura continentale, a Mario D’Agata.
 

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Mario D’Agata vs Andre Valignat
Titolo Europeo, 1955

 
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Mario D’Agata, Campione d’Europa

 
Sabato 10 dicembre, nella Basilica di Santa Maria Novella di Firenze, annata suggellò promettendo amor in «buona e cattiva sorte» a Luana Bacci, sanfredianina ed anch’ella sordomuta, conosciuta al ritorno dalla tournée australiana; la coppia sublimando unione dando alla luce, nel 1956, la figlia, l’unica, Annamaria: «La mamma e il babbo non hanno mai agito perché mi adattassi a loro, erano loro ad adattarsi a me».
 
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Nuova stagione l’atleta inaugurò battendo ai punti il filippino Cezario ‘Little Cezar’ Redondo ed il barcellonese Jesus Lucas Rubio, sconfitto a fine marzo al Teatro Mariani di Ravenna e verso metà maggio al Palazzo del Ghiaccio di Milano, mirando sicché a realizzar impresa di conquistar corona mondiale che, fin ad allora, in memoria del pugilato italiano, soltanto il sequalese ‘Gigante buono’, Primo Carnera, aveva compiuto, allorché al Madison Square Garden di New York, la sera del 29 giugno 1933, travolse il lituano Jack Sharkey ed opportunità — altresì di riscattarsi sul destino e scordar l’amaramente obbligata rinuncia all’assalto del soglio — a D’Agata si profilò ventitré anni esatti dopo, venerdì 29 giugno 1956, teatro dell’evento, lo Stadio Olimpico di Roma, l’avversario, il campione in carica RobertGambuchCohen, iridato boxeur franco-algerino, mobile e dall’insidioso destro, col quale l’aretino aveva incrociato guantoni allo Stadio Pépinière di Tunisi — complesso nell’occasione archiviando l’assoluto provento di 3.200.000 franchi — il 15 maggio 1954, quand’egli s’era appena impossessato dello scettro europeo e riportando sconfitta mai dimenticata, dacché verdetto, discusso e dai punti decretato, al termine d’un serrato e violento confronto durante cui, pur toccando tappeto, profondi tagli ad ambedue le arcate sopracciliari gli inferse e perciò — fiaba vuole — in petto conservando, speranza/sensazione, d’un giorno poterlo riaffrontare: Mario D’Agata arrivò nella Città Eterna alle 8 di giovedì mattina, in treno, affacciandosi sull’arena capitolina — in attesa del tutto esaurito segnato dai quarantamila tagliandi venduti, le poltrone a 20mila lire — soltanto al tramonto e trascorrendo poi notte di vigilia all’Imperial di via Veneto; alle 15 del seguente pomeriggio — orario d’apertura dei cancelli — le gradinate principiarono a gremirsi, con un settore in prossimità del ring — allestito al centro della Curva Sud — conformemente alle condizioni poste dal toscano, riservato all’Associazione Sordomuti ed alle 21 — frattanto Arezzo fremeva davanti ai pochi televisori presenti nelle proprie antiche mura e perlopiù a disposizione di bar e circoli — dopo l’ingresso dei cortei preceduti dalle bandiere italiana e francese, l’esecuzione degli inni nazionali e benedizione dell’organizzatore, Carlo Levi Della Vida (1914-1997), i rintocchi del gong dettaron l’inizio delle ostilità: consumati gli istanti di reciproco studio, Coehn accese la contesa provando a sfruttar la maggior rapidità e al contempo ad innervosir D’Agata, dalla corta distanza schivandone i siluri, attutendone l’offesa portando montanti, uno-due, cercando reiteratamente clinch e precipuamente, in anticipo sulla 3° campana sorprendendone la guardia con un gancio e una testata, replicando in risposta ad un colpo alla nuca ed assestata in pieno viso, ulteriormente al 5° round; accennando protesta unicamente in perplessità di sguardi, l’aretino continuò a tesser a tela e in essa — senza neppur profittar dello squarcio provocatogli all’arcata sopracciliare sinistra cogliendone esitazione in abbassamento ad una manciata di secondi dallo scader della 2° ripresa – lentamente imbrigliando il transalpino e col fluir dei minuti, insistendo a misurarne resistenza con affondi ai fianchi, pressandolo alle corde, infilando diretti ed in chiusura della 6° frazione, piazzando un destro alla mandibola d’un sempre più incerto Cohen, le cui gambe difatti demorsero imponendogli onta del tappeto: in ginocchio lasciò all’arbitro scandir conteggio e risollevandosi, quasi all’unisono, all’annunciar di campana dei sessanta secondi di pausa, però dall’angolo, al termine di breve dialogo col direttore d’incontro — l’inglese Teddy Waltham, nel 1966 designato referee del match per la corona dei Massimi tra Muhammed Ali e Harry Cooper — alzò le braccia in segno di resa: «Mario D’Agata — risuonò dagli altoparlanti — è Campione del Mondo», quando già il Mutino d’Arezzo esplodeva gioia e medesimamente la folla, travolgendo il settore della stampa e oltrepassato il fosso di protezione, salendo sul quadrato e gloriar ineguagliabile apogeo poetico.
 
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Mario D’Agata vs Robert Cohen
Titolo Mondiale Pesi Gallo, 1956

 
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Istante in cui Mario D’Agata sferra il fatal destro a Robert Cohen.

 
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Domenica dello Sport, 1956

 
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Gazzetta dello Sport

 
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La Nuova Stampa

 
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Mario D’Agata, Campione del Mondo

 
D’Agata difese il titolo dall’assalto del poderoso spagnolo di Tarrasa, Juan Sanchez Cardenas, poi del parigino Robert Tartari, ma il 1° aprile 1957, nello scenario dal tragico passato del Vel’ d’Hiv di Parigi, sebbene alla messa in palio della cintura mancasse approvazione della National Boxe Association, perse lo scettro ad opera del giovane e talentoso franco-algerino — nato a Costantina il 18 febbraio 1932 da famiglia ebrea ortodossa — AlphonseThe Little TerrorHalimi e non in minor misura, di circostanze al confine del surreale: D’Agata, salutato da un immenso stendardo italiano ed ammantato da un fascio di luce nel tratto verso l’agone, mostrò consueto approccio, limitandosi a controllare l’offesa di Halimi, senz’indugi invece entrato in disputa a testa bassa, finché all’epilogo del 3° round, corto circuito cagionò la caduta d’un frammento del lampadario sovrastante il ring che, incandescente, finì corsa sulla spalla del boxeur toscano, arrecandogli lievi ustioni, nonché esponendolo ai guantoni dell’aspirante erede al trono, lesto a servirsi dell’attimo. Nella notte calata sul Velodromo, gli atleti furono allontanati permettendo ai vigili del fuoco di spegnere principio d’incendio ed ai tecnici di ripristinare l’illuminazione, interventi per cui si resero necessari diciotto minuti e da simil intervallo, D’Agata uscì visibilmente disorientato dall’incidente, forse persin distratto dalla semplice sospensione: egli invero, sebben più aggressivo rispetto al preludio, apparve svuotato d’estro, essenzialmente basando l’azione sugli scambi ravvicinati, spesso rimanendo scoperto e comunque proponendo un pugilato privo del peculiar e lucido impeto, mancando di costanza nell’azioni, anche, poiché sovente spezzate da richiami dell’arbitro belga, Philippe De Backer, il quale, scaduti i centottanta secondi della quindicesima ed ultima ripresa, assegnò vittoria ai punti al comunque meritevole, Halimi.
 
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Mario D’Agata vs Alphonse Halimi, 1957

 
A Mario D’Agata, nonostante le richieste, non fu mai data possibilità di rivalsa ed in cuor, magari lieve, malinconia serbando, attenzione concentrò sui traguardi continentali ed il 27 ottobre 1957, si riappropriò dell’alloro europeo dei Pesi Gallo ai danni di Federico Scarponi, mandato K.O. allo Stadio Amsicora, impianto sportivo del capoluogo sardo in cui, archiviati quattro consecutivi successi, il 12 ottobre 1958, condannato dai punti, cintura porse al cagliaritano, campione tricolore in carica, Piero Rollo.
 
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Mario D’Agata vs Federico Scarponi
Titolo Europeo Pesi Gallo, 1957

 

 
Calcato il ring una decina di volte ancora, all’età di 36 anni, Mario D’Agata depose i guantoni, ritirandosi a Firenze, dove, il 4 aprile 2009, si donò all’eternità in cui incise storia tra le più incantevoli, a livello umano e sportivo.
 

Non esistono i sordomuti, non esistono muri invisibili. È la gente che non vede. Io sono stato un uomo fortunato. Madre Natura mi ha tolto una cosa e me ne ha regalate cento.

 

Arezzo, come un ciel terrestro è il lino
cerulo, il vento aulisce di viola.
Ove sono Uguccion della Faggiuola
e il cavalier mitrato Guglielmino?

Non vedo Certomondo e Campaldino,
né Buonconte forato nella gola.
Alla tua Pieve il balestruccio vola;
in San Francesco è Piero, e il suo giardino.

Non vedo nella polve i tuoi pedoni
carpone sotto il ventre dei cavalli
con le coltella in mano a sbudellarli.

Van sonetti del tuo Guitton, canzoni
del tuo Petrarca per colline e valli;
e con voce d’amore tu mi parli.

Bruna ti miro dall’aerea loggia
che t’alzò Benedetto da Maiano.
Fan ghirlanda le nubi ove Lignano
e Catenaia e Pietramala poggia.

E fànnoti ghirlande i tralci a foggia
di quelle onde i tuoi vasi ornò la mano
pieghevole del figulo pagano
quando per lui vivea l’argilla roggia.

Or rivive pel mio sogno il liberto
grèculo intento a figurar le tigri
l’evie i tripodi i tirsi le pantere.

Arar penso i tuoi campi e, nell’aperto
solco da’ buoi di Valdichiana impigri,
discoprir l’ansa infranta del cratere.

Aste in selva, stendardi al vento, elmetti
di cavalieri, Costantin securo,
Massenzio in fuga, Cosra morituro,
e le chiare fiumane e i cieli schietti!

Come innanzi a un giardin profondo io stetti,
o Pier della Francesca, innanzi al puro
fulgor de’ tuoi pennelli; e il sacro muro
moveano i fiati dei pugnaci petti.

Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzio
e la bella reina d’Asia oblìa
il mio cor; ché levasti più grand’ala!

Presso l’arca del crudo Pietramala
vidi il fiore di Magdala, Maria.
E un greco ritmo corse il pio silenzio.

Forte come una Pallade senz’armi,
non ella ai piè del mite Galileo
si prostrò serva, ma il furente Orfeo
dissetò arso dal furor dei carmi.

Qui da tristi occhi profanata parmi,
mentre a specchio del Ionio o dell’Egeo
degna è che s’alzi in bianco propileo
come sorella dei perfetti marmi.

Ellade eterna! Non il vaso d’olio
odorifero è quel di Deianira,
ov’essa chiuse il dono del Biforme?

Per lei Ristoro ode cantar le torme
degli astri, come il Samio; e su la lira
Guido Monaco tenta il modo eolio.

Gabriele D’Annunzio, Le città del silenzio, 1926

 
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Mario D’Agata premiato da Giovanni Borghi.

 
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Mario D’Agata e Giancarlo Garbelli

 
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Primo Carnera e Mario D’Agata

 
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Sandro e Guido Mazzinghi, Rocco Mazzola, Giancarlo Garbelli;
al centro, Mario D’Agata ed Ugo Tognazzi

 
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Mario D’Agata, Titolo Mondiale, 1956

 
 
 
 

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