Hans Christian Andersen: l’uomo oltre l’artista
Delicato animo in passaggio sul mondo, Hans Christian Andersen seppe trasfonder soavità di penna in opere di svariato genere, in filo rosso unite da un’indole scrittoria traboccante tenera grazia e commovente melanconia, tatuate sull’infinito in munifica elargizione di se stesso.
Essere utile al mondo è l’unico modo per essere felici.
Hans Cristhian Andersen
Il secondo giorno d’aprile del 1805, unione fra Hans Andersen (1782-1816), di professione calzolaio e venditore ambulante, e Anne Marie Andersdatter (1773/75-1833), convolati a nozze il 2 febbraio dello stesso anno, si concretizzò in primo vagito nella nascita del loro unico pargolo, Hans Christian, nella danese cittadina di Odense, sull’isola di Fionia, la medesima dove il neonato, raggiunta l’età scolare e dopo aver frequentato scuola materna in ambito privato, ricamò su di sé una prima istruzione di base all’interno di un istituto per bambini in condizioni di povertà, date le ristrettezze e limitanti possibilità economiche della famiglia, di cui facevano parte anche la nonna materna Ane Sørensdatter (ca.1743-1825) e la piccola Karen Marie Andersen (1799-1846) — frutto di precedente relazione di Anne Marie con Daniel Jørgensen Rosenvind (1773-1849) — vivendo assieme in un’unica stanza, le cui mura non furono ciò nondimeno in grado d’ostacolare la fervida fantasia dell’immaginoso Christian, frequentemente dedito al suo cimentarsi in teatrini e rappresentazioni casalinghe, di vicissitudini scambiate fra marionette e genialità, contemporaneamente appagando e nutrendo benevole aspettative genitoriali, purtroppo sperimentando sulla propria pelle, al suo undicesimo anno d’età, il pungente spasimo della sofferenza conseguito alla prematura morte del padre, all’epoca della scomparsa sol trentatreenne, spossatamente rientrato da napoleoniche campagne militari alle quali aveva preso parte nel chimerico auspicio di trarre profitto economico, arruolandosi come soldato ausiliario e nel tentar ruolo di tenente.
Dolorosa dipartita che tuttavia, malgrado brevità temporale meschinamente fattasi falce sull’incanto del potersi condivider fra babbo e figliolo, non impedì al paterno Hans di soffiare nello spirito d’erede, amor di musica e cultura letteraria nel premuroso avvicinarlo alle commedie dello scrittore, storico, filosofo e drammaturgo norvegese Ludving Holberg (1684-1754), ritenuto il padre delle letteratura danese, oltre che nell’affettuoso leggergli le appassionate storie contenute ne Le mille e una notte, nota raccolta, per mano di più e ignoti autori, fra le sue pagine custodente racconti orientali a variegata ambientazione storico-geografica, la cui prima stesura risalente al decimo secolo d.C. e diffondente una tecnica scrittoria rivoluzionaria, definita “cornice narrativa”, nell’inserirsi dell’autore stesso all’interno del racconto, come ampiamente accadrà nella novellistica dei secoli a seguire, oltre ai contenuti fortemente drammatici e sproni sull’emotività del lettore, con mirabile ricchezza di particolari descrittivi a tutto tondo, purtroppo non potendo viver medesima esperienza di lettura diretta la madre, in quanto analfabeta, ma sovvenendo alla tal lacuna con amorevoli racconti popolari, di generazione in generazione tramandati sul filo della tradizione.
Dopo un biennio di vedovanza, durante il quale come lavandaia tentò di mantenere da sola la propria prole, Anne Marie convolò a seconde nozze, l’8 luglio 1818, con Niels Jørgensen Gundersen (1787-1822), ma gradatamente, le difficoltà dell’intera esistenza in lei germinando insopportabile, greve, stridulo e soffocante tormento d’animo, precipitò nella dipendenza alcolica e lo sventurato Hans, venne spolpato d’ulteriore fetta d’affettività, seguitando esistenza in un profondo stato di solitudine, condizione scaturente da una personalità spiccatamente introversa e restia al condividersi con i coetanei, preferendo votarsi alla sterminata ed inesauribile sensibilità a lui propria ed in fede alla stessa amoreggiando coi suoni e profumi di Madre Natura, frattanto nutrendo di beltà la sua indole magnificamente libera e ricettiva, spesso trascorrendo le sue giornate nell’ascolto di favelle o leggende da parte di anziane ospiti dell’ospizio del paese, smodatamente inspirandone il fascino del folclore ed affamato della savia maniera di rievocare tipica di chi porta molta vita trascorsa sulle proprie spalle, pur non rinunciando ad arzigogolare favoleggiando.
Benché ragion di precoce patimento, la complicata situazione familiare nulla poté nei confronti della resilienza a lui connaturata, impagabile dote che lo rese immune al soccombere di fronte a disagevoli accadimenti, indi il giovane ragazzo mantenendosi tramite apprendistato in ambito tessile ed in seguito presso attività di sartoria e, non appena quattordicenne, intraprendendo nomade passo in quel di Copenaghen, in cuor suo il desio di realizzarsi come attore, nella capitale della Danimarca inevitabilmente ritrovandosi in uno strato sociale borghese a lui estraneo, data la sua provenienza da zone agresti di provincia marcatamente radicanti dal passato mentalità tanto impermeabile all’apertura, quanto imprescindibilmente legata alle tradizioni, nonché impregnata di credenze popolari refrattarie al mutarsi, ad ogni modo Andersen inserendosi nella celere evoluzione cittadina investendo se stesso nella scommessa di un futuro maggiormente appagante.
Hans Andersen:
dalle ambizioni teatrali agli esordi letterari
In Copenaghen Hans patì iniziale delusione nell’esser ritenuta la sua eccessiva magrezza, inidonea alla carriera teatrale, non per questo però s’avvilì, piuttosto guadagnandosi da vivere con lavori saltuari ed immancabilmente deriso per l’esile aspetto, l’asociale disposizione ed il muliebre atteggiamento, al suo interno persistendo nel resistere una forza snodata fin nelle viscere e gradatamente immunizzatasi alle turpi vessazioni del prossimo, riuscendo poco tempo dopo a saggiarsi, per clemenza ed interessamento del direttore di coro, tenore e insegnante italiano Giuseppe Antonio Vincenzo Siboni (1780-1839), come soprano al Royal Danish Theatre, ma il naturale modificarsi del suo timbro vocale, dovuto alla crescita, portandolo a concluder prima del tempo l’esperienza in ambito musicale ed aprendo nuova porta al suo sentire nel filar amor di penna tramite la stesura di racconti, il primo dei quali pubblicato nel 1822 al titolo The Ghost at Palnatoke’s Grave su stimolo dell’allora direttore del succitato teatro Jonas Collin (1776- 1861) mecenate e finanziario pubblico danese che ne rimarrà patrocinante e sincero amico vita natural durante.
E giustappunto ospitandolo nella propria dimora, fortuita occasione si presentò nella conoscenza del sovrano Federico VI di Danimarca (1768-1839) e suo susseguente farsi carico dell’istruzione di Hans Andersen, permise all’adolescente di frequentare il liceo di Slagelse, comune della Zelanda situato ad una novantina di chilometri dalla capitale, fino al 1826, anno in cui il suo percorso di studi continuò per una anno circa a Helsingør, nella regione di Hovedstaden, per concludersi in rientro a Copenaghen l’anno successivo, sotto la rassicurante ala di Collin, ed ivi varcando ingresso universitario nella facoltà di filosofia nel 1828.
Ricerca dell’affabile e rincuorante tepore di Jonas avvenne sull’orlo delle ripetute, ignobili, codarde e spregevoli prese in giro ad opera dei compagni liceali che, unite all’austero complesso di regolamentazioni regolanti i vari istituti, divennero per Hans ferita interiore e gattabuia per il suo spirito brado, in aggiunta all’infima e gretta abitudine d’uno dei direttori, il filosofo e traduttore Simon Sørensen Meislingal (1787-1856), di ripetergli quanto fosse stupido e destinato a non tagliare nessun traguardo, nella fallace convinzione d’essergli esortazione, all’inverso umiliandone la dignità con profonda, acuminata e gratuita offesa.
Al ritorno nella capitale corrisposero i suoi esordi letterari, inizialmente variando fra racconti, poesie, fiabe, romanzi, scritti satirici ed umoristici, articoli, opere teatrali e vaudevilles, vale a dire commedie in prosa alternate a strofe cantate, nel giro d’un quinquennio accumulando a bagaglio un’immane produzione, negli anni a seguire arricchita da ulteriori opere di genere succitato e da varie biografie ed autobiografie, in pochi anni elevandolo a ruolo di principale rappresentante della letteratura danese dell’epoca, Hans Andersen impreziosendo contenuti in un viaggio oltre i confini nazionali, effettuato nel 1831, originante narrazioni adornate del valore proprio al confrontarsi con differenti luoghi e culture, bevendone come da un calice colmo di nuove esperienze alle quali brindare in frizzante e percettivo entusiasmo.
Trascorso un prolifico biennio — arco temporale in cui giunsero a stesura i versi, dedicati e consegnati in dono a Federico VI, di Barn Jesus i en krybbe lå, inclusi nel componimento poetico-drammatico Aarets tolv Maaneder,Tegnede med Blæk og Pen e che il ragguardevole compositore, critico musicale e pianista tedesco Robert Alexander Schuman (1810-1856) mise in note consacrandoli in melodia di vasta risonanza — Hans poté giovarsi d’un viaggio culturale in suolo europeo, grazie al conseguimento d’una borsa di studio che gli permise, nel 1934, d’assaporare le delizie dell’errabonda marcia, per circa cinque mesi fra più nazioni errando per poi rivarcar natii confini, colmo della suggestiva conoscenza che si tatua sulla memoria del viandante infatuato del proprio pellegrinaggio in forestiere terre, rese conterranee in galoppo alla capacità di stupirsi, come spugne assorbendo micro universi al di fuori del proprio, nelle diversità completandosi.
da Märzveilchen, «Violette di marzo», di Hans Andersen
Il cielo, d’azzurro terso va schiudendosi,
nel mentre dalla rugiada si mostrano i fiori
e dalla finestra, tutto è scintillante germogliare.
Un giovane è da essa affacciato
e nei fiori sboccian due sorridenti occhi celesti,
violette di marzo, come mai ne ha viste.
Al respiro, la brina si dissolve.
Dai fiori, il ghiaccio si discioglie,
d’egli Dio abbia clemenza.
Il 1835 fu l’anno in cui prima pubblicazione di fiabe inaugurò una serie d’edizioni, quasi annuali, della durata di trentasette anni circa, seppur con ostica e fredda accoglienza della critica in primo debutto, destabilizzata e moralmente scossa dall’innovazione narrante di Andersen nel riproporre fiabe di radice popolare, come da tradizione, ma setacciate nei densi vissuti della sua esistenza prima d’esser dimorate fra pagine, inoltre rivelandosi antesignana penna nello srotolare a foglio storie create d’emblée e fuoriuscite come lava dalla vulcanica immaginazione a lui insita, delineando quella che per antonomasia si identifica come “fiaba d’autore”.
In contemporanea attività di romanziere Hans sagacemente cristallizzò ed esplose tramite i suoi personaggi una miscela di sentimenti per mezzo dei quali argomentar di sogni e d’amore oppure traslar esposizione sullo scenario social-politico corrente, rispettivamente nei due romanzi Kun en Spillemand e O.T., quest’ultimo del 1836, nelle molteplici traduzioni in più lingue, a livello europeo, progressivamente la sua nomea spandendosi ad ampio raggio, due anni più tardi finalmente iniziando a percepire compenso economico come letterato che, sommato ad una benefica sovvenzione, da parte del sovrano, nuovamente condusse il suo cammino oltre frontiera, nel 1840 Andersen gironzolando in tutta l’Europa a caccia di quel magnifico apprendere del quale solo il vorace assetato di sapere percepisce l’arida arsura, rimpatriando satollo del proprio scoprire e in En digters bazar, edito nel 1842, prorompendo soggettive avventure su più livelli di conoscenza, parallelamente mai demordendo nel dedicarsi a produzione teatrale, primigenio amor di palco che proprio il compianto padre gli permise di toccar con sguardo la prima volta, accompagnandolo al Regio Teatro di Odense.
Aumentando esponenzialmente la sua fama, in verità più al di fuori della Danimarca che al suo interno, visita in Inghilterra, su cortese invito del giornalista scozzese William Jerdan (1782-1869), eletto della Società degli Antiquari di Londra, pluridecennale direttore del periodico letterario britannico The Literary Gazette e Journal of Beles Lettres, Arts, Sciences, consentì ad Hans di conoscere, nel 1947, lo scrittore, giornalista e reporter di viaggi Charles John Huffam Dickens (1812-1870), derivandone gradito ed intenso rapporto d’amicizia mantenuto attivo da un decennio di scambi epistolari, poi interrottisi sulla scia d’incomprensioni, i due uomini accomunandosi in estremo trasporto e coinvolgimento emotivo nei confronti d’individui stretti e logorati nella devastante morsa dell’indigenza, specialmente in seguito agli effetti della rivoluzione industriale su talune categorie di lavoratori.
Su finire degli anni quaranta trampolino di lancio svettò Adersen verso una popolarità ormai vicina all’apice, in culla anglosassone attuandosi numerose edizioni e la Gran Bretagna divenendo fulcro di mercato letterario, ma il successo non scalfendo minimamente la passione dello scrittore il quale, dalla riconoscente Odense omaggiato come cittadino onorario, nel 1867, fin quasi alla fine dei suoi giorni rimase dedito agli svariati generi con i quali si era cimentato passeggiando per il suo eclettico arco vitale a braccetto della creatività, nel mentre positivamente recensito anche dalla critica come innovatore del genere fiabesco, anzitutto meritoriamente elogiato dal critico letterario e filosofo danese Georg Morris Cohen Brandes (1842-1927) ed esplodendo le sue fiabe in territorio statunitense per mezzo dell’editore e scrittore di libri dedicati all’infanzia Horace Elias Scudder (1838-1902), stimante a tal punto di Hans dal dispensargli un compenso economico di cospicua e rara portata, malgrado ciò l’uomo trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza in condizioni di miseria, incommensurabilmente sorretto da un colossale e cristallino senso d’orgoglio che lo portò a non accettare i numerosi aiuti provenienti da più persone, temendo di sentirsi sfregiato da una sorta d’intollerabile umiliazione.
Ad una seria caduta dal letto, avvenuta nel 1872, le cui conseguenze si fecero permanenti sul suo stato di salute, seguì un triennio, l’ultimo a lui concesso dal destino, durante il quale Hans Andersen alternò sentimenti contrapposti fra la consapevolezza del senile avanzar degli anni, complicati da una sopraggiunta patologia oncologica epatica, ed una spiccata energia d’animo che fino all’ultimo sospiro, esalato il 4 agosto del 1875, ospitato nell’abitazione dell’affezionato uomo d’affari e banchiere danese, Moritz Gerson Melchior (1816-1884) e della moglie Dorothea, due fra le più intime amicizie, gli rese la squisita e fine gioia del calore propagatosi in lui, fra spirito e mente, dall’affetto umano, quello che gli permise di batter l’ultimo palpito pacificamente pago della suo tragitto, percorso come una favella sospesa sulle avversità della sorte, mai silenzianti la soavità della sua voce e in passi di danzante inchiostro trascritta.
La mia vita è una bella storia, felice e piena di incidenti.
Hans Christian Andersen
The Tallow Candle: la fiaba ritrovata
Sebben spassionata aspirazione di Hans fosse l’affermarsi come romanziere e drammaturgo, furono le sue fiabe a pregiarlo dell’imperitura memoria che ancor oggi dolcemente lo posa nelle fanciullesche menti dei più piccini, eruttando la sua forza in uno stile emozionalmente imbastito sulle proprie traversie e dal quale ricavare storie nuove, originali e semplicemente sputate in estemporaneo getto di pathos, nonché cucendovi gratitudine ogniqualvolta il rimembrar manifestazioni d’altruismo a lui rivolte lo richiedesse, a partir dagli albori del suo scarabocchiar storielle, come fu tra le righe di The Tallow Candle, una fra le sue primissime favole, casualmente riportata alla luce nel 2012, dallo storico e genealogista Esben Brage (1940) nello spulciar, alla ricerca d’altro, ossia di documenti relativi alla famiglia Plum, in un archivio locale, dove la stessa era stata per decenni salvaguardata nelle sue settecento parole, con garbata dedica alla signora Bunkeflod firmata HC Andersen, gentil pensiero da esperti ipotizzato come grato gesto di riconoscenza nei confronti di una vedova presso la casa della quale il giovane Andersen era solito dedicarsi a lettura di testi classici, con rispetto prendendoli a prestito ed allo stesso tempo con la donna condividendo il dolore della precoce morte paterna e la successiva trascuratezza materna, a lei alleviando il vuoto lasciato dal marito, scomparso nel medesimo anno di nascita di Hans, oltre che dalla prematura dipartita del di lei figlio, qualche anno più tardi.
Come teorizzato dagli storici, alla morte della donna, avvenuta nel 1833, il manoscritto sarebbe stato donato alla famiglia Plum, a quella dei Bunkeflod legata da sincera e decennale amicizia, essendo stati ai tempi i due capi famiglia sacerdoti della Chiesa luterana danese, come peraltro sembrerebbe confermare una seconda intitolazione appuntata a firma di un componente della famiglia Bunkeflod, verosimilmente un altro figlio ancor vivente, in omaggio a tal “S. Plum”.
Il testo, narrante d’una candela tristemente mal considerata e ignorata nella più bieca indifferenza, già incastona fra i suoi vocaboli la tipicità degli accenti tematici di Andersen, più volte nel corso della sua produzione adagiati in ricordo della madre, donna, alle vicissitudini della quale Hans dedicò la toccante e lacrimevole fiaba della piccola fiammiferaria, che il fato volle protagonista d’un’infanzia dura ed infelice, prima del matrimonio passata fra mansioni lavorative ed una gravidanza inaspettata, in costante situazione d’estrema povertà e disagio sociale, background familiare che in Andersen s’unì al timore di crollare sotto il greve peso di squilibri mentali, dato l’esserne stato vittima il nonno paterno, Anders “Traes” Hansen (1754-1827), a dispetto di ciò il favolista degnamente cavalcando l’onde del suo mare interiore come un agile e indomito surfista.
La narrazione caratteristica ad Hans, di fiabe discorrendo di fiabe, rivoluzionò il precedente approccio alle stesse facendosi catarsi delle sue afflizioni e per mezzo della loro ideazione ex novo permettendone una costante rielaborazione, ripercorrendo a ritroso eventi passati e tramutandoli a personaggi e luoghi saturi di personale simbologia, dalla quale riuscire comunque a trarre metaforici insegnamenti a livello generale, da parte del lettore, spesso Andersen sfondando barricate sintattiche e mostrandosi in un lessico del tutto personale, talvolta disorganico eppure fascinoso nella sua illogica sensatezza, purtroppo defraudato del suo autentico significato da infedeli traduzioni trancianti la purezza del suo linguaggio, le cui sfumature unicamente percettibili qualora frutto di trasposizioni linguistiche certosine e direttamente derivanti dall’originario idioma danese.
Un affidarsi egli stesso ai propri scritti al fin di rinnovarsi e ritrovarsi uomo, a partir da quel ragazzo che sull’affilata lama d’un coltello trascinò i nudi piedi in concomitanza di tragici eventi, alle ferite delle superfici plantari corrispondendo un andatura da impavido e irrefrenabile funambolo che come asta d’equilibrio regga un raggio di sole, lenendosi piaghe e dalle proprie quotidiane rinascite abbigliandosi a contenuto di fiaba e sciogliendosi sul mondo.
Perno delle sue tematiche fu la diversità vissuta come motivo d’emarginazione, anziché come fonte di conoscenza dalla quale abbeverarsi nutrendosi d’eterogeneità, nel frequente riportar, per voce dei suoi personaggi, il non percepirsi a proprio agio in nessun contesto, la fine delle sue favole or lieta or intrisa di malinconia, una mestizia sol apparentemente evocante rassegnazione in quanto, ad un’analisi più approfondita, perennemente riferita all’affermazione di valori morali nobili ed elevati, nell’utilizzo d’immagini di sovente lugubri, più volte con ricorso a vere e proprie mutilazioni o metamorfosi rappresentanti un’allegorica resurrezione a nuova vita, medesimo rigenerarsi dell’autore costantemente tentato a piccoli passi e tenacemente in bilico fra se stesso e le convenzionali, quanto moraliste, concezioni borghesi dell’epoca a lui avverse, sebben uomo di ferventi valori a religiosa ispirazione.
Si snocciolò il suo amare, in quegli ideali, numerose volte infatuandone il cuore nei confronti di varie donne e più uomini, nella totalità dei casi mai corrisposto, esponendone il petto a strazianti disillusioni e fremiti rimasti sospesi nel limbo del disincanto, lì, ove tra i vari fervori arenatisi sul litorale dell’abbandono, un uomo in particolare ebbe e ad incastrarsi fra i suoi ammaliati neuroni, vale a dire Edvard Michael Gottlieb Birckner Collin (1808-1886), figlio dell’amico e benefattore Jonas, con il quale Hans si conosceva fin dall’infanzia, a partir dal 1928 innamorandosene perdutamente e con il quale ebbe a scambiarsi centinaia d’epistole restando il loro legame del tutto platonico, dato il non esser contraccambiato, se non sotto forma di fraterno e sincero affetto durevole nei decenni, ma se anche così non fosse stato, l’impossibilità, per Hans Andersen, di violare i seri principi etico-morali per lui invalicabili, non permettendo a se stesso di scavalcare l’inveterata concezione dell’amore contro natura, se rivolto a persona di medesimo genere, quando la natura dell’amore dovrebbe esclusivamente render conto a propri battiti, orientandosi dove gli stessi suggeriscono di pulsare, in tal maniera ascoltando se stessi, secondo la propria naturale e sacrosanta inclinazione.
Indi il fato lasciandolo solo, in balia di missive nelle quali racchiudere tutto il proprio ardore ed in forma cartacea dichiarandosi al proprio amato, pur limitandosi nel vivere la sua relazione fra utopia e crepacuore, le sue spoglie riposando nel terreno della famiglia Collin, accanto a quelle di Edvard e della moglie Henriette Oline Thyberg (1813-1894), fra i tre intrecciando l’eternità innocente e incessante vincolo, l’inerzia del suo corpo nulla comunque potendo sull’infinità di perle da Andersen lasciate in eredità ad ogni uomo, cultural patrimonio dal quale presero spunto ed ancor oggi attingono registrazioni audio, opere letterarie e teatrali, filmografia e recenti applicazioni tecnologiche di narrazione, risaltando la sua immagine in francobolli e statue commemorative in più paesi del mondo e il suo nome riecheggiando su vie, parchi, istituti e la sua presenza aleggiando fra le molteplici onorificenze in suo onore.
Ma, soprattutto, l’Hans Andersen raccontastorie riapparendo nel sognante sguardo d’ogni bimbo, al suo pender dalle labbra di familiari in tenera lettura, ogni volta rivivendo nei suoi amati personaggi, non maghi, non streghe, tantomeno fate, gnomi, elfi o folletti, ma animali parlanti, flora dalle umane attitudini e giocattoli, tanti giocattoli, reali simboli d’infanzia dallo scrittore dotati di quell’anima calamitica sulle candide menti dei bimbi, in primo luogo sullo stesso Andersen, fusosi nei suoi immaginari amori come il soldatino di stagno e la sua ballerina, egli stesso roteante in un suo mondo interiore che nell’immediato appare in quel suo volto, di mielosa espressione, cosparso d’una dolcezza disarmante e sprigionante una tal mitezza di sorriso, da parer quasi di potergli parlare, osservandolo in ogni piega della pelle e perdendosi nella meravigliosa irregolarità d’un profilo che sfida canoniche bellezze, nella sensazione d’incanto che ne traspare, riservata a coloro, come lui, in grado d’annusar la vita a piene narici, gustandola in tutte le sue sfaccettature, fra crucci e spensieratezze, nel gusto del viverla ad ogni costo, senza sprecarne una briciola, come fosse una bellissima fiaba, intrisa di miracolosa ordinarietà.
Il mondo intero è una serie di miracoli, ma siamo così abituati a loro che li chiamiamo cose ordinarie.
Hans Christian Andersen
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