La libertà di pensiero, fondamento dell’emancipazione
L'emotività per la conoscenza
«Quando è apparso chiaro il tipo di lesioni multiple di Lucy, nella mia mente è apparsa la sua immagine, e ho sentito un moto di empatia al di là del tempo e dello spazio, Lucy non era più semplicemente una raccolta di ossa; nella morte era diventata un individuo reale: un piccolo corpo spezzato che giace inerme ai piedi di un albero.»
A parlare John Kappelman, antropologo e professore nei dipartimenti di antropologia e scienze geologiche all’Università del Texas ad Austin e coordinatore dello studio sulla struttura interna dello scheletro di Lucy (l’australopiteco vissuto 3,2 milioni di anni fa i cui resti furono ritrovati in Etiopia il 24 novembre 1974), sulla base del quale si può supporre che la morte della stessa, sia sopraggiunta a seguito della caduta da un albero.
È dunque nell’apprendere la causa di un accadimento a lungo studiato, che lo stesso Kappelman raggiunge un tal livello d’empatia da percepirne concretamente l’emozione, creando una sorta di trait d’union in grado di calamitare estremi temporali su base evolutiva. Quasi a voler donare, a colei che ne avrebbe avuto diritto, una spiegazione logica che supporti la motivazione di una dipartita accidentale e, volendola considerare tale nella modalità in cui è giunta, perfino banale.
Se ne deduce un approccio professionale mosso dalla passione, sentimento che difficilmente vien da ricondurre all’ambito scientifico, in un connubio fra pathos e pragmatismo che risulta insolito immaginare. Considerando la pratica della scienza come studio settoriale dei saperi e allargando il discorso sul piano filosofico, essendo la filosofia “scienza del tutto”, se ne riscontra simile sfaccettatura nell’etimologia della stessa, essendo il termine philosophía, nella derivazione greca, composto da φιλεῖν (phileîn), “amare”, e σοφία (sophía), “sapienza”, ossia “Amore per la sapienza”. Ne ritorna, in entrambe le discipline, un metodo di lavoro dove alla razionalità sia intrinseca una spinta emotiva d’origine.
È una costante ricerca del principio esplicativo del succedersi sequenziale degli eventi, indagine archetipica che, nell’antica Grecia, presumibilmente in Talete (Mileto VII-VI secolo a.C.), diede origine al pensiero filosofico occidentale spostando, nell’empirico passaggio dall’utraterreno al reale, la componente causale nel fenomeno stesso. Evoluzione d’approccio che invece non avvenne nel pensiero orientale, fortemente influenzato da caste sacerdotali custodi di verità religiose all’epoca immutabili e, pertanto, indiscutibili a priori.
Il dialogo, mezzo per la conoscenza
È nella cosmologica ed ilozoistica visione della realtà che Talete, secondo il quale l’acqua è il principio di ogni cosa (pur continuando a ritenenerla creazione di Dio), pone inconsapevolmente le basi del pensiero critico, indirizzando di conseguenza l’uomo verso una possibilità d’opinione non più esclusivamente riferita al divino. Un primo passo verso la libertà che la sofistica (corrente filosofica, principalmente ateniese, sviluppatasi nel V secolo a.C.) indirizza sul piano antropologico, ponendo l’uomo al centro dell’interesse di studio.
Interesse che in Socrate (Atene, V-IV secolo a.C.), “il sofista ribelle”, raggiunge la massima espressione nella ricerca della verità attraverso il dialogo, unico mezzo etico e morale con il quale aspirare ad un livello di conoscenza puro e spirituale, riconoscendo la supremazia della dialettica (argomentativa) sulla retorica (persuasiva) ch’egli contestava agli stessi sofisti ritenendo l’attività persuasoria, nella sua dipendenza dall’opinione, priva di fondamenti veritieri assoluti e, di conseguenza, tacciabile di relativismo. Concetto dialettico che Platone (Atene, V-IV secolo a.C.), allievo prediletto di Socrate, proseguirà con dedizione, denigrando gli stessi sofisti appellandoli FILODOSSI, in quanto seguaci incalliti dell’opinione, volubile, a discapito del sapere profondo.
La condanna a morte dello stesso Socrate, sarà alla base del suo interesse nei confronti della politica e del rapporto che la stessa dovrebbe avere con la filosofia. Ridefinire la figura del filosofo in qualità d’educatore e non di politico (avendo la politica stessa peccato, portando alla morte uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi) sarà al centro del suo pensiero, unitamente alla ricerca del bene, in una concezione personale di stato-filosofo gerarchica ed antidemocratica. Una visione del sapere concepito dall’alto che, in Aristotele (VI secolo a.C), suo allievo, verrà resa trasversale a tutte le discipline, portando la filosofia ad essere considerata “scienza prima”, sia nell’empirico approccio esplicativo della realtà che nella libertà di giudizio che ne consegue.
La radicata convinzione aristotelica dell’imprescindibilità della filosofia dalla mente umana, partendo dalla cosmologia socratica e proseguendo nell’idealismo platonico, chiude dunque un cerchio ed apre una porta, posando pietra miliare al pensiero filosofico occidentale e ponendo sigillo autenticativo all’origine dello stesso.
«Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui.»
A differenza di Platone, in Aristotele non permane alcuna idea di mito, seppur riconoscendo in Dio il motore primo, immobile, che tutto muove.
L’affrancamento esplicito della filosofia dalla teologia, muoverà i primi passi a partire dalla rivoluzione astronomica fino a concretizzarsi definitivamente, a partire dal sedicesimo secolo, grazie alla rivoluzione scientifica.
La verità nel dubbio
È in Galileo Galilei (1564-1642) che il metodo scientifico prende forma, riconoscendo nella sperimentazione l’unico mezzo possibile per suffragare e confermate ipotesi. Con la medesima convinzione, egli sposa la visione cosmica copernicana dell’eliocentrismo (sistema solare), opposta al geocentrismo aristotelico-tolemaico (centralità della terra rispetto a sole e pianeti), sostenuto in tutto il Medioevo.
In Renato Cartesio (1596-1650), il razionalismo s’individualizza, riconoscendo nella capacità pensante dell’uomo e, soprattutto, nell’incertezza che in lui sorge osservando la realtà, il punto di partenza per la ricerca della verità.
“Cogito ergo sum, sive existo” (Io penso, dunque sono, ossia esisto)
Si viene in tal modo ad interporre “un’idea fra soggetto ed oggetto”, caposaldo della concezione analitica cartesiana, che riconosce nel dubbio la flessibilità intellettiva umana.
“Dubium sapientae initium” (Il dubbio è all’origine della saggezza)
L’illuminismo Kantiano (Immanuel Kant, 1724-1804), consoliderà definitivamente la concezione dell’uomo come protagonista di se stesso, nell’apprendimento della conoscenza in tre passaggi, senso-intelletto-ragione, che ne permetterà uno stato di libero arbitrio al di fuori di qualsiasi condizionamento esterno.
«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da un difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro.»
Sarà poi la filosofia irrazionale di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), a sgretolare il concetto di realtà oggettiva, rifacendosi ad una concezione nichilistica della condizione umana, da rivalutare in toto a partire dai valori primari di riferimento. La repressione delle pulsioni, causa prima del tormento interiore nell’uomo, secondo il pensiero nietzschiano ebbe origine dall’imprinting spirituale dato al sapere socratico-platonico, verso il quale Nietzsche si pose in completa antitesi come, di conseguenza, in atteggiamento polemico nei confronti del Cristianesimo stesso.
«Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!»
La pratica della filosofia, sempre più analitica e frammentaria, raggiungerà la sua mera espressione critica, spogliandosi di tutto il resto, nel XX secolo.
Identità e razionalità di pensiero percorse a cavallo di secoli, che le parole di Jean-Pierre Vernant (1914-2007), antropologo francese, storico della filosofia, delle religioni e studioso dell’età classica e della mitologia greca, definiscono in maniera esaustiva:
«La nascita della filosofia appare dunque in relazione con due grandi trasformazioni mentali: il pensiero positivo, che esclude ogni forma di realtà sovrannaturale e rifiuta l’implicita assimilazione stabilita dal mito tra fenomeni fisici e agenti divini; il pensiero astratto, che spoglia la realtà di tutta quella potenza di cambiamento che le attribuiva il mito, e rifiuta l’antica immagine dell’unione degli opposti in favore della formulazione in termini categorici del principio di identità.»
La costante ciclicità fra dolore e piacere
È dunque a partire dall’accezione filosofica del termine, che la criticità di pensiero assume un significato universale, rendendo l’uomo libero da qualsiasi vincolo che ne possa legare e condizionare opinioni, attitudini pensatorie e comportamentali. Una libertà di essere, apprendere, valutare ed esprimersi, al di fuori di qualsiasi preconcetto mentale e culturale.
Un’intrinseca spinta alla ricerca di verità, un bisogno interiore di colmare una lacuna informativa, che si rapporta all’oggetto d’indagine in un’ambivalenza correlativa simile a quella esistente fra dolore e piacere. Quasi esistesse, in entrambi i casi, una sorta d’interdipendenza, che porta gli stessi fattori a crescere o scemare in maniera direttamente proporzionale l’un dall’altro.
Maggiore è la sete di verità, più intensa e determinata sarà la ricerca della stessa, con conseguente gratificazione o frustrazione a seconda del risultato ottenuto e dell’energia spesa, come, allo stesso modo, appagamento o disinganno nei confronti di qualsiasi relazione che implichi un coinvolgimento emotivo, si misureranno nella quantità di sentimento che si è investito in essa. Ambivalenza di rapporto che negli anni ha caratterizzato il pensiero di alcuni filosofi e poeti, cristallizzandosi nelle parole di Arthur Schopenhauer (1788-1860)
«Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza […] La meraviglia filosofica […] è viceversa condizionata da un più elevato sviluppo dell’intelligenza individuale: tale condizione però non è certamente l’unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio.»
La concezione del piacere come assenza di dolore, implica l’interdipendenza degli stessi, rendendo il piacere un traguardo perseguibile esclusivamente attraverso la volontà umana, in un atto di abbandono provvisorio della condizione dolorosa nella quale, secondo Schopenhauer, l’uomo è destinato a ritornare, essendo che il raggiungimento della felicità si tramuta ben presto in assuefazione causando noia. L’esistenza umana nella sua interezza, vien dunque percepita come un’oscillazione perenne fra insofferenza ad uno stato di dolore ed una costante aspirazione al piacere. In assenza del primo, il secondo non esisterebbe.
«Tutta la vita umana scorre tra il desiderio e la soddisfazione. Il desiderio è per sua natura dolore: la soddisfazione si traduce presto in sazietà. Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova, e con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno. Quando il desiderio e la soddisfazione si seguono a intervalli non troppo lunghi né troppo brevi, la sofferenza che deriva da entrambi è ridotta al suo minimum, e si ha la vita più felice.»
L’ineluttabilità del dolore nel percorso esistenziale, volendo sconfinare in ambito poetico, risulta essere il cardine nella teoria del piacere di Giacomo Leopardi (1798-1837) secondo cui, la tendenza dell’uomo alla felicità (intesa come piacere astratto ed assoluto), presente in tutto il ciclo vitale, è infinita. Al contrario, i mezzi per raggiungerla, materiali e temporali, sono finiti. Da qui l’incongruenza di base che renderà lo stato di piacere stato di assuefazione, reindirizzando l’uomo verso un’ulteriore ricerca. Ne consegue una costante ciclicità fra dolore e piacere, attenuata dalla capacità immaginativa dell’uomo che, in quanto astratta, concepirà piaceri infiniti al di fuori della realtà, concretizzandosi in illusioni e speranze.
«Conseguito un piacere, l’anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perché il pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza.»
Il progresso umano nella libertà di pensiero
Il primo poeta al mondo di cui sia dato sapere fu una donna, Enḫeduanna, principessa e poetessa sumera. Vissuta intorno al XXIV secolo a.C., fu la figlia del re accadico Sargon di Akkad (fondatore del più antico impero della storia), nonché sacerdotessa della Dea Nanna a Ur, alla quale dedicò le sue poesie. Donna libera e determinata, ricamò parole considerate ancor oggi di eccezionale bellezza, testimoniando la propria potenza interiore nella scelta di scrivere in lingua sumerica, nonostante l’accadico fosse la lingua ufficiale dell’impero paterno. Seppur la sua opera più famosa trattasse di battaglie, la poetessa, nelle sue liriche, era solita soffermarsi sul concetto d’amore, anche se i versi più belli sono stati dedicati alla dea Inanna.
«Signora di tutti i Me, risplendente di luce. Donna virtuosa, vestita dello splendore divino (melam), diletta del Cielo e della Terra Ierodula del dio An, con il grande diadema. Colei che ama la tiara consona alla grande sacerdotessa. La cui mano impugna (tutti) i sette Me. O mia Signora, tu sei la guardiana di tutti i grandi Me. Tu hai riunito i Me, tu hai legato i Me alle tue mani. Tu hai raccolto i Me, tu hai stretto i Me al tuo petto. Come un drago tu hai lanciato il veleno sui territori dei nemici. Quando tu ruggisci alla terra come il dio della Tempesta, la vegetazione non può resisterti. Come un diluvio discendi dalla tua montagna. O potente del cielo e della terra, tu sei Inanna.»
Desiderio di conoscenza, libertà, piacere e dolore sono nati con l’uomo e nell’uomo. Nel corso dei secoli ed attraverso il pensiero di menti eccelse (solo una minima parte delle quali qui citate, in maniera atrocemente riduttiva e pertanto ingrata), la visione dell’esistenza ed il significato attribuito ad essa, hanno assunto forme diverse, plasmandosi a tempi, religioni e culture differenti. La sete di verità ha condotto l’uomo al di fuori dell’oscurità oppressiva dell’ignoranza, aprendo le porte ad una libertà di pensiero necessaria al suo progredire intellettivo, umano, fisico ed emotivo. La parola ha originato un moto interiore, ideale, superiore. Egli ha preso coscienza di sé come essere pensante e consapevolezza delle proprie pulsioni come parti connaturate all’esistenza. Ne è conseguita un’edonistica ricerca del piacere, contrapposta ad un’esperienza di dolore inevitabile in quanto ingenita ad esso.
Il vocabolo è stato l’incipit del divenire.
Che sia stato raffigurato, inciso sulla pietra, ricamato nell’inchiostro o semplicemente verbalizzato, nella potenza della comunicazione ha concretizzato la sua vittoria. Luoghi e tempi passano in secondo piano, non importa chi abbia scritto od enunciato, perché la parola ha attraversato secoli ed illuminato intelletti, rendendosi viva e potente, nel bene e nel male, nell’odio e nell’amore.
L’amore, colui che tutto muove.
Quella passione che John Kappelmann, osservando Lucy, deve aver sentito scorrere nelle vene a tal punto da venirne disorientato. Quell’empatia così travolgente da esserne sbalzato ai piedi di un albero senza tempo.
Considerando la filosofia, poesia del pensiero e la poesia, filosofia delle parole, allora forse è già tutto in noi, ciò che si dovrebbe desiderare, fra le nostre mani e nelle nostre vene, sui nostri rami e nelle nostre foglie.
Dopotutto Platone non aveva torto, a sostener che l’amore, folata di vento che smarrisce, seppur patimento dell’anima, sia l’unico rimedio a dolorosi affanni.
«L’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. […] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima, mio bell’amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore.»
Fotografia: “Mind the Birds”, Chris Rivera
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