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Giovanni Pascoli e la Bicocca, rifugio d’anima e poesia

Castelvecchio, 1903

 
Settecentesca e suggestiva villa, la Bicocca di Caprona, dall’omonimo colle toscano, si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica.
 

Il borgo della poesia

Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
 
Nel distretto di Media Valle del Serchio, in provincia di Lucca, s’estende Barga, comune del quale Castelvecchio è minuscola frazione e naturale paradiso boschivo custode della residenza del paradigmatico scrittore, nonché accademico e critico letterario, Giovanni Pascoli, carismatica penna nel quale inchiostro intimi vocaboli s’intrecciarono in danza su cartacee pagine ancor effondenti il lor elegiaco aroma.

La fascinosa villa concede visione di sé dopo aver dato scalata all’erta e brevissima salita d’un sinuoso sentiero al termine del quale tuffo nel passato, fra storia e poetica, dona subitaneo ristoro all’animo, in un attimo relegando all’oblio l’eventual affaticamento sopravvenuto in fase di scoscesa marcia, per chi desiasse raggiungerla deliziandosi “anima e core” nella serenità d’una pacifica camminata fra rocciose giogaie.

Nell’arieggiato spiazzo su cui, nel suggestivo panorama delle Alpi Apuane, la cima di Pania della Croce, il monte Forato ed il monte Gragno, che fraziona due delle più selvagge valli della Garfagnana, ovvero quelle della Turrite di Gallicano e della Turrite Cava, sembrano convergersi in natural concentricità sul filo dell’aria, la residenza appare alla vista elevandosi su tre piani, nella bellezza della sua armoniosa e peculiare struttura architettonica la cui facciata interna maestosamente si espone in doppio loggiato.
 

Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Bicocca di Giovanni Pascoli

 
Notevoli dimensioni caratterizzano l’edificio le cui mura, piacevolmente riscaldanti nella nuance dell’ocra, s’erigono al centro d’un ampio giardino in cui Madre Natura ed antropiche gesta seppero collaborare, in vicendevole riguardo, amalgamandosi fra vigne, orti, piante ornamentali, una limonata ed un vigneto che, ancor oggi, rendono quella mansueta, gradevole, cordiale ed accogliente atmosfera ottocentesca in cui il delicato e terso animo del poeta ebbe a ristorasi.

Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
 
Amor di fauna condusse Giovanni a depositare le amate spoglie dell’adorato cane Gulì, passato a miglior vita solamente due mesi prima di lui e con il quale convisse per diciotto anni, nella generosa terra del florido parco, sopra il cui suolo, protetto dall’abbraccio d’una lussureggiante siepe, venne posata colonna votiva a testimonianza di smisurato affetto ed infinità fedeltà che legò l’animale all’uomo e che, in ulteriori frammenti, s’adagiò con egual trasporto nel sepolcro in cui riposa il suo adorato merlo, Merlino, al quale l’accorate parole dedicategli su pietra risuonano in commovente afflato al sol leggerle, a riprova della ricettiva e raffinata sensibilità del Pascoli:

Merlino
N. In una macchia tirrena
nel 1888 – M. nel 1905
Nella sua casina
da ultimo cieco ma vedeva
penne bianche ma cantava
Ci voleva gli vogliamo bene
XVII anni fù con noi vivo
poverino ora qui dentro!
G.M.P.
11 Nov. MCMV

 

Urna di Merlino

 
Sepolcro di Gulì

 
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Giovanni Pascoli e Gulì in giardino, 1896

 
Lasciandosi nostalgicamente il giardino alle spalle e varcando l’ingresso al piano terra, cucina e sala da pranzo sono i primi due ambienti la cui visione sbalza istantaneamente indietro nel tempo, fra gli utensili appesi e riposti con la remota cura delle massaie che trapela dal padellame e dai suoi coperchi, dai mestoli e dalle teiere e ancora dai colini o dal passaverdure appesi alle pareti che, con lieve pizzico di fantasia, concretizzano alla mente le domestiche scene che ingemmano di bellezza la casalinga quotidianità, essenziale soffio di tepore ritemprante l’interior dimensione.

Il piccolo tavolo di legno sovrasta sedie impagliate le cui sedute accolsero appetiti bramosi di rifocillarsi, quanto intelletti desiderosi di ritrovarsi nella piacevolezza della conversazione, illuminata dai raggi solari nel corso del giorno e tiepidamente riscaldata da fratello fuoco in fiammeggiante ballata nelle sue lampade ad olio, durante la sera, indi privilegiando palato e narici di raffinato sapore ed accattivante fragranza propri ai vini di cui la sala da pranzo espone alcune bottiglie da collezione, sulle quali la polvere può di tanto in tanto divenire protagonista di beltà senza denigrazione alcuna nei suoi confronti, beatamente conscia dell’essere, in fondo, impalpabile e piroettante vortice di vissuti, materializzatasi in microscopici granelli delicatamente posatisi in temporali strati sulla remota oggettistica e divenuti staffetta fra passato e presente, agli occhi dei visitatori.

E ancora il camino, dove vien quasi naturale immaginarsi il poeta, assorto fra una poesia ed un buon bicchiere, completamente rapito dalla scrittura e dalla di lei seducente attrattiva, focolare ch’egli ebbe tuttavia a far incassare al fin di tutelare, risparmiandone la malevole devastazione, l’alveare che s’era costituito a suo interno sotto la paziente, intensa e zelante operosità delle sorelle api, parallela all’indulgente bontà del buon vate.
 

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Cucina

 
Sala da pranzo

 
Il primo piano è un’esplosione esistenziale attraverso la quale rivivere le fasi più significative fasi della vita di Giovanni, attestati e fotografie abbigliano difatti le pareti di quello che fu il suo studio ove, i legnosi piani delle sue scrivanie, utilizzate differentemente a seconda che si dedicasse ad ispirata stesura di poesie, appassionata lettura d’autori latini o galvanizzati studi danteschi, ancor riportan in eco uditivo le azioni delle sue mani, quanto alla vista quelle che potrebbero esser state le sue movenze, le sue pause, le sue riflessioni, verosimilmente eruttate in coinvolta sete di sapere nello sfogliar le fragranti pagine dell’immensa moltitudine di testi che resilienti e generosi scaffali di biblioteca ospitano in secolare appoggio.
 
Studio

 
Studio

 
Studio

 
Ragguardevole panorama letterario tanto vasto quanto quello naturale visonabile dalla terrazza, soprannominata l’Altana, dalla quale raccogliere in unico sguardo l’intero borgo, poi perdendosi a vista d’occhio fra le montuose distese del subappennino toscano; peraltro idilliaca loggia all’interno della quale presumibilmente il poeta verseggiò Ora di Barga, ode facente parte della raccolta I Canti di Castelvecchio composta nel 1903:

Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell’ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.

Tu dici, È l’ora, tu dici, È tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo,
cose ch’han molti secoli o un anno
o un’ora, e quelle nubi che vanno.

Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d’ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l’altro risponde,
e, quando altrove l’anima è fissa,
gli strilli d’una cincia che rissa.

E suona ancora l’ora, e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m’incuora:
mi dice, È tardi; mi dice, È l’ora.

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi;
ma un poco ancora lascia che guardi.

Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch’io viva del mio passato;
se c’è sul bronco sempre quel fiore,
s’io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d’ombra romita
lascia ch’io pianga su la mia vita!

E suona ancora l’ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l’ora! Sì, ritorniamo
dove son quelli ch’amano ed amo.

 
 

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Altana con arnia in legno

 
Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
 
Chiusura di giornata ed entrata nella notte svolsero il proprio susseguirsi vitale nelle stanze da letto dell’autore e della sorella Mariù, la prima arredata con camera qui giunta, quanto fedelmente ricostruita, da Bologna, all’interno della quale lo stesso esalò l’ultimo respiro; quella dell’amata sorella a tutt’oggi custodente una vecchia macchina sulla quale ebbe probabilmente a dedicarsi in aggraziata e laboriosa attività di cucito, di tanto in tanto ritirandosi in preghiera fra piccoli libri ed un rosario, entrambi intrisi della sua profonda e limpida elezione spirituale, la medesima che la portò ad esprimere volontà secondo cui, annualmente, venisse tenuta funzione commemorativa del Pascoli, nell’anniversario della sua morte.
 
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Chiesa San Niccolò sullo sfondo del vigneto

 
In fondo al verdeggiante giardino, deliziosamente ornato d’ammalianti panchine in richiamo alla confidenzial coscienza del luogo, è situata una chiesetta di famiglia, detta di San Niccolò e posta a fronte della facciata principale, che preserva le care salme dei due fratelli, ma è sol dei di lor resti mortali che alla terra fu concessa protettiva custodia, poiché ai cieli vennero destinate le due anime degli stessi, suggellate dalla rara, mirabile, esemplare, incantevole e stupefacente affinità che incessantemente li legò nel più nobile e puro dei sentimenti e che la sorella ulteriormente manifestò nell’apertura d’un asilo, all’interno della tenuta, come riporta lapide al suo ingresso, su espressa ed illimitatamente affezionata volontà dello stesso Pascoli:

Questo asilo eresse per i bimbi
di Castelvecchio Maria Pascoli e dedico in
perenne testimonianza l’amore al
la memoria dei tanto lacrimati genitori
Ruggero e Caterina Vincenzi Aloccatelli
per desiderio espresso in vita dell’adorato
fratello Giovanni che amava con
tenerezza paterna i piccoli eredi di Gesù.
MCMXXXIV – XIII

 

Giovanni Pascoli e la Bicocca

Quella che Pascoli amava definire «una bicocca con intorno un pò d’orto e di selva», non fu meramente un semplice luogo in cui alloggiare, ma divenne personale rifugio gradatamente rigenerante, una sorta di sutura alle laceranti ferite, impietosamente apposte dalla sorte sul suo romito animo, ch’egli ebbe la forza di mai trasmutare a cieca collera, frattanto mai rinunciando a lasciarsi soavemente sedurre dalla grazia della natura ed animosamente ordendo la sua tela esistenziale in stretto rapporto con i suoi figli animali, altrettanto giovandosi dell’attrattiva in lui suscitata dalla ricca vegetazione che, con dedita costanza, abbarbicò al suolo in simbiosi a se stesso.

Un arricchimento d’iridi germinate su pioppi, querce, castagni, ulivi, pini, viti, limoni, noci e piante varie sulle quali rifiorire psichicamente sotto forma di versi e restituendo voce al proprio interior infante, fugacemente ammutolito tra indicibili sofferenze intersecanti il suo arco vitale, in straziante ed acuta sferzata di cuore.
 

Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Giovanni Pascoli, Livorno, 1892

 
Ritenuto, a pari merito con il poeta, scrittore, drammaturgo, militare, politico e patriota Gabriele D’Annunzio (1863-1938), come il più grande poeta italiano del decadentismo, il neonato Giovanni espresse suo primo vagito, nell’ultimo giorno del 1855, in quello che ai tempi era comune forlinese di San Mauro di Romagna, in suo onore poi divenuto San Mauro Pascoli, a poco meno di trecento chilometri di distanza dalla sua prediletta Castelvecchio.

Quartogenito di dieci figli, il piccolo pargolo venne accolto in un conteso familiare economicamente abbiente, ma fanciullesca serenità venne presto scossa e in un respiro tagliato quando, da poco undicenne, il padre Ruggero (1815-1867), all’epoca amministratore de La Torre, proprietà terriera dei principi Torlonia, potenti sarti e mercanti di tessuti in quel di Roma, venne assassinato al suo cinquantaduesimo anno di vita, indelebilmente tracciando tragici schizzi d’angoscia sulla psicologia in fase di sviluppo dell’emotivo giovinetto suo figliolo, in tal modo marchiandone il sentire ad opprimente e tribolante patimento.
 

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Ruggero Pascoli e Caterina Vincenzi Alloccatelli con tre dei dieci figli, 1867

 
Sebben le circostanze dell’assassinio non furono mai del tutto chiarite, forti sospetti della famiglia si direzionarono nei confronti d’un agiato fattore subentrato allo sfortunato Ruggero in seguito alla sua uccisione, omicidio il cui grido di dolore, aprendosi in irreversibile voragine nel petto del Pascoli, ne fuoriuscirà trentasei anni dopo, fra strazianti endecasillabi, nella poesia La cavalla storna — anch’essa, come la succitata, contenuta ne I Canti di Castelvecchio — in memoria del padre che, per l’appunto, venne ferito a morte mentre si trovava a cavallo al rientro dal lavoro:

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.

“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome…Sonò alto un nitrito.

Supplizio a cui, nel giro di pochi anni a seguire, s’aggiunse nefasta carrellata di furti affettivi posando morte la sua falce sulla madre dello sciagurato poeta, una sorella e due fratelli, forse un terzo, in tal modo decimando una famiglia che già anni addietro, nella perdita di due figli piccolissimi, aveva tristemente sperimentato insanabili tormenti.

A tragedia avvenuta, le due sorelle Ida e Maria intrapresero percorso di studi all’interno d’un convento di monache agostiniane, ove restarono per una decade sotto responsabile cura della zia materna, Caterina, poi rivolgendosi al fratello Giovanni, in quel periodo laureatosi ed insegnante in un liceo a Matera, nella richiesta d’occuparsi d’ambedue ed in un certo qual senso ricostruire un piccolo nucleo familiare sui cocci del precedente.

Il giovane, all’epoca ventisettenne, apparentemente sembrava essersi rinvigorito dedicandosi in toto allo studio e ad interessi politici, tuttavia fermamente rimanendo alla costante ed ossessiva ricerca della mano che pose fine al battito di suo padre, senza per questo mai cedere a sentimenti d’odio o vendetta.
 

Ida, Giovanni e Maria Pascoli, 1892

 
Ruolo di professore universitario gli impose, al fin d’assolvere ogni richiesta lavorativa, frequenti spostamenti in più cittadine, in lui sviluppando una nascente e sempre più pressante esigenza di ricondurre il proprio passo errante in quell’ambiente rurale in cui erano le sue radici, decidendo pertanto, insieme al desiderio di riunirsi a fissa dimora con la sorella Maria, dopo che il matrimonio d’Ida era da lui stato vissuto come una nuova crepa sull’avvenuto ricongiungimento familiare, di mettersi alla ricerca d’un’abitazione in agreste territorio, per benefica casualità venendo a conoscenza, tramite suggerimento d’un paio d’amici originari di Barga, dell’esistenza di quello che sarebbe divenuto il suo paradisiaco e salutare asilo.

Dopo prima visita in loco, per raggiungere il quale, una volta sceso alla stazione di Lucca, furono necessarie altre cinque ore di carrozza, l’entusiasta Pascoli decise d’affittare, poi acquistandola nel 1902, quella che allora era proprietà della famiglia Cardosi-Carrara ed ivi traslocando volutamente nella stessa giornata di metà ottobre durante la quale, secoli addietro, ebbe i natali il sommo poeta Publio Virgilio Marone (70 a.C. – 19 a.C.), in segno d’infinita stima nei suoi confronti e nella coeva speranza di rinascere interiormente giovandosi dell’influenza di quella splendida casupola nella quale fuggire tra un impegno di docenza e l’altro, come infatti avvenne, divenendo la stessa ovattato “nido” e sereno fulcro della sua produzione letteraria.

Montane mura fra le quali i due fratelli seppero ridar vita ad una fraterna famiglia sentendo d’appartenerle e dedicandosi l’un all’altra in maniera assoluta, così come fecero negli arredi, eufonicamente amalgamando ricordi ed oggetti in sacrale inviolabilità e ricreando quel confortevole clima respirato durante l’infanzia, ciò nondimeno ben combinandolo con le consapevolezze giunte nella fase adulta, in maturazione di personalità, nonostante le mutilazioni di sentimento loro inferte in giovinezza.

Eccoci qui noi due, il fratello rimasto il più grande e la sorella che era la più piccina, eccoci qui soli soli con non altra compagnia che un povero buon canino. La sorella era troppo misera per maritarsi, il fratello troppo tenero per darle una dominatrice nella casa che ella mi pulisce e abbellisce da tanti anni.
Giovanni Pascoli, in una lettera del 1904 a Notarbartolo

Reminiscenze di vissuti più volte riaffioranti fra pascoliane rime come stelle cadenti sul vuoto, le stesse che infiammarono il cielo nella notte di San Silvestro, quel decimo giorno d’agosto in cui a Ruggero venne definitivamente interrotto il respiro e in riferimento al quale urlante ed addolorata voce d’orfano si fissò fra rime nella sconsolata poesia X agosto, al genitore dedicata:

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

Amara contrizione che ai posteri si fa insegnamento nella concomitante e cocciuta determinazione a non soccombere allo spasimo ed a mantener tenacemente aperto un varco fra se stessi ed il proprio “fanciullino” interiore, quella piccola creatura alla quale il Pascoli seppe rimaner lealmente devoto fin all’ultima sua esalazione d’aria, in assidua ammirazione nei confronti della natura che ne accolse le righe più potenti.

A seguito della suo trapasso a miglior vita, la sorella Maria, che a lui sopravvisse per più d’un quarantennio, divenne perseverante paladina del fratello, prodigandosi in una meticolosa raccolta e catalogazione di documenti, missive e scritti di vario genere, adoperandosi personalmente affinché la sua figura giungesse ai posteri nella maggior completezza possibile ed alla sua morte, avvenuta nel 1953, lasciando l’intero stabile, e quanto fra le sue mura custodito, al comune di Barga, con obbligo di degna conservazione, gentilmente concedendo agli occhi di chiunque desideri sperimentarsi nella vista delle sue stanze, la possibilità di riagganciarsi ad antichi valori d’un animo vissuto in balia delle proprie dolenze, sebben stoico nel rimanere a galla sulle stesse, fra una lacrima ed un getto d’inchiostro, in assoluta interconnessione al portentoso splendore del creato.

Monumento nazionale e indiscusso patrimonio architettonico, naturalistico, culturale e letterario, quella che venne altresì soprannominata la “bicocca di Caprona” in Giovanni Pascoli s’elevò sullo sfondo del suo risoluto tendere alle proprie radici nel tentativo d’evolvere, a partire dall’improvviso e violento spezzarsi delle stesse, verso un quieto futuro, in aggancio al proprio passato. La sua bicocca fu il provvidenziale innesto sul presente, eutrofico tassello ricostituente il trapassato rapporto affettivo nella lenta consapevolezza e successiva rielaborazione di un non-ritorno, lentamente imparando a ninnarsi in nostalgiche rievocazioni piuttosto che scivolar nel viscerale baratro internamente scavato dall’irruenza delle assenze.

Pareti custodenti riservati e confortevoli vani in cui sperimentarsi in una sorta di rapporto paterno con la sorella Maria, la sua Mariù, ultimogenita della famiglia che a sua volta seppe far da madre al tanto stimato fratello e sempre lei che con ardore ne curò munificamente ogni suo lascito, tangibile o concettuale che fosse.

Solitario, errabondo, ponderato, sapiente, riflessivo, cordiale, determinato, il poeta dal tenero fanciullo interiore fu arsura e sincrono refrigerio di se stesso, perfettamente in grado di rifuggire qualsiasi confine ed in tal ottica aderendo al decadentismo seppur mai mancando di restare in attento ascolto del proprio ego; alienazione dalla società dell’epoca, la sua, in aperto contrasto alla ragione come riferimento primo, al contrario in fidente riferimento a tradizionali valori patriottici e di libertà, estranei a logiche improntate esclusivamente al guadagno ed alle lusinghe del progresso, tuttavia differenziandosi dalla maggior parte dei “poeti maledetti” nella scelta di rimanere umilmente concentrato su se stesso e sui propri affetti, fra terra e cielo.

Accoccolato nella sua ammalliante reggia sospesa fra promontori, ecco dunque ch’egli seppe ricollegarsi a sua madre, quanto a suo padre, entrambi percependoli ed afferrandoli attraverso ogni foglia, ogni fiore, ogni filo d’erba ed ancora attraverso preziosi oggetti casalinghi testimoni di remote gestualità da custodire gelosamente, filtrare a fil di pelle e rigettare a colpi di poetica penna, fra visione e sentimento.

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.
Giovanni Pascoli

 
Settecentesca e suggestiva villa toscana, la Bicocca di Caprona, dall'omonimo colle si staglia conservando poetica memoria di Giovanni Pascoli, il quale, da meditato 15 ottobre 1895, la elesse dimora e familiare nido, impregnandone le mura della propria lirica • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
 

Il Tuono

E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.

 


 

Novembre

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E’ l’estate
fredda, dei morti.

 


 

L’aquilone

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:

un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…
sì, gli aquiloni! E’ questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera

bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù, lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?

Sono le voci della camerata mia:
le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…

A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! E te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso.

Sì: dissi sopra te l’orazioni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!

Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.

Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!

Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore

ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…

Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda tua madre…

adagio, per non farti male.

 


 

Il Gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

 


 

La vertigine

Si racconta di un fanciullo che aveva
perduto il senso della gravità…

I

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sotterra!

Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.

Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.

Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;

che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!

Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?

Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

II

Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,

su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!

Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.

Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:

se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!

veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazïoni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!

precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d’un millennio ogni momento!

di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;

forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,

di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!

 


 

Il naufrago

Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava
sotto gli schiocchi della folgore! Ora
qua e là brilla in rosa la sua bava.

Intorno a mucchi d’alga ora si dora
la bava sua lungi da lui. S’effonde
l’alito salso alla novella aurora.

Vengono e vanno in un sussurro l’onde.
Sembra che l’una dopo l’altra salga
per veder meglio. E chiede una, risponde

l’altra, spiando tra quei mucchi d’alga…

II

– Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.

Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano che, sì, è, né pare?

E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave,
moviamo insieme, noi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave…

Siamo onde, onda che canta, onda che geme…

III

Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell’alta notte in mezzo alla bufera!

Noi siamo onde superbe, onde sommesse.
Onde, e non più. L’acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimo, e non mai le stesse.

Ora io son quella che già là s’è franta.
E io già quella ch’ora là si frange.
L’onda che geme ora è lassù, che canta;

l’onda che ride, ai piedi tuoi già piange.

IV

Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
L’ombre del moto siamo. E ci son onde
anche tra voi, figli del rosso Adamo?

Non sono. È il vento ch’agita, confonde,
mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia
contro gli scogli e rotola alle sponde.

Pace! Pace! È tornata la bonaccia.
Pace! È tornata la serenità.
Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia.

Onde! Onde! Onda che viene, onda che va…

 


 

Orfano

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca:
senti: una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento su la mano.

La vecchia canta: intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

 


 

Mare

M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare;
un guizzo chiama, un palpito risponde.

Ecco, sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.

Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

 


 

In cammino

Siede sopra una pietra del cammino,
a notte fonda, nel nebbioso piano:
e tra la nebbia sente il pellegrino
le foglie secche stridere pian piano:
il cielo geme, immobile, lontano,
e l’uomo pensa: Non sorgerò più.

Pensa: un occhiata quale passeggero,
vana, ha gettata a passeggero in via,
è la sua vita, e impresse nel pensiero
l’orma che lascia il sogno che s’oblia;
un’orma lieve, che non sa se sia
spento dolore o gioia che non fu.

Ed ecco – quasi sopra la sua tomba
siede, tra l’invisibile caduta –
passa uno squillo tremulo di tromba

che tra la nebbia, nel passar, saluta;
squillo che viene d’oltre l’ombra muta,
d’oltre la nebbia: di più su: più su,

dove serene brillano le stelle
sul mar di nebbia, sul fumoso mare
in cui t’allunghi in pallide fiammelle tu,
lento Carro, e tu, Stella polare,
passano squilli come di fanfare,
passa un nero triangolo di gru.

Tra le serene costellazïoni
vanno e la nebbia delle lande strane;
vanno incessanti a tiepidi valloni,
a verdi oasi, ad isole lontane,
a dilagate cerule fiumane,
vanno al misterïoso Timbuctù.

Sono passate…Ma la testa alzava
dalla sua pietra intento il pellegrino
a quella voce, e tra la nebbia cava
riprese il suo bordone e il suo destino:
tranquillamente seguitò il cammino
dietro lo squillo che vanìa laggiù.

 


 

Ultimo sogno

Da un immoto fragor di carrïaggi
ferrei, moventi verso l’infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi…
un silenzio improvviso. Ero guarito.

Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.

Libero!… inerte sì, forse,
quand’io le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscio sottile,
assiduo, quasi di cipressi;

quasi d’un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.

 


 

La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.

 
 
 
 

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