Giornata della Memoria: poesie per ricordare
Bedřich Fritta (Višňová, 1906-Auschwitz, 1944), Gli alloggi, 1943
La Giornata della Memoria nelle poesie di autori che attraversarono l’inferno dell’Olocausto, nonché tramite la testimonianza, offerta in ultimo intervento pubblico, di Liliana Segre.
Primo Levi
Colui che sarebbe divenuto profondo scrittore, saggista, romanziere e poeta, nacque a Torino, il 31 luglio del 1919, al nome di Primo Levi, il padre, Cesare, dal quale Primo erediterà passion di scienza e letteratura, e la madre, Ester Luzzati, entrambi d’origini ebraiche, provenienza etnica che inciderà indelebilmente il suo tragitto esistenziale.
Iniziale sentimento antifascista germinò in lui fin dalle infantili sedute fra i banchi e proseguendo durante il percorso liceale attraverso l’interazione con insegnanti direzionati su codesta linea d’onda, seguitando acculturazione il ragazzo nell’iscriversi alla torinese Università, facoltà di chimica, nel 1937, di un solo anno precedendo l’entrata in vigore, in Italia, delle leggi razziali, che in suolo tedesco già avevano umiliato animo e corpo d’intere fette di popolazione ebraica.
Medesimo oltraggio all’uomo avvenne nella penisola italica, ma fortuna nel dramma volle che Levi potesse concludere gli studi, laureandosi con lode nel 1941, solamente poiché l’interdizione degli ebrei agli stessi concedeva a chi fosse già iscritto di portarli a termine.
Titolo di dottore in tasca non gli rese comunque lieve l’esistere, incupendosi da una parte il suo cuore per sopraggiunta patologia oncologica nel padre, affievolendosi dall’altra le speranze di trovare un impiego sotto la morsa del regime fascista, tuttavia riuscendo a concretizzarlo, nel 1942, a Milano, in una fabbrica svizzera di medicinali, in quel periodo militando nel mazziniano Partito d’Azione clandestino ed intraprendendo fuga insieme ad un gruppo di partigiani della Valle D’Aosta, nel 1943 venendo arrestato e nel 1944 scaraventato su un treno merci con destinazione Auschwitz.
Varcò i cancelli dell’inferno al numero 174.517, quindi trasferito al campo di concentramento Buna-Monowitz, dove a certezza di morte si dipanò all’orizzonte liberazione, nel gennaio del 1945, da parte dell’Armata Rossa, stilando il suo nome fra gli unici venti sopravvissuti dei 650 ebrei che con lui avevano viaggiato sulle rotaie della disperazione, dipoi lo scrittore raccontando d’essersi salvato grazie ad eventi fortuiti, quali ad esempio una basilare conoscenza del tedesco, alla generosa bontà del muratore Lorenzo Perrone (1904-1952), che gli fu costante fornitore di cibo ed infine l’esser stato selezionato come chimico per una fabbrica tedesca, la Buna, produttrice di gomma sintetica, legandosi in affezionata amicizia con il prigioniero Alberto Dalla Volta (1922-1945), purtroppo perito nella marcia d’evacuazione da Auschwitz, dal quale Primo imparò l’arte della resilienza.
Nella sua successiva produzione letteraria Levi lascerà alla storia narrazioni che diverranno arricchenti perle per l’intera umanità, vittoriose sulle iniziali reticenze a pubblicarne da parte di numerose case editrici, trovandone viceversa coraggio un piccolo editore e dopo una primaria freddezza di critica, iniziando le sue parole a scuotere coscienze e a guadagnare immensa ed infinita nomea, dedicandosi lo stesso per tutta la vita ad eriger memoria ed assopendo il proprio cuore, dopo una mirabile carriera scrittoria, l’11 aprile del 1987 quando, all’età di 67 anni, lo trovarono inerme, nella tromba delle scale di casa, a causa d’una caduta, per la quale si è perfino ipotizzato il suicidio, mai confermato, ad ogni modo lasciando di sé lo scrittore raro valore umano.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo,
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore,
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Zofia Grochowalska-Abramowicz
Poeta e scrittrice, Zofia Grochowalska, nata il 2 dicembre 1902 in una famiglia di proprietari terrieri residenti a Brzezinki, villaggio nei pressi di Jelcz-Laskowice, cittadina polacca situata nel voivodato della Bassa Slesia, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale venne internata nel lager di Ravensbrück istituito il 25 novembre 1938 su ordine del Comandante in Capo delle Schutzstaffel Heinrich Himmler, rimanendovi, mentre il consorte, ufficiale dell’esercito polacco, perdeva la vita nel massacro di Katyń, sin all’aprile 1942, quando fu deportata nel complesso concentrazionario di Auschwitz restandovi oltre un anno prima d’essere tradotta a Rajsk, nel Voivodato nord-occidentale di Podlaskie ed infine, il 23 gennaio 1945, nuovamente incarcerata a Ravensbrück.
Sopravvissuta alla prigionia, al termine del conflitto si unì in matrimonio con Lucjan Abramowicz, e continuò a comporre poesie, testi satirici, racconti e novelle sulla natività rivolte ai bambini, spegnendosi a Varsavia il 13 giugno 1998.
La fragranza dei tigli
La fragranza dei tigli ha destato il mio cuore,
Congelato e sbiadito dal grigiore.
La fragranza dei tigli si è profusa nel mio cuore,
Indifferente tra terre straniere.
Di nuovo palpita e batte
Evocando l’immagine della mia dimora di campagna
E rivivono le memorie di momenti distanti anni.
La mia minuscola dimora da un frutteto velata
Lungo le rive di un lago argenteo
dove alberi da frutto sussurrano in muto consiglio
E la fragranza dei tigli, da mattino…a notte
Nelle profondità dell’acqua cala un sole scarlatto
Mentre un’onda dondola una piccola imbarcazione
I profumi fluiscono, dolci e mielosi
Sento il sussurro del tuo cuore
E quando l’oscurità infiamma le stelle
Ombre si insinuano nella nebbia, sopra il campo
Un aroma, simile all’incenso, giunge da lontano
Questi sono i tigli, i tigli in fiore.
Anna Frank
La dolcissima Annelies “Anne” Marie Frank graziò il mondo della sua presenza il 12 giugno del 1929, a Francoforte, secondogenita – dopo Margot Betti – di Otto Heinrich Frank ed Edith Holländer Frank, ebrei riformati, che all’educazione delle figlie si dedicarono strabordando affetto ed indirizzandole all’amore per la lettura, da Anne naturalmente interiorizzata fra innata vivacità, brillante intelligenza ed inclinazione al sorriso, che di lì a poco sarebbe stato smorzato dalle conseguenze dell’ascesa di Hitler al potere, avvenuta nel marzo del 1933 con l’elezione del Partito nazista (NSDAP).
La famiglia Frank, sul filo del terrore delle sempre più frequenti manifestazioni antisemite e ormai persa la cittadinanza tedesca, come previsto dalle nuove legislazioni, si traferì ad Amsterdam nel dicembre del medesimo anno, riuscendo comunque a garantire un sereno percorso scolastico ad entrambe le figlie, Anne sempre più attratta dal leggere e contemporaneamente assecondando nascente desiderio di scrittura, creando fra sé e il suo denso inchiostro un imprescindibile sodalizio che la bimba celava gelosamente, custodendone il contenuto nel suo palpitante e vulcanico cuoricino, nel 1935 e nel 1936 ancor riuscendo a sfiatare l’entusiasmo della vita concedendosi vacanze in Svizzera da una sua prozia parigina, Olga Spitzer e potendosi giovare della presenza di materna nonna, quando la stessa andò a convivere con il familiare ed affiatato quartetto.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale i timori di Otto s’ingigantirono, segando le gambe ad ogni suo paterno auspicio di protezione familiare allorquando anche sui Paesi Bassi l’occupazione tedesca calò il sipario dell’orrore, trovandosi costretti i genitori di Anne a rivelare alle due amate figlie quanto finora nascosto a tutela del loro benessere psico-fisico e frattanto iniziando le fanciulle a sentire sulla propria pelle lo sfregio delle limitazioni imposte dal regime, sgretolante ogni diritto e perforante ogni piacere, tuttavia Anne riassaporando gocce di gioia al ricevere in dono, il giorno del suo tredicesimo compleanno, un piccolo quaderno a quadretti bianco e rosso, che la ragazza inizierà a ricamare di pensieri e confidenze, sotto forma di diario, inconsapevole di quanto quelle sue pagine avrebbero in tempi futuri pesato sulle coscienze dell’intera umanità.
Nonostante il tentativo di nascondere la propria famiglia in una casa retrostante, nella quale vissero come rifugiati per più d’un biennio, Otto non riuscì a risparmiarla dalla furia nazista che, come un nefasto vortice, alle ore 10:00 del 4 agosto 1944 brutalmente varcò soglia della segreta ed ovattata dimora e pose l’intero nucleo in arresto, quattro giorni dopo inviandolo al campo di smistamento di Westerbork ed il 3 settembre tristemente stipandolo sui vagoni che lo avrebbero condotto ad Auschwitz, morendo Edith, a Birkenau, fra depressione per il distacco delle figlie ed inedia, nel gennaio del 1945; rimanendo un mese Anne e Margot nel medesimo campo, poi trasferite a Benger-Belsen, morendo entrambe di tifo esentematico, a pochi giorni di distanza, ultima Anne, contagiatasi accudendo la sorella, nel gennaio, forse, marzo, dello stesso anno; unico superstite Otto, che morirà nel 1981, il quale, a liberazione avvenuta, avrebbe portato sulle spalle l’insopportabile carico della perdita delle tre persone a lui più care, nondimeno dedicandosi alla revisione e pubblicazione del diario – contenente racconti familiari, di quotidianità, primi innamoramenti e il sogno di diventare una scrittrice, il tutto terribilmente sullo sfondo d’un certosino e maturo riporto di storici eventi – che l’amorevole sua figlia Anne aveva pazientemente, disperatamente ed intimamente scritto pagina su pagina, lacrima su lacrima, tormento su tormento e, chissà, se con qualche timido sorriso magari ancor sfuggitole inconsciamente dalle labbra nel fantasticare il suo futuro di penna e libertà.
Aprile
Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai ad essere Felice.
Krystyna Żywulska
Scrittrice, cantautrice, editorialista ed illustratrice, Sonia Landau nacque il 1° settembre 1914 a Łódź e dopo aver conseguito il diploma frequentando il cittadino ginnasio ebraico, nel 1936 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Varsavia, nel frattempo effettuando praticantato presso uno studio legale, ma al piombare della Wehrmacht nel settembre 1939, riparò a Leopoli all’epoca zona di occupazione sovietica, tentando invano di organizzare la fuga di genitori e sorella minore, cosicché ad essi si riunì e nel 1941, l’intera famiglia venne trasferita nel famigerato Ghetto istituito nella capitale dalle autorità tedesche il 2 ottobre 1940, in luogo di residenza forzata e iniziale impulso del processo di sterminio degli ebrei in Polonia. Dopo due anni, fortuite circostanze le permisero d’evadere da segregazione assieme alla madre, ancorché soffrendo momentanea separazione col padre e dal versante opposto del muro, rifugiate nel villaggio di Zagościńcu, a circa venti chilometri da Varsavia, adottando identità di Zofia Wiśniewska, entrò a far parte dell’Armia Krajowa, il principale movimento della Resistenza polacca, in particolare adoperandosi per procurare documenti falsi a militanti ed ebrei finché nel 1943, fu catturata dagli agenti della Gestapo, ai quali, al momento dell’interrogatorio, si presentò al nome che avrebbe poi mantenuto, di Krystyna Żywulska, evitando in tal modo di essere identificata come ebrea, ma trattenuta in quanto prigioniera politica e conseguentemente confinata nell’apposito carcere di Pawiak. Tuttavia, trascorsi due mesi, si vide deportata nel sottocampo di Birkenau, dove cominciò a comporre versi, rapidamente acquisite e diffuse dagli internati tanto da sottrarla alla morte quando in fin di vita a causa della febbre tifoide, il Lagerältesten Wala Konopska, colpito da una lirica dal titolo Appello, scoprendo in lei l’autrice del testo, si adoperò perché ricevesse le dovute cure e protezione continuò nel tempo ad offrirle, distruggendo documenti testimoniantine l’origine ebraica ed ancora prodigandosi affinché fosse impiegata nell’Effektenkammer — il deposito degli effetti personali confiscati alle persone entranti, dove i detenuti avevano maggiori opportunità di procurarsi razioni supplementari di cibo oltre ad eludere i lavori più logoranti.
Verso la fine del 1944, traendo ispirazione dal brano patriottico sovietico, Mosca di Maggio, Żywulska compose Marcia della Libertà, dai prigionieri intonata durante l’evacuazione coatta del Campo avvenuta al giungere dell’Armata Rossa, il 18 gennaio 1945 e che ella seppe sfruttare per dileguarsi eclissandosi nel villaggio rurale di Brzeszcze. Nel 1946 pubblicò il saggio d’esordio, Sono sopravvissuta ad Oświęcim, riaffrontando dramma nel 1963 con L’acqua vuota, solo allora rivelando pubblicamente le proprie origini, le stesse tornando ad essere ragione di ostracismo e violenza sull’onda d’una campagna antisemita sollevatasi in Polonia nel 1968, costringendola ad abbandonare lo Stato e trasferirsi dapprima a Monaco, poi Düsseldorf, concludendovi parabola il 1° agosto 1992.
Marcia della Libertà
Non è una favola o un sogno,
sulla Terra, sapevi che esiste un luogo in cui
accadono fatti terrificanti, scene macabre?
Cinque camini sbuffano,
alla stregua d’un maledetto incantesimo,
e dalle profondità sangue cremisi sgorga,
in un inimmaginabile, orribile calore.
Con orrore talora ricorderete le care cucce di legno
e come ognuno lottava
sanguinose battaglie
per lavarsi una una volta al mese
E come impietriti restavamo all’appello,
soffocando lacrime amare…
Kapo e Gestapo
popoleranno i sogni.
Ma è giunta l’ora della libertà
di gioiosa frenesia,
perché mai più vagheremo sul viale del lager di Birkenau.
Ne abbiamo abbastanza dei nuovi arrivi,
degli integratori, delle unità punitive
del coprifuoco, che al pari di un’orchestra
suona per noi.
Addio orribile Auschwitz
e tu mostruoso Birkenau,
sulle vostre gelide baracche deserte,
vento piangerà mestamente.
Getta le vesti rigate, scalcia gli zoccoli,
solleva la testa e volgi verso casa,
con una gioiosa canzone sulle labbra.
Appello
Il sole sorge sul campo di Auschwitz,
splendente di un bagliore roseo.
Siamo in fila: vecchi e giovani,
mentre lassù, le stelle svaniscono.
Ogni mattino siamo così per l’appello
ogni giorno, sotto la pioggia o al sole
sui nostri volti sono dipinti
disperazione, angoscia e desiderio.
Forse proprio adesso, in queste ore grigie,
a casa mia un bambino piange.
Mia madre si ricorderà di me?
Potrò mai rivederla?
Dona sollievo sognare che,
il mio amante in quest’istante possa pensarmi,
ma se, Dio non voglia,
prendessero anche lui?
Tutto sembra muoversi
come in una pellicola cinematografica…
poco lontano, all’incrocio fra due strade
qualcuno arriva su di una diligenza,
Scende con grazia e lentamente,
ha l’uniforme blu delle sorveglianti.
Improvvisamente,
ci trasformiamo in colonne di sale,
inanimate nullità, numeri.
Ci contano con disprezzo, loro,
la razza superiore,
le avanguardie tedesche,
che contano il bestiame a strisce.
Improvvisamente,
una scossa elettrica ci attraversa,
e rabbrividiamo al pensiero,
lampato in mente come un razzo,
che costei dopotutto è una moglie,
una madre, una donna —
ed anch’io sono una donna.
Qualcosa di sensazionale v’è in ogni pellicola.
Achtung! Serrare le righe!
Questo è un momento davvero speciale,
si avvicina il Lagerkommandant.
È possibile l’un uomo sia tanto vile?
Un fischio e in un attimo, il silenzio.
Rivolgiamo fervide preghiere a Dio,
Dio! Ci udirai!
Il sole è di nuovo alto nel cielo,
raggiante un bagliore roseo e brillante,
Dio, ti stiamo implorando —
Non manca molto, vero?
Joyce Lussu
Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti ‘Joyce Lussu’ fu scrittrice, traduttrice e poetessa, natia di Firenze in data 8 maggio 1912, nonché convinto e rivoluzionario animo di fede partigiana, medaglia d’argento al valor militare e capitano delle brigate Giustizia e Libertà, il movimento politico, d’ispirazione liberal-socialista che venne iniziato, nel 1929, da una compagine d’esuli antifascisti, a capogruppo l’attivista, storico, giornalista e filosofo Carlo Alberto Rosselli (1899-1937).
La piccola Gioconda, secondogenita a Massimo William ‘Max’, fu figlia del conte liberale Guglielmo ‘Willie’ Salvadori Paleotti e Giacinta ‘Cynthia’ Galetti de Cadilhac, ambedue d’aristocratiche discendenze; in conseguenza ad aggressioni da parte di squadroni fascisti, subite da padre e fratello, la famiglia traslocò in confini svizzeri, dimorando a Begnis fino al 1934, perfezionando nel frattempo Beatrice la sua istruzione all’interno d’istituti di matrice cosmopolita, arricchendo il proprio bagaglio linguistico, già impreziosito dalla conoscenza dell’inglese, con lo studio del francese e del tedesco, ottenendo diploma liceale classico e poi trasferendosi nella germanica Heildelberg, per prender parte alle lezioni del filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers, indi decidendo, data la palese avanzata nazista, di migrare in Francia, ivi laureandosi alla facoltà di lettere della Sorbonne e in quella di filologia a Lisbona.
Il 1934 la vide unirsi in matrimonio al benestante marchigiano Aldo Belluigi, d’ideologia fascista, con il quale raggiunse il Kenia per ricongiungersi al fratello Max, nel giro d’un biennio separandosi dal marito, fino al 1938 restando in Africa e riflettendo sul colonialismo che lentamente stava affliggendo il Continente Nero, frattanto carpendone sentimenti che avrebbe esternato in forma poetica e, una volta associatasi alle brigate succitate, conoscendo quello che l’avrebbe resa sposa per la seconda volta, ovvero il militare e politico italiano, oltre che scrittore, Emilio Lussu (1890-1975), esponente di spicco della resistenza italiana.
L’incallita Joyce srotolò da lì in poi fervida passione politica, tessendo antagonismo alle azioni imperialiste dei governi e schierandosi con tutta se stessa contro pratiche colonialiste e posizioni fasciste, dedicandosi nelle sue abilità di traduttrice ad opere di poeti viventi, provenienti da più parti del mondo, fin ad allora tramandate oralmente, in aggiunta affiancando al suo impegno letterario una caparbia difesa nei confronti dei perseguitati politici, in special modo interessandosi alle problematiche insite al Kurdistan, riuscendo a posarne piede sul suolo e ad interagire con il suo popolo, per comprenderne le difficoltà ed inoltre, nel 1965, riuscendo a fondare, insieme al giornalista, politico e storico Mario Albano (1948-2020), l’Associazione per i rapporti con i movimenti africani di liberazione (A.R.M.A.L.).
Ulteriore aspetto dalla donna portato alla ribalta fu il lento assopirsi delle tradizioni locali in conseguenza all’industrializzazione, consapevolezza che la spinse al diffonderne il valore, soprattutto attraverso la comunicazione, a lei prediletta, delle giovani menti, con le quali interagire all’interno delle scuole.
Generosità di destino le concesse di restare in vita fino all’età di ottantasei anni, poi delicatamente levandole respiro il 4 novembre 1998, elargendo in dono imperituro le sue fibrillanti, ribelli, veraci ed evocative parole.
Un paio di scarpette rosse
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna
ancora si vede la marca di fabbrica,
Schulze Monaco.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
in cima a un mucchio d’altre da infanti,
più in là mucchi di riccioli biondi,
ciocche nere e castane
a Buckenwald
servivano a far coperte per i soldati
nulla si sprecava
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
scarpette rosse per la domenica
erano di un bambino di tre anni
forse tre e mezzo,
chissà di che colore erano gli occhi,
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
sappiamo come piangono i bambini
ed anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
Scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
Pavel Friedmann
Nella Cecoslovacchia occupata dal Terzo Reich, la città fortezza edificata al tramonto del diciottesimo secolo su volontà dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena e da egli battezzata Terezín, in onore della madre Maria Teresa d’Austria, dal 24 novembre 1941 venne destinata a ghetto dalla propaganda nazista celebrato come insediamento ebraico modello, sebbene dipoi principalmente utilizzato in funzione di conglobamento e ripartizione dei prigionieri, soprattutto verso i campi di sterminio situati nella Polonia sud-orientale ed ingresso — sormontato da un arco recante consueta frase Arbeit macht frei, «Il lavoro rende liberi», tratta, avvilendone valore, dal titolo del romanzo firmato nel 1872 dallo scrittore, linguista ed etnologo tedesco Lorenz Diefenbach (1806-1883) — varcarono 155mila anime, una moltitudine delle quali di musicisti, compositori e cantanti, registi cinematografici e teatrali, pittori, scrittori e poeti, fra cui Pavel Friedmann: nato a Praga il 7 gennaio 1921 da padre ebreo e madre cristiana, iniziò a creare versi sin dall’infanzia e a 17 anni, benché mai avesse nutrito particolare interesse nei confronti delle proprie radici, prendendo coscienza del crescente antisemitismo, si unì al movimento giovanile sionista El Al, partecipando attivamente finché il 26 aprile 1942, arrestato dalla Gestapo venne deportato nel ghetto ove si mantenne lavorando in una panetteria ed insegnando ebraico, occasione d’incontro e matrimonio con Ida Gotlib, sopravvissuta all’Olocausto al contrario di Friedmann, il 29 settembre 1944 scortato ad Auschwitz lasciando amore e decine d’opere in rima, in particolare l’iconica La farfalla, rinvenute successivamente la liberazione del Paese e donate al Museo del patrimonio ebraico della Repubblica Ceca.
La farfalla
L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso,
grandiosamente giallo,
come una lacrima di sole
quando cade sopra una roccia bianca,
così gialla, così gialla!
L’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.
František Bass
Poeta cecoslovacco di credo ebraico, František ‘Franta’ Bass nacque, a Brno, il 4 settembre 1930 e, all’età di dieci anni, anche i suoi occhi ancor troppo piccini furono costretti a visionare l’orripilante realtà del ghetto di Terezín, nel quale angusto fato lo convogliò il 12 febbraio del 1941, precocemente esponendolo a condizioni di vita insopportabili, a partir dalla logorante fame, fino all’esser deposto in locali in cui uomini, ammassati come bestie, vennero resi spettatori di corpi consumati da miseria e malattie, come spada di Damocle il quotidiano l’incubo d’esser deportati in quel luogo, denominato “a est”, da dove coloro che vi venivano spediti non rientravano più, in ogni assenza permettendo alla morte di sfregiare, con la propria terrificante presenza, la serenità mentale di adulti ed infanti, ciò nonostante, grazie all’inimmaginabile, mirabile, lodabile e commovente coraggio di alcuni deportati, di provvedere all’acculturazione di circa 15mila bambini, alternandosi su varie discipline ed in tal modo sovvenendo all’impossibilità, per tutti quegli innocenti, di frequentare la scuola.
La tal occasione fu lieve manna dai cieli per František, potendosi permettere, in mezzo a tutto tutto quell’insostenibile orrore, di portar parte di mente altrove, in codesto caso cooperando con un settimanale, il Vedem, fondato dal coetaneo Petr Ginz (1928-1944), un giovane ceco, ebreo da parte di padre, con insite abilità d’illustratore, autore di racconti e scritti vari, grazie al quale Bass poté lasciare ai posteri l’elegiaca forma del se stesso postumo, affiancandolo un altro giovane artista, anch’esso ceco e d’ebraiche origini, ossia Hanuš Hachenburg, ispirato poeta di sublime talento.
Ad unire in sorte il trio, barbarie di gas che a František strappò vita il 28 ottobre 1944, quattordici anni, nulla potendo alito infernale sull’immortale eco dei loro versi.
La Casa
Miro e rimiro il mondo sconfinato,
il mondo vasto e distante,
Miro e rimiro verso sud-est,
Miro e rimiro verso casa mia.
Miro e rimiro verso casa,
verso la città dove sono nato.
Oh, mia città, mia città natale,
con quanta gioia tornerei da te.
Il giardino
E’ piccolo il giardino
profumato di rose,
stretto il sentiero
dove corre il bambino:
un bambino grazioso
come un bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.
Son Ebreo
Son Ebreo ed Ebreo rimarrò.
Anche se morissi di fame,
mai mi sottometterei ad alcuna nazione,
combatterò sempre
per la mia nazione, sul mio onore.
Non mi vergognerò mai
della mia nazione, sul mio onore.
Son fiero della mia nazione,
una nazione più che mai degna d’onore.
Sempre sarò oppresso,
e ancora rivivrò, per sempre.
Hanuš Hachenburg
È la Praga del 1929, nel suo distretto di Bubeneč, a ospitare la nascita, il 12 luglio, di Hanuš Hachenburg unico figlio di Eliska Epstein e Jiří Hachenburg, padre che mai conobbe vivendo con la madre fintantoché, ella, dolorosamente separandosene mossa da speranza di donargli un presente migliore, all’età di otto anni lo affidò all’Orfanotrofio del quartiere ebraico di Belgicka ove, tra solitudine e riflessione, iniziò a dare forma ai suoi primi componimenti poetici, non silenziando estro nemmen quando nel 1942, insieme ai suoi compagni ed agli educatori, mesta locomotiva lo tradusse a Terezín.
Precocemente dimostrando il ragazzo una stupefacente propensione alla scrittura, nell’immediato venne piacevolmente notato dal docente ceco, guerrigliero della resistenza all’interno del campo, Valt Eisinger (1913-1945) e fautore della pubblicazione di Vedem, a cui condusse il virtuoso Hachenburg, che seguitò attività poetica sulla rivista, divenendone co-direttore insieme a Petr Ginz e in più alternando a poesia articoli di cultura e politica, in poco tempo divenendo protagonista del singolare periodico e rinvigorendo la socialità di quel crudele ghetto per mezzo del suo estro linguistico, peraltro poco consono alla sua giovane età, sia a livello stilistico che in virtù d’una raggiunta maturità, sperimentandosi perfino nella stesura di un’opera da utilizzare come sottofondo al teatri dei burattini, al titolo Hledame strasidlo – Cercando un fantasma.
Poco più d’un anno dopo il suo arrivo, il 18 dicembre del 1943 Hanuš venne traslocato al campo per le famiglie di Terezín, noto al nome di Theresienstädter Familienlager e operativo, per una decina di mesi, ad Auschwitz-Birkenau, dove si narra che una sua poesia, intitolata Gong, si diffuse a tal punto da essere ampiamente memorizzata dai prigionieri.
Fine corsa venne imposta a Hachenburg quando, ormai estremamente spossato nel fisico, dato che a partir già dai quattordici anni i deportati erano obbligati ad estenuanti fatiche lavorative, essendo valutato inidoneo all’impiego, allo smantellamento del campo, fu brutalmente rinchiuso nelle famigerate camere a gas.
Voi, Nuvole grigio acciaio
Voi, nuvole grigio acciaio, dal vento frustate,
che correte verso mete sconosciute.
Voi, portatevi il quadro dell’azzurro cielo
Voi, portatevi il cinereo fumo
Voi, portatevi della lotta il risso spettro
Voi, difendeteci!
Voi, che siete fatte solo di gas
Veleggiate per i mondi,
semplicemente, spazzate dai venti
come l’eterno viandante
aspettando la morte.
Una volta voglio,
così come voi i metri misurare
di lontananze future e non tornare più
Voi, cineree nuvole sull’orizzonte
Voi, siate speranza e sempiterno simbolo
Voi, che con il temporale, il sole coprite
Vi incalza il tempo! E dietro a voi è il giorno
Terezín
Una macchia di sporco dentro sudicie mura
e tutt’attorno il filo spinato
30.000 ci dormono
e quando si sveglieranno
vedranno il mare del loro sangue
Sono stato bambino tre anni fa.
Allora sognavo altri mondi.
Ora non sono più un bambino,
ho visto gli incendi
e troppo presto sono diventato adulto.
Ho conosciuto la paura,
le parole di sangue,
i giorni assassinati:
dov’è il gioco di un tempo?
Ma forse questo non è che un sogno
e io ritornerò laggiù
con la mia infanzia.
Infanzia, fiore di roseto
mormorante campana dei miei sogni,
come madre che culla il figlio
con l’amore traboccante della sua maternità.
Infanzia miserabile
catena che ti lega al nemico e alla forca.
Miserabile infanzia,
che dentro il suo squallore
già distingue il bene e il male.
Laggiù
dove l’infanzia dolcemente riposa
nelle piccole aiuole di un parco,
laggiù, in quella casa,
qualcosa si è spezzato
quando su me è caduto il disprezzo:
laggiù nei giardini o nei fiori o sul seno materno,
dove io sono nato per piangere.
Alla luce di una candela m’addormento
forse per capire un giorno che io
ero una ben piccola cosa,
piccola come il coro dei 30.000,
come la loro vita che dorme laggiù nei campi,
che dorme e si sveglierà,
aprirà gli occhi e per non vedere troppo
si lascerà riprendere dal sonno.
ultimo intervento pubblico, 9.10.2020, Arezzo
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.