Marina Cvetaeva: Poesie di amore e rivoluzione

 
 
Quella di Marina Cvetaeva è stata un’esistenza intensa e drammatica. Amante dell’amore che tentò di respirare ancor prima di vivere, fu autrice di poesie intime, crude, sfioranti il misticismo dei simbolisti, l’acmeismo e l’ardore del futurismo, rappresentando una delle maggiori, originali e complesse voci della letteratura del XX° secolo.

Marina CvetaevaMarina Ivanovna Cvetaeva (Мари́на Ива́новна Цвета́ева) nacque a Mosca l’8 ottobre del 1892, suo padre era Ivan Vladimirovič Cvetaeva (1847-1913), uomo che da una condizione di assoluta povertà divenne archeologo, filologo, artefice di numerosi e fra i più popolari testi di storia russa, nonché professore di Belle Arti alla prestigiosa Università statale Lomonosov e fondatore del Museo Alessandro III, l’attuale Museo Puškin.

Nel 1880 sposò Varvara Dmitrievna Ilova, virtuosa cantante e figlia dell’antinormannista Dmitri Ivanovich Ilovajskij. Da lei ebbe Valerija e Andrej, ma nove giorni dopo aver dato alla luce quest’ultimo, a causa di una malattia ematologica morì prematuramente nel 1890, all’età di 32 anni. Dodici mesi dopo, Cvetaeva si unì in seconde nozze a Marja Alexandrovna Mejn, pittrice ed eccellente musicista ventitreenne, di nobil polacche origini. Fra le migliori allieve di Nikolai G. Rubinstein (1835-1881), era una pianista dal talento cristallino ed in cuor suo avrebbe voluto intraprendere una carriera concertistica, tuttavia, così come fu costretta dalla rigida educazione genitoriale a rinunciare al sentimento per un uomo già sposato, anche quel sogno le fu proibito e rimase tale per sempre.

Sperò di riuscire a trasmettere desiderio e trasporto a Marina e alla di lei sorella Anastasija, nata il 15 settembre 1894. Quest’ultima però si concederà alla prosa, mentre la Cvetaeva, sebbene impegnata in lezioni di pianoforte all’Instituto musicale fondato e diretto da Valentina Yurievna Zograf-Plaksina, offrirà mani e anima alla composizione di versi. In quell’ambiente di febbrile cultura, presto sbocciò in lei fervida passione, tanto che le prime poesie, asprimendosi in russo, francese e tedesco, le scrisse all’età di 6 anni.

Nel 1902, la madre scoprì di essere affetta da tubercolosi e con la speranza di trovare nel clima e nella brezza marina le condizioni ideali per guarire, insieme alla famiglia si trasferì a Nervi, in Liguria, regione in cui già da tempo sorgevano numerosi sanatori. Non raramente infatti, anche i malati che non potevano accedere a terapie antibiotiche sul micobatterio, riuscivano comunque a rifiorire grazie alla salubrità dell’aria e all’esposizione solare. Inoltre, a partire dal soggiorno della zarina Marja Aleksandrovna del 1875, fino ad arrivare ai tanti rivoluzionari emigrati, in città avevano trovato residenza molti cittadini russi, la maggior parte dei quali appartenevano alla classe colta ed elitaria della società, costituendo negli anni un legame con il territorio tutt’oggi vivo.

Dopo una permanenza di circa un anno si spostarono a Losanna ed in seguito a Friburgo, dove Marina Cvetaeva ebbe modo di perfezionare le lingue frequentando istituti privati. Nell’estate del 1906, erano nuovamente entro i confini dell’Impero Russo, a Yalta e poi a Tarusa. Il 5 luglio però, nonostante le cure, la madre si spense all’età di 38 anni, portando con sé una vita di rimpianti e privazioni: l’amore, la musica e il più grande dispiacere di non aver visto crescere i propri figli.

 

Marina Cvetaeva: L’amore in poesia

Iscritta al collegio femminile moscovita Vera Nikolaevna von Derviz, Cvetaeva venne espulsa. Pensiero libero e spirito ribelle, ai libri scolastici aveva sempre anteposto i suoi Puškin, Hölderlin, Goethe, Rostand, Heine, Dumas. Prese il diploma al ginnasio Marja Gustavovna Bryuhonenko, quello che fu anche di Natalya Sats e Elena Dmitrievna D’jakonova, modella e mercante d’arte che sarà moglie di Paul Éluard, amante di Ernst e poi musa e compagna di Salvador Dalí.

Irrequieta e vorace di conoscenza, a 17 anni se ne andò a Parigi per seguire un corso di letteratura antica francese alla Sorbona, facendo ritorno in patria per rimaner affascinata dal linguaggio del fiorente movimento simbolista russo e quindi partecipare agli appuntamenti tenuti presso la Musagete, una casa editrice e soprattutto circolo ideologico esistito fra il 1909 e il 1917, che sotto l’appellativo di Apollo, guida delle Muse, discuteva e pubblicava principalmente poeti simbolisti e analisi mistico-filosofiche.

Nel 1910, anno in cui tra altro vengono a mancare Lev Tolstoj e Michail Vrubel’, di tasca propria Marina Cvetaeva pubblica Album Serale, una silloge immediatamente apprezzata da poeti autorevoli come Nikolaj Gumilëv, dallo stesso Maksimilian Vološin che l’aveva introdotta al Musagete e ancora da Valerij Bryusov, tra i fondatori di un simbolismo dal quale stava però allontanandosi a causa di un anarco-misticismo a cui tendevano molti scrittori del periodo.

Momento storico che oltre ai citati vedeva un panorama letterario comporsi di nomi quali Boris Pasternak, Anna Achmatova, Vladímir Majakóvskij e la poetessa iniziò a frequentare la residenza di Vološin, la ‘Casa del Poeta’ oggi museo e all’epoca autentico punto di riferimento dell’intellettualità russa: entravano e uscivano scrittori, artisti, filosofi, antroposofi e nel maggio 1911, alla sua prima visita, v’incontrò Sergej Efron, un editore eversivo di un anno più giovane e proveniente da una famiglia di rivoluzionari legati all’organizzazione Narodnaja Volja, Volontà del Popolo.

Io devo essere amata in modo del tutto straordinario, per poter amare straordinariamente

Il successivo 29 gennaio i due si sposarono, dando vita ad una unione sofferta, travagliata, in Cvetaeva convivono passionale anticonformismo e distruttiva devozione, molti furono i tradimenti da lei commessi, sia con uomini, sia con donne, fra cui Petja, fratello del coniuge, il comandante Konstantin Rodzevic, la poetessa Sofia Parnok, con cui ebbe un lungo e profondo rapporto e sebbene per Efron quelle relazioni fossero motivo di grande dolore, non si separò da lei ed altrettanto Marina rimase votata a lui, mai considerando quelli come un tradimento. Donna libera la cui fedeltà era rivolta al sentimento, all’anima, amava senza lasciarsi all’amore, elevato a entità onnicomprensiva ed eterea, denudato da ogni materia: «E in quell’aria beata non smettere finché puoi di commettere peccati».
 

Io voglio invece leggerezza,
libertà, comprensione,
non trattenere nessuno,
e che nessuno mi trattenga.
Tutta la mia vita
è una storia d’amore con la mia anima,
con la città in cui vivo,
con l’ albero al bordo della strada,
con l’aria.
E sono infinitamente felice

 
Il 18 settembre 1912 ebbero la loro prima figlia, Ariadna detta Alja e a far da cornice all’evento le due raccolte Lanterna Magica e Da due libri, mentre fra il 1913 e il 1915, scrisse le poesie che sarebbero dovute uscire con la silloge ‘Poemi Giovanili’, ma vedranno la luce solo dopo la scomparsa dell’autrice. Gli anni successivi sono invece quelli che porteranno alla sanguinosa rivoluzione bolscevica con conseguente caduta dell’Impero. Ad inizio 1917 il Paese è attraversato da una serie di tensioni sociali e quando la situazione precipitò, Efron si unì all’Armata Bianca, non lo rivedrà per cinque anni, ma nel frattempo, ad aprile, Marina Cvetaeva aveva messo al mondo la secondogenita Irina e da sola avrebbe dovuto affrontare uno dei più significativi sconvolgimenti avvenuti nell’intera storia della sua terra.

Appartenente alla classe borghese, si trovò improvvisamente indigente e catapultata in una realtà spaventosa con due figli da mantenere. Cercò lavoro, fu assunta al Narkomnats, il Commissariato Popolare delle Nazionalità, ma si scontrò con una società che non conosceva, ne rimase destabilizzata e non durò a lungo. Rivolgendo il pensiero al marito e alle figlie, nel suo diario appuntò: «Se Dio fa il miracolo di lasciarvi tra i vivi, vi verrò sempre dietro come un cagnolino». La dilagante carestia in cui riversa Mosca e senza nessuno a cui rivolgersi, la costrinsero però a una decisione straziante, separarsi dalle bambine per lasciarle in orfanotrofio con la speranza di far loro avere il giusto nutrimento, ma dopo breve tempo Alja si ammalò, mentre Irina trovò la morte.

Devastata dal dolore e dal rimpianto, nei giorni della rivoluzione Marina Cvetaeva scrisse molto, tenendo quaderni e diari in cui fermava quanto si trovava a vedere. La rivoluzione scoppiò nella sua vita con inevitabile violenza, il terrore, il disorientamento, la disperazione e il sentimento di quei giorni rimasero nelle sue poesie facendone una delle voci più importanti della letteratura russa, nei suoi versi ci sono gli emarginati, i ribelli, gli esiliati, scelse di stare dalla parte degli oppressi dei perseguitati. Nasceranno ‘Lo Zar Fanciulla’, ‘L’Accampamento dei Cigni’, in cui esprimeva il suo sostegno ai Menscevichi, ‘Dopo la Russia’, ‘Il prode’, ‘Mestiere’.

 

La fuga in Europa e la solitudine 

Nel ’21 per la prima volta ebbe notizia che Efron era vivo e aveva trovato asilo in Boemia. Per la poetessa arrivò il momento di fuggire e nel maggio del ’22, assieme alla figlia partì alla volta di Berlino, raggiungendo il marito nell’agosto successivo. Vi rimasero per 3 anni, periodo durante il quale intrecciò una intenso dialogo epistolare con Rainer Rilke e soprattutto con Boris Pasternak, mentre la sua fama tra i letterati emigrati andava sempre più consolidandosi.

Dopo la nascita del figlio Georgij, detto Mur, nel ’25 si trasferirono a Parigi, ma dodici anni più tardi, accusato di spionaggio e di aver preso parte a due omicidi a sfondo politico, Efron fuggì dalla Francia per fare ritorno in Russia, dove già da mesi era rientrata anche Alja. Marina Cvetaeva venne interrogata, ma ignara di qualunque azione compiuta dal marito e confusa dall’insistenza con cui la polizia tentava di avere informazioni, agli agenti rispose leggendo sue poesie in lingua francese. Ritenuta squilibrata e all’oscuro di tutto venne rilasciata.

Era ancora una volta sola e in miseria, mentre l’Europa, con l’ascesa del nazismo stava per essere distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale e nel ’39, inconsapevole di cosa l’avrebbe attesa, tornò in patria. Anastasija era in carcere e finirono arrestati anche Efron ed Arjadna, accusati di spionaggio dal compagno di quest’ultima, agente dell’NKVD, la polizia segreta sovietica che sarebbe poi diventata il KGB. Il dolore e la sofferenza avrebbero trovato culmine nel cuore di Marina Cvetaeva quando nell’estate del 1941, a seguito dell’attacco delle truppe tedesche, Sergej venne fucilato, mentre la figlia venne condannata a 8 anni di prigionia, non tornerà in libertà fino alla morte di Stalin.

Nella poetessa vi era ormai il desiderio di «non esistere».
«Già da un anno – scrisse in una delle sue ultime lettere – cerco con gli occhi un gancio, da un anno prendo le misure della morte» e il gancio lo trovò una domenica mattina, il 31 agosto del 1941, quando dopo aver lasciato Mosca per Ebalunga e aver supplicato per un lavoro di «sguattera nella mensa», Marina Cvetaeva scrisse una lettera e sospese una corda al soffitto.

Trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi

 

Versi per la Cecoslovacchia

O lacrime agli occhi,
Pianto d’ira e d’amore,
O Boemia in lacrime,
Spagna nel sangue,

O nera montagna
che ha tolto ogni luce.
È tempo, è tempo, è tempo
di ridare il biglietto al Creatore.

Mi rifiuto, di esistere.
Nel bailamme dei non uomini
mi rifiuto, di vivere.
Coi lupi nelle piazze

mi rifiuto, di ululare.
Con gli squali delle distese
mi rifiuto di nuotare,
giù, nella corrente delle schiene.

Non ho bisogno di cavità auricolari,
né di occhi che vedono.
Al tuo mondo dissennato
una sola risposta, il rifiuto.

 

Un bianco sole
e basse basse nubi 


Lungo gli orti,
dietro il muro bianco, 
un cimitero.
E sulla sabbia file di
spauracchi di paglia
sotto le traverse a statura d’uomo.
E penzolandomi oltre i paletti dello steccato
vedo strade alberi soldati sbandati 
una vecchia contadina
cosparso di sale grosso 
mastica e mastica
un tozzo di pane nero.
Come hanno potuto incolleriti
queste nere capanne signore.
E perché a tanti mitragliare il petto?
Passa un treno e ulula
e si mettono 
a ululare i soldati
e leva polvere
leva polvere la strada che indietreggia.
No morire! Meglio non essere mai nati
che questo lamentoso
penoso 
carcerario ululato
per le belle dalle nere ciglia.
Ah e pure cantano adesso i soldati!
Oh Signore Dio mio!
 

Indizi

Come spostando pietre
geme ogni giuntura.
Riconosco l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo
aperto alle bufere.
Riconosco l’amore dal lontano
di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo.
Riconosco l’amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.
Vandalo in un’aureola di vento.
Riconosco l’amore dallo strappo
delle più fedeli corde vocali
ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.
Riconosco l’amore dal boato,
dal trillo beato,
lungo tutto il corpo.

 

Scusate l’Amore

Ciao!
Né freccia né pietra:
Io! La più viva delle donne: vita.
Tutte le mie carezze,
al sonno incompiuto.
Vieni qui!
Vale a dire: Tienimi!

E’ questione di senso.

Afferrami così felice
e semplice come mi vedi!

Stringimi!
Che oggi lontano navighiamo,
Stringimi!
Che sciamo con un filo di seta!

Oggi porto una pelle nuova,
quella dorata, la settima!

Mio! Altro che ricompense
in cielo, se tra le braccia,
sulla bocca c’è la vita:
la felicità sfacciata
di dirti ciao ogni mattina!

 

Il grido delle stazioni

Grido delle stazioni: resta!
delle sale d’aspetto: oh, compassione!
grido delle stazioni secondarie:
non è l’esclamazione
di Dante:
“lasciate ogni speranza”?
E grido delle locomotive.
Con il ferro squassa
e col rombo di un’onda oceanica.
Agli sportelli delle casse
credevi che commerciassero in spazi?
In mari e terreferme?
Nella più viva delle carni:
carne siamo – non anime!
Labbra – non rose!
Via da noi? – No, su di noi
le ruote trasportano gli amati!
Alla tale e alla tal altra velocità all’ora.
Sportelli delle casse.
Ossicini d’una passione da giocatori.
Ha ragione quel qualcuno di noi
che disse: l’amore è uno scorticatoio!
“- La vita è rotaie! Non piangere!”
Massicciate – massicciate – massicciate…
(Negli occhi di questi ronzini
i proprietari guardano malvolentieri).
“Senza fosso e senza cucitura
non c’è felicità. – Con questo l’ho comprato,”
quella sarta aveva ragione.
Al che, dopo un silenzio: “Ci sono le traversine.”

 

Le cose dei poveri

Le cose dei poveri.
Forse la stuoia è una cosa?
Ed è una cosa – quest’asse?
Le cose dei poveri – pelle e ossa,
tutta carne, soltanto angoscia.

Dove le hanno prese? All’aspetto – da lontano,
dal profondo. Non affaticare l’occhio.
Le cose dei poveri – come dal costato:
l’ha ritagliate dal torace.

Lo scaffale? Un caso. L’attaccapanni? Un caso.
Un caso pure – questo fantasma
di poltrona. Cose? No, sterpi e rami secchi –
tutto un bosco d’ottobre per intero.

Timida mobilia della miseria!
Quanto vale tutta insieme? Un niente!
Da tempo cosa – palesemente in cielo!
Guardare te – fa male.

Da te, come dalle piaghe, è difficile
la vista peccaminosa distogliere.
Sedia viennese – ma che c’entra Vienna –
Chi? Quando? – terribile cosa.

Dalla migliore di tutte – qui disonorata
sarebbe – la casa? Macchè! – la soffitta
vostra. Soltanto qui è divenuta cosa
la cosa. Per voi un sopracciglio insorto a punto”?” –

sì, questo. Davanti al cencio importuno, vedovile,
che cosa? – il sopracciglio in su! (come un occhialino –
il sopracciglio!) È bravo a interrogare col sopracciglio
l’occhio. Certe volte anche l’occhio è un – oggetto.

Così, certe volte, è vuoto esso ed è arido –
l’occhio femminile, meraviglioso, grande,
tanto che – paragonate! – sembra spirito –
la tinozza , il catino col turchinetto – anima.

Alla pari col catino e col setaccio.
Sì – al re! Sì – in tribunale!

Ognuno, qui chiamato poeta,
quest’occhio ha conosciuto su di sé!

Della miseria – timida masserizie!
Ogni coltello – conosciuto di persona.
Come una creatura – che aspetta il mattino,
con qualcosa qui – con tutto fuori della finestra –

quella vuota, quella che dà – sui sobborghi –
quelli – hai letto la cronaca dei furti?
Cose della pulizia e dell’onore
segno di riconoscimento: non le accettano come bagaglio.

Perché è debole nelle giunture,
perché va in pezzi sotto gli occhi,
perché su cento carri
non si potrebbe trasportare…
in lacrime –
perché non è un tavolo, ma marito,
figlio. Non un armadio, ma il nostro
armadio.
Perché i cuori e le anime
non si danno al deposito bagagli.

Le cose dei poveri – più scipite e più secche:
più scipite del tiglio, più secche dei ceppi.
Le cose dei poveri – semplicemente – anime,
e per questo bruciano così facile.

 

La mia strada

La mia strada non passa vicino alla tua casa.
La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno.

E tuttavia io smarrisco il cammino
– specialmente di primavera! –
e tuttavia mi struggo per la gente
come fa il cane sotto la luna.

Ospite dappertutto gradita,
non lascio dormire nessuno!
E con il nonno gioco agli ossi,
e con il nipote – canto.

Di me non s’ingelosiscono le mogli:
io sono una voce e uno sguardo.
E a me nessun innamorato
ha mai costruito un palazzo.

Le vostre generosità non richieste
mi fanno ridere, mercanti!
Da me stessa mi erigo per la notte
e ponti e palazzi.

Ma ciò che dico non ascoltarlo
È tutto un inganno di donna –
Da sola al mattino demolisco
la mia creazione.

Le magioni,
come covoni di paglia – niente!
La mia strada non passa vicino alla tua casa.

 

Io Volo

Alla mia povera fragilità
guardi senza sprecar parole.

Tu sei di pietra, ma io canto.
Tu sei un monumento, ma io volo.

Io so che il più tenero maggio
all’occhio dell’Eternità è nulla.

Ma io sono un uccello e non incolparmi
se una facile legge m’è imposta.

 
 
 
 

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