Gabriele D’Annunzio: il Vittoriale degli Italiani
Il vorticoso complesso monumentale che il poeta, politico, militare e patriota, Gabriele D’Annunzio, immaginò e volle dimora, dando vita ad un luogo a tratti esoterico, criptico, ai confini dell’assurdo, nell’insieme, intimamente geniale ed unico: il Vittoriale degli Italiani.
Ho trovato sul Garda una vecchia villa appartenuta al defunto dottor Thode. È piena di bei libri, il giardino è dolce, con le sue pergole e le sue terrazze in declivio.
Gabriele d’Annunzio in missiva alla moglie Maria, febbraio 1921
In seguito all’Impresa di Fiume — storico evento interbellico svoltosi fra il 12 settembre ed il 27 dicembre del 1920 e durante il quale l’attuale cittadina croata fu oggetto di controversie fra il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni ed il Regno d’Italia — lo scrittore, giornalista, poeta, drammaturgo, politico, militare e patriota italiano Gabriele D’Annunzio (1863-1938) — che ne aveva cappeggiato l’invasione pianificata dalla coalizione riferentesi al partito dell’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) e fortemente contrario al Trattato di Rapallo mediante cui, su firma del Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti (1842-1928), posta in calce il 12 novembre del medesimo anno, si decretò lo Stato libero di Fiume — sulla scia della resa dei ribelli suoi seguaci ed in preda ad accorata amarezza maturò decisione di ritrarsi ad appartata esistenza in quel di Gardone Riviera, a sol pochi giorni dal giunger sul lacustre comune, stupore pervadendolo nel rimirar, nella zona collinare del borgo lombardo, Villa Cargnacco, antecedente proprietà dello storico d’arte tedesco Henry Thode (1857-1920) sequestrata dal Governo italiano a titolo di risarcimento per i danni di guerra subiti, un sognante D’Annunzio tramutando l’inizial proposito di soggiornarvi provvisoriamente, nella scelta d’elegger tal loco a perenne residenza, della novella idea lui balenata in fervida ed ispirata mente informando tramite lettera la consorte Maria Hardouin (1864-1954).
Gabriele D’Annunzio: genio et voluptati
Abbandonata Fiume il 18 gennaio del 1921 e non compiacendolo nessuna delle soluzioni d’ospitalità a lui offerte da fidati amici ed avvinti sostenitori, priorità del D’annunzio era quella di scovar adeguata abitazione che a desiata comodità coniugasse la smaniosa esigenza d’un ovattata solitudine, fra le varie espropriate ai tedeschi a lui proposte in visita, subitaneamente calamitandolo la succitata Villa Cargnacco, fra le cui mura egli pose piede il 28 gennaio e nell’immediato follemente innamorandosi dei vasti giardini che n’attorniavano il cuor e che il lungimirante Thode aveva annesso all’originaria area al fin d’evitar che ulteriori edifici venissero innalzati in contiguità, dal canto suo un’incredibilmente meravigliato D’Annunzio si narra affidando alla spontanea esclamazione «Hic manebimus optime!», «Qui staremo ottimamente», divampante emozione sull’attimo percepita e repentinamente materializzata in contratto di locazione annuale il primo febbraio, fra l’entusiasta prossimo inquilino ed il sequestratario, ispettore delle Imposte di Brescia, nella persona del cav. Giovanni Ubertazzi, stipulandosi una tariffa mensile di lire seicento e, nel giro di pochissimi giorni, il 14 febbraio il vate valicando ingresso del fascinoso edificio che sol nove mesi dopo egli acquisì per centotrentamila lire — duplicati nella compera di mobilio ed oggettistica in esso inclusi — e di lì ad irrisorio tempo intessendo stimante e duratura amicizia con il trentenne Giancarlo Maroni (1893-1952), architetto formatosi alla Scuola Speciale dell’Accademia di Brera e la cui fede irredentista, nonché il valor militare sul campo dimostrato, fecero breccia nel dannunziano petto, a corroborar amichevole rapporto le di lui assiomatiche competenze professionali che — a partir dal 1922 — s’indirizzarono alla vasta ristrutturazione che si sarebbe maestosamente protratta negli anni a seguire ed oltre la morte dell’eclettico ed estroso poeta.
Maroni — nato al nome Giovanni come terzogenito di Bortolo Maroni e Destinata Passerini — al pari dei fratelli Italo e Ruggero s’era arruolato nel corpo degli alpini, tuttavia indole temeraria non essendogli sufficiente a persistenza combattiva dacché un ferimento in fase di battaglia troncandone precocemente azioni guerresche, nondimeno intrepido ardimento restituendogli medaglia d’argento al valore, in avanti l’uomo compiutamente dedicandosi a meticolosa ed indefessa ricostruzione di Riva del Garda insieme a Ruggero, proprio quest’ultimo avvicinandolo a Villa Thode in qualità di precedente timoniere dei lavori che ne risanarono gli effetti derivati da un sessennio d’abbandono, dall’incontro fra colui che l’Imaginifico definì «Magister de vivis lapidibus», «Maestro di pietre vive» ed al contempo, pressoché in una sorta di gerarchico baratto tra ruoli, giacché lo scrittore gradendo venir appellato ‘Comandante’, filandosi un mirabile, fitto, autentico e tangibile ordito collaborativo imbastito a sagaci vedute non di rado appicciantesi su pire caratteriali non sempre compatibili in personal gusto e rispettivi bagagli culturali, ciò nonostante da qualsivoglia opinional fiammella generandosi concilianti concretezze accatastate pietra su pietra, una fra le prime prima posta alla presenza della moglie Maria, le restanti avvinghiate in edificante spirito architettonico fra cemento ed emozione, quella sgorgante fin dal nucleo dei disegni che il Maroni si trovò a delineare negli Uffici della Santa Fabbrica all’epoca situati nella Colonica — epiteto ascrivibile alle rustiche caratteristiche della casa che Gabriele D’Annunzio denominò altresì Porziuncola, prima d’affibbiarle definitiva denominazione di Prioria, fra il pietroso abbraccio dei suoi tramezzi ed i cimeli con i quali appassionatamente l’adornò — complice genialità di straordinaria bizzaria screziata — percorrendo l’intero suo arco vitale come passero nella bambagia del materno nido, dal domestico rifugio comunque spiccando virtual volo sull’ali dell’intimo inchiostro ricamato a cadenzato e melodico tratto poetico.
All’atto dell’acquisto, Villa Cargnacco s’estendeva per un paio d’ettari sul cui suolo troneggiavano la casa principale, quella del giardiniere più spostata verso il lago ed il parco che ne abbracciava materialità, il tutto comprensivo dei diritti in essere sulle acque, ad esclusione del frantoio, non annesso alla proprietà e sito a sinistra del signoril alloggio, quest’ultimo ubicato sul crocicchio di tre vie campestri ed affacciato su una minuscola piazzetta lastricata ed i primi interventi di Maroni concentrandosi su assestamento della villa ed abbellimento della facciata — ispirata all’aretin Palazzo del Podestà e valorizzata da ornamenti quali araldici emblemi ed elementi decorativi — in un secondo momento gradualmente aggiungendosi alla struttura svariati locali, fra portici, cortili e verande, per poi passar a corredar nativa beltà della natura circostante di suggestivi slarghi, vialetti, pili ed anticaglie d’ogni genere sistemate con prodigiosa peculiarità, seppur in fede a proporzioni ed estetici criteri, in tal maniera enfatizzando il possente carisma irraggiante dal riguardoso e sapiente rapporto fra la figliolanza di Madre Natura e l’intervento dell’uomo, nell’antropica carezza posatasi sul fianco dei di lei dolci ed incantevoli versanti, la cui pendenza elegiaca armonia del Creato in canto sul Pianeta, a far da sfondo ponderati interventi a doppio ingegno il cui risultato, balzando sugli occhi dell’architetto, accademico ed urbanista Marcello Piacentini (1881-1960) — in visita al Vittoriale nell’agosto del 1930 allo scopo di redigere articolo dedicato a Giancarlo Maroni sul mensile di critica Architettura e Arti Decorative, da lui co-fondata nel 1921 con il collega ed ingegnere Gustavo Giovannoni (1873-1947) — ne scaturì lodevoli parole nel definirne i disegni «chiari, esatti, puliti, senza falsi effetti e senza approssimazioni; disegni di chi vede, al di là del foglio di carta, la realtà», egli oltremodo estimando le inconfutabili capacità del giovane «vestito sempre di nero, lo sguardo pieno d’ingegno, ti dà subito l’impressione d’un uomo strano che viva diversamente dagli altri, di un sognatore» (https://books.google.com/books/about/Esoterismo_e_fascismo.html?hl=it&id=3pgrCbVilI8C), colui che in effetti fu sagace artefice dalla cui inventiva man a mano sorsero aggiuntive costruzioni, anno per anno andando delineandosi l’odierno corpo monumentale la cui ultimazione, purtroppo, postuma alla dipartita del D’Annunzio.
Coinvolto interesse e sterminata dedizione del Maroni all’immane opera architettonica zelantemente progettata e con estrema dedizione forgiata, lo convinsero a traslocare in loco fin dal 1922, una dozzina d’anni in seguito domiciliandosi al Casseretto, rustico già esistente ed adattato tanto a studio quanto ad abitazione ed all’operoso uomo venendo ufficialmente conferita carica di primo soprintendente allorquando il Vittoriale, il 17 luglio del 1937, tramutò a Fondazione gestita da un Consiglio ed un Presidente eletti su diretta nomina del capo del Presidente della Repubblica, peraltro un primario lascito allo Stato avvenuto il 22 dicembre del 1923 — con rogito del notaio Antonio Arminio Belpietro (1879-1951) — manifestazione di volontà perfezionandosi in seconda e ultima data il 7 dicembre del 1930 e dalla stessa D’Annunzio ricavando sovvenzioni statali che gli permisero di sostenere non soltanto i corposi acquisti effettuati fra il 1922 ed il 1935, bensì la colossale ricostruzione principiata a conclusion della quale gli ettari passarono da due a nove, parallelamente accrescendosi un amichevole affiatamento — consolidato da denso scambio epistolare, in saggio tratteggiato dal sociologo, bibliotecario ed autore, Ruggero Morghen (https://www.ibs.it/gabriele-d-annunzio-nelle-lettere-libro-ruggero-morghen/e/9788874979394) — tra un poeta interamente proiettato nella sontuosità del proprio sogno ed un architetto perfettamente in grado di tramutarlo a realtà, il nutrito, impareggiabile e prezioso connubio fra un singolare artista del mattone ed un eccentrico danzator di penna, spaziando nell’etere sopra lo splendore di quanto — a mezza collina fieramente sospeso tra fragranze d’olivi ed agrumi — unitamente avverato ed al popolo magnanimamente elargito.
Egli è venuto a me dalla più alta e schietta tradizione italiana e mi aiuta a ornare per gli italiani questo mio Vittoriale (…) a trasfigurare questa vecchia casa colonica e parrocchiale, dove io sto radunando i resti dei miei gloriosi naufragi per donarli alla nazione.
Gabriele D’Annunzio
Vittoriale degli Italiani
A dar fastosamente accoglienza, è la meravigliosa Piazza del Vittoriale — suggestivo spiano contornato da molteplici archi ove fanno capolino olivi ed eleganti cipressi — al cui cospetto s’erge il Monumento ai Caduti di Gardone Riviera, ideato dal Maroni nel 1931 e, superato il quale, passo giunge all’ingresso costituito da un Portale a due arcate, nel mezzo offrendosi alla vista colonnare fontana di modeste dimensioni — nel frontone triangolare finale rimbombando la celebre frase «Io ho qvel che ho donato» — e sovrastata da un paio di cornucopie, ovvero vasi rassomiglianti a corni ricolmi di fiori e frutti, simbolo di prosperità, a custodia del dannunziano blasone costituito dall’elmo da fante risalente al primo conflitto mondiale recinto d’alloro, con le sette stelle dell’Orsa Maggiore su campo azzurro e il Montenevoso stilizzato, quest’ultimo in riferimento al titolo nobiliare, derivante dalla cima montuosa slovena, ‘Principe di Montenevoso’, che all’avvenuta annessione di Fiume all’Italia, re Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) conferì, il 15 marzo 1924, a Gabriele D’Annunzio in omaggio all’imprese militari tanto in fase di guerra quanto in riferimento alla contesa città; in ultimo, bronzea scritta incisa sulla colonna par risuonar ospitalità con diretta voce dello scrittore: «Dentro da questa cerchia triplice di mura, ove tradotto è già in pietre vive quel libro religioso ch’io pensai preposto ai riti della patria e dai vincitori latini chiamato il Vittoriale».
Oltre cancello lasciandosi alle spalle rispettivamente l’Arco dell’ospite ed attraversando la Piazzetta della Vittoria del Piave, con dedicato monumento in bronzo dello scultore Arrigo Minerbi (1881-1960) — regalo del comune milanese al D’Annunzio, del maggio 1935 — poco più avanti ci si imbatte nel Pilo del «Dare in brocca», famosa massima del poeta il cui significato è il colpire un bersaglio, con marmoreo fregio di tre frecce al centro dell’obiettivo ed il pennone con il vessillo rosso e blu del Vittoriale; possibilità d’abbandonarsi a panoramico sguardo sull’Isola del Garda, sulla Punta di Manerba e sulla penisola di Sirmione è consentita dai giardini dell’Anfiteatro all’aperto, la «conca marmorea sotto le stelle» dal vate soprannominata Perlaggio, efficiente ed evoluto progetto del Giancarlo — modello di riferimento l’architettura greca — la cui fabbricazione intrapresa nel 1934 e, dopo un ventennio di sospensione lavori, portata a termine nel 1952 da Italo Maroni a pochi mesi dalla scomparsa del fratello ed il costrutto inaugurato nel 1953 sulle note dell’Orchestra del Teatro alla Scala, l’acustica dalla capiente arena perfettamente diffusa fra terra e cielo.
Collegata al Teatro da un corto viale è la Piazzetta Dalmata, così denominata dal centrale e preminente pilo in pietra d’Istria — anche detto della Reggenza — eretto nel 1924 e culminante con statua, risalente al XV secolo, in rame su anima lignea, raffigurante la Vergine dello Scettro di Dalmazia, mentre a costituire basamento, macine del frantoio anticamente ubicato nella residenza, recanti iscrizione in memoria d’esplicito frangente storico della regione della Penisola Balcanica, sormontata da protomi raffiguranti i venti della rosa italiana in ode citati.
Laudata sia nello eccelso
La serenissima Vergine dello scettro di Dalmazia
Che per li otto venti della rosa italiana
Come per questi otto teschi
Risoggioghi la barbarie schiava
Dal primo vallo di Roma nel monte Adrante
Insino agli altari di Marco sanguinosi nel labirinto del Cattaro
E dal crudo sasso quivi imminente
Insino al sommo degli Acroceraunii
Non impari nell’amore del fato e del fulmine.
Nono anniversario della guerra bandita.
Settimo della Pentecoste sul Timavo.
XXIV Maggio MCMXV MCMXXIV
XXVII Maggio MCMXVII MCMXXIV
et ultra.
Tutt’intorno le doppie arcate, sopravanzate da sei pennoni e corrispettivi stendardi, della semicircolare Esedra; al centro il Tempietto delle memorie, fino al 1963 albergante le dannunziane e sofferte spoglie, mentre alla sinistra del Loggiato antichi portici a far da rimessa ad una Torpedo Isotta Fraschini, ultima automobile del D’Annunzio, oltre ad una Fiat tipo 4, con effigie della Madonna di Loreto sugli sportelli, alla guida della quale egli, durante la notte a cavallo fra l’11 e il 12 settembre del 1919, sanguigno e risoluto capitanò l’avanzata militare da Ronchi a Fiume.
In volto al Pilo Dalmata si staglia la Prioria, alla destra della quale lo Schifamondo, ovvero lo nuova dimora nella quale il disilluso uomo avrebbe dovuto trasferirsi per concluder vita «schifato dal mondo», tuttavia falce del destino sottraendogli battito prima ch’egli portasse a compimento quanto ideando congiuntamente a Maroni e, attualmente, quello che avrebbe dovuto esserne protettivo eremo racchiudendo — fra molteplici capi d’abbigliamento, calzature, valigie, gioielli delle donne ospitate e relative vestaglie intime — testimonianze di guerra del Comandante nel Museo “D’Annunzio Eroe”, al piano inferiore trovandosi:
Corridoio d’ingresso, con reliquie belliche di vario genere;
Sala dei Calchi, quella che sarebbe dovuta divenir la nuova stanza da letto dello spossato ed anziano Gabriele D’Annunzio e che invece ne ospitò l’inerme salma, prima del funerale, allo scopo di permettere familiare congedo dei propri cari;
Ingresso con scala, arredato con sculture di piccoli animali ad opera dell’incisore, orafo e scultore Renato Brozzi (1885-1963);
Sala Giancarlo Maroni, ospitante esposizioni pittoriche;
Sala Luisa Baccara (1892-1985), con notevole raccolta di quanto lasciato in dono dalla famosa pianista, musa dello scrittore, oltre che fedele e riservata amante, ai tempi nota come la Signora del Vittoriale;
Ingresso e Sala degli autografi, ambedue al primo piano, nel primo il ritratto del letterato titolato Orbo veggente, la seconda il suo nuovo studio nel quale, ad onorarne memoria, pregiati volumi, opere, fotografie, amicali epistole, un gesso del viso materno, indumenti d’aviazione, calchi, xilografie, autografi e ritratti;
Nella parte estrema sorge l’Auditorium (già Museo di Guerra), nell’ampia cupola padroneggiandone il velivolo biposto S.V.A. — modello esclusivo dacché appositamente modificato e personalizzato — condotto dal Cantore da San Pelagio a Vienna, il 9 agosto 1918, per una celeste tratta di mille e cento chilometri, percorsa in sei ore e quaranta minuti e dall’opposto lato i complessi al cui interno Archivi e Biblioteca, fra lor connessi da imponenti portici, sottoportici e gallerie; discendendo la gradinata orientata al lago è invece possibile raccogliersi in solenne pensiero di fronte alla Tomba di Maria Hardouin, unica sposa dell’abruzzese verseggiatore il cui principale domicilio fu Villa Mirabella — a tutt’oggi Museo Sciltian — fra essa e la Prioria trovandosi la Casa del custode ed il succitato Casseretto nei cui locali il Maroni traslocò la propria persona e gli Uffici della Santa Fabbrica.
Sull’entrata della Prioria, vale a dire la dimora del Frate Priore, come soleva definirsi l’autore, fra balconi ed altorilievi augural locuzione si staglia sull’arco in un «Sia pace a questa casa. Spirito di vittoria dia pace a questa casa d’uomo prode», con riguardoso permesso oltrepassandone soglia allo sguardo aprendosi un’originale, ricercata, univoca, inimitabile e rappresentativa realtà d’arredo formata da tomi, tessuti, mobilia e soprammobili ove nulla è un casual oggetto, viceversa, dal primo all’ultimo elemento, personalmente animato dal veemente tocco d’un uomo intriso di vulcanico pathos alla materia trasmesso ed attraverso l’individual gusto percettibile in ogni scelta attuata, a cominciar dal Vestibolo, sette gradini alla cui sommità una colonna francescana suddivide la casa in zona mistica e profana, fra marmi e legno di noce frazionandosi spazio due leoni in legno dorato, un’acquasantiera, un pastorale, un ligneo trittico — i cui soggetti, la Beata Vergine, San Francesco — un altarino e, fra magistrali intagli, tant’altre meraviglie, al proseguir percorso restando di stucco all’incredibile susseguirsi di stravaganti e tematiche stanze, quali:
Stanza del Mascheraio: un migliaio di libri ne abbelliscono la vecchia biblioteca appartenuta al Thode, presenti un grammofono, una radio e dei dischi ed il nome della stanza estrapolato dai versetti scritti sullo specchio per la visita del Duce, nel maggio del 1925: «Al visitatore: Teco porti lo specchio di Narciso? Questo è piombato vetro, o mascheraio. Aggiusta le tue maschere al tuo viso. Ma pensa che sei vetro contro acciaio»;
Stanza della Musica: soave ambientazione in cui decorate stoffe e cordami s’intrecciano — tra soffitti, pareti e colonne — a fini sonori, l’illuminazione contribuendo ad un’atmosfera improntata a rilassante ascolto, a tal proposito vari gli strumenti musicali ancor intatti e placidamente adagiati fra mobili cinesi, oggettistica orientale ed un grande arazzo di cuoio variopinto;
Stanza del Mappamondo: così nominata per il geografico globo sospeso sul tavolo e svariati i cimeli appartenuti a Bonaparte (1769-1821), accanto a quasi seimila volumi — per la maggior parte di storia dell’arte italiana e d’autori classici — espirando cultura dagli scaffali in legno e dal soffitto volteggiando un modello d’imbarcazione veneziana di grandi dimensioni;
Zambracca: prima fra le notturne camere, invero l’araldico termine significando «donna da camera» e la stanza fungendo sia da guardaroba che da studio privato, il medesimo nel quale il poeta venne improvvisamente colpito da emorragia cerebrale, ivi smorzando respiro;
Stanza della Leda: camera da letto dello scrittore, ove la figlia di Testio e moglie di Tindaro, è raffigurata all’interno del camino e in virtù del mito greco, assieme all’adorante Zeus tramutatosi in cigno. A sorvolar l’intero ambiente travi del soffitto sulle quali abile setola dell’incisore, scultore e pittore Guido Marussig (1885-1972) riportò incantevoli rime dantesche ai tempi dell’esilio: «Tre donne intorno al cor mi son venute, e seggonsi di fore; ché dentro siede Amore, lo quale è in segnoria de la mia vita. Tanto son belle e di tanta vertute» e ad arricchir il grande talamo una pregevole coperta persiana di seta, portata in dono da Maria;
Veranda dell’Apollino: annessa con la funzione d’indirettamente rischiarare la Stanza della Leda e la centrale statua di Apollo originandone il nominativo, il grazioso locale predisposto a sala lettura e lavoro, sopra un tavolino signoreggiando fotografie della madre Luisa de Benedictis (1839-1917) e dell’attrice Eleonora Giulia Amalia Duse (1858-1924), decennale amante del giovane e riccioluto D’Annunzio al qual ella «abbandona alla presa di quegli occhi chiari, si sorprende a dimenticare tutta la sua amara sapienza della vita e a godere della lusinga che essi esprimono», fra i due nascendo ardente e tumultuosa relazione;
Bagno blu: stanza da bagno sul cui soffitto si legge «Ottima è l’acqua!», attinente detto del greco, maestro della lirica corale, Pindaro (518 a.C. – 438 a.C.); mattonelle persiane, vetri, porcellane, ceramiche, cineserie ed argenteria son ovunque posizionate;
Stanza del Lebbroso: verosimilmente la più criptica della Prioria, allestita secondo la concezione del lebbroso come individuo sacro sfiorato da divino tocco, ragion per la qual a D’Annunzio piaceva considerarsi tale, il vano rappresentando un intimo angolo di meditazione in momenti di sofferenza ed ogni elemento d’arredo assumendo un senso ben preciso, come ad esempio la pelle di camoscio alle pareti, richiamante il saio francescano e nelle tre vetrate — costituite da circa duemila lastre sovrapposte — riportanti il biblico Cantico di Daniele (3,57-88) ed eseguite dall’erede d’insigne famiglia artistica ticinese, Pietro Chiesa (1892-1948), accostandosi multiformi colori. Nell’altra parte della stanza — suddivisa da una ringhiera dorata — un’alcova accoglie il doppio letto “delle due età”, culla e bara, sovrastato da un quadro di San Francesco in atto di mgnanimamente confortar lebbroso dal volto di D’Annunzio e sul soffitto da lacunari aventi in lettere dorate impressi, i motti «Prigione io canto», «Così vivo», «Così ferisco», «E solitario e solo», «Da ruggine sicuro», «Ardendo m’innalzo», «Foco ho meco eterno», «Pur che altamente» ed accompagnati da immagini, altri incisi sul vicino armadio — custode delle divise militari — esaltanti quant’egli stringeva in petto: «Nelle formelle dell’armadio e nelle facce interne porrei i segni dei miei amori costanti: La bella donna ignuda col motto semper non semper; Il cavallo impennato col motto morsu præstantior; Il levriere in corsa col motto donec capiam; Il velivolo in altezza col motto non sufficit orbis; la spada brandita col motto lucem sub nubila iactat; La decima Musa ‘Energeia’ (o Musa di Ronchi!) col motto fert diem et horam; Il fuoco ardente fra belve in fuga col motto solus fortes terret ignis non me; L’organo o un altro istrumento musicale col motto numquam dissonus». (Lettera a Guido Cadorin in data 6 agosto 1924. Valerio Terraroli: Cadorin, D’Annunzio e la stanza dei Sonni puri, 1987)
Sul copriletto di color marrone, ulteriore ed ultima sentenza inclusa nell’ambiente, «Dona, e non isciema», «dà senza diminuire», espressione illustrata nel seicentesco Teatro d’Imprese di Giovanni Ferro (1582-1630). Poggiate su un piccolo tavolo invece, le fotografie della madre, della Duse e, in aggiunta, della sorella Elvira (1861-1942), mentre decori e dipinti sono a firma del pittore veneziano Guido Cadorin (1892-1976), al quale il proprietario di casa ebbe ad esprimere sentita ed appagata gratitudine: «Fino ad ora ho riscaldato col mio alito immortale la stanza ove non potrà vivere se non la mia morte. La stanza è un miracolo di là della tua arte e di là della mia ispirazione. È un miracolo ed un mistero per entrambi inconoscibili»;
Corridoio della Via Crucis: pareti in alcune parti rivestite da tessuto e numerosi i piccoli quadri in smalto su rame del pittore, acquafortista e smaltatore Giuseppe Guidi (1881-1931);
Stanza delle reliquie: come facilmente deducibile, in codesto vano dai muri damascati, Gabriele D’Annunzio ebbe a raggruppare differenti reliquie e immagini di varie credenze, la sincretica convergenza religiosa palesandosi in lettere d’oro appese sulla trabeazione delle pareti al dir «Tutti gli idoli adombrano il Dio vivo, tutte le fedi attestan l’uomo eterno», sul cornicione coronante tre lati dell’ambiente trionfando antiche statue d’angeli e santi, la stanza oltretutto destinata ad esercitazioni musicali e a farla da protagonisti nel bel mezzo dell’ammaliante tripudio d’opere d’arte, sono una piramide composta dalle divinità d’eterogeneo credo — sovrastati da Confucio, Buddha e Madonna con bambino — e un altare con ciò che rimane del volante che fu a guida dello scafo sul quale, il 13 giugno del 1930, perse la vita il pilota motonautico ed automobilistico britannico Sir Henry O’Neil ‘de Hane’ Segrave, natali al 1896 e detentore di numerosi record di velocità in terra e fra l’onde, causa del tragico e fatale incidente un tentativo di superamento del primato di velocità durante una competizione svoltasi nell’inglese lago di Windermere, alla quale aveva partecipato su sprone dello scrittore, fatalmente l’ imbarcazione terminando corsa in terribile scontro con un albero celato dall’acque;
Corridoio Gamma: dalla conformazione ad angolo e gremito di testi argomentativi su diversificate discipline;
Stanza del Giglio: pressappoco tremila libri di storia e letteratura italiana fanno da cornice ad un armonium, con canne decorative;
Oratorio dalmata: sala d’attesa dei visitatori dall’austero arredamento, con lampada votiva alla madre, una piccola colonna d’evocazione romanica, volumi di soggetto religioso e spirituale, un dipinto di San Girolamo, una fontanella ed un camino, aventi i versi del Cantico delle Creature, «Laudato si’ mi’ Signore, per sor’acqua la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore per frate Fuocho, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte» ed al soffitto l’elica con la quale, nel 1925, l’aviatore e generale — sottocapo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica — Francesco de Pinedo (1890-1933) fece un volo a tappe, da Sesto Calende a Melbourne e poi Tokyo, coprendo la distanza di ben cinquantacinquemila chilometri;
Scrittoio del Monco: tal denominazione legata alla scultura d’ingresso, scevra di mano e riportante la scritta «Recisa quiescit», «Tagliata riposa», la saletta venendo adibita alla corrispondenza fra le profumate pagine d’oltre duemilacinquecento volumi protetti in librerie le cui architravi riportanti quattro sentenze dell’insigne Leonardo da Vinci (1452-1519): «Se tu vuoi che la tua casa ti paia grandissima, pensa del sepolcro» — «Niuna casa è si piccola che non la faccia grande uno magnifico abitatore» — «Acciocché tu più cose possa più ne sostieni» — «E chi non ha sepoltura è coperto dal cielo»;
Officina: lo studio per antonomasia del vate, unico nel quale il mobilio in rovere chiaro ed una maggior luminosità rendono la repentina sensazione di maggior luminescenza, all’elegiaca stanza potendo accedere sol inchinandosi, date le ridotte dimensioni della porta d’ingresso, volutamente predisposte al fin d’accedervi in ossequioso saluto all’arte, inciso sull’architrave un loquace «Hoc opus, hic labor est», «Ecco la difficoltà, ecco la fatica» e coricati su inclinate mensole documenti, manoscritti, tesi di consultazione, dizionari e tanta cultura in cartaceo compressa, fra calchi, gessi e ritratti, al centro dominando scena l’emozionante e facondo scrittoio, il tutto precisamente conservato come lasciato da Gabriele D’Annunzio prima d’accomiatarsi dal mondo, indi matite, penne, scritti ed occhiali ancor di lui raccontando, parimenti alla testimone velata, scultoreo volto della Duse del Minerbi, ch’egli era solito coprire con un velo prima di dedicarsi anima e corpo alla scrittura;
Corridoio del Labirinto: pressoché duemila tomi ne adombrano le pareti, sulle rilegature degli stessi e sulle porte essendo disegnato il Labirinto tratto da quello raffigurato sul soffitto di legno a cassettoni della famosa Sala del Labirinto del Palazzo Ducale di Mantova e la cui scritta, parte del testo d’una canzone d’amore del sedicesimo secolo, a sua volta adottata dal D’annunzio come titolo del noto romanzo, del 1910, Forse che sì, forse che no, in seguito all’essere rimasto stregato dalla bellezza del posto, durante una visita nel 1907;
Stanza della Cheli: sala da pranzo per gli ospiti in stile déco — porta comunicante con le cucine — il cui nome dal greco Khélys (Tartaruga), poiché in essa presente una bronzea scultura del tal rettile eseguita nel 1928 per mano del già citato Renato Brozzi ed il cui guscio realmente appartenuto ad una vera tartaruga ricevuta in dono da D’Annunzio su cortesia della nobildonna e collezionista d’arte Luisa Casati (1881-1957), l’animale morendo nel parco del Vittoriale per deleteria scorpacciata di candide ed inebrianti tuberose.
Ad accomunare le stanze della Prioria — storico scrigno di qualcosa come diecimila oggetti e trentatremila volumi — sono vasi, sculture raffiguranti persone o animali, tappeti, cuscini, tendaggi, tappezzerie e quanto D’Annunzio ritenne adeguato a manifestare il proprio animo, egli magistralmente giocando con luci soffuse nel concepir un’atmosfera all’interno della qual tutto legare a sacrale ed allegorico filo rosso nel paradigma dell’esistenza da lui camminata ed a savi ed arguti motti affidando comunicativo e leggendario pensiero.
Magia prosegue all’esterno nei Giardini della Prioria, straripanti impareggiabili opere artistiche disseminate fra sentieri e lussureggiante flora, emozional sussulto però deflagrando sul sepolcro della quartogenita Renata (1893-1976) — frutto della quinquennale relazione intrecciata dal poeta con la principessa sicula, a cui dedicò romanzo L’innocente, Maria Gravina Cruyllas di Ramacca (1861-?) — da paterna carezza vezzeggiata Cicciuzza o Sirenetta, profondo affetto ch’ella seppe cogliere e in filial purezza ridonargli, in particolare il genitore accudendo durante la convalescenza trascorsa nella veneziana Casetta Rossa, a ragion della nota, grave lesione all’occhio destro, accidentalmente occorsagli il 16 gennaio 1916, allorché, in aereo, nei pressi di Grado, di ritorno da una missione su Trieste, fu costretto da un guasto al motore all’ammaraggio, per la qual violenza urtò contro la mitragliatrice, riportando dunque le ferite che, silenziandone il desiderio di riprendere immediatamente il proprio ruolo, l’obbligarono a ricovero ospedaliero e predetto periodo d’inerzia, immerso nell’oscurità delle bende accuratamente preparate dalla figlia; sventura tuttavia, donde Gabriele D’Annunzio trasse ispirazione, insufflandone riflessi nel capolavoro, pubblicato il 21 novembre 1921, Notturno.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso,
un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga.
Ho tra le dita un lapis scorrevole.
Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista,
la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto
e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi.
Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza
in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso,
che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine
la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d’ogni luce.
Scrivo nell’oscurità.
Traccio i miei segni nella notte
che è solida contro l’una e l’altra coscia
come un’asse inchiodata.
Imparo un’arte nuova.
Ad avviar a conclusione inimmaginabile e suggestivo itinerario, l’immenso Parco — al quale s’accede dal Viale degli Aligi, costui uno fra i personaggi della tragedia dannunziana in tre atti titolata La figlia di Iorio — a dolcemente e verticalmente fenderlo il Torrente dell’Acquapazza, ad accrescerne la natural bellezza cascatelle le cui acque accolte dalla Fontana del Delfino e rigettate a valle, al centro della fonte una bronzea Afrodite che riemerge dall’acqua in compagnia di un delfino, mentre a stagliarsi in tutta imponenza in un deposito opportunamente allestito il MAS 96, egli all’acronimo affiancando la coniata e celeberrima locuzione, trascritta sull’edificio a custodia del natante, «Memento Audere Semper», «Ricorda di Osare Sempre», giustappunto rimembrando quando fra il 10 e l’11 febbraio 1918, a bordo del citato Motoscafo Anti Sommergibili, attraversata la Baia di Buccari, città situata lungo la costa adriatica a sud-est di Fiume, dette luogo ad una delle più clamorose operazioni della Grande Guerra, nonché a decisiva svolta — data la risonanza suscitata entro i confini italiani — alla campagna bellica, su galleggianti calando in mare tre bottiglie suggellate dal tricolore, contenenti ardimentoso e romantico messaggio, all’indirizzo del Naviglio austro-ungarico: «In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia».
Gigantesca ed impensabile costruzione è la Regia Nave Puglia, impiantata nel 1925 sul promontorio La Fida dopo donazione dell’ammiraglio, politico e nobile Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel (1859-1948), a permetterne il trasporto venti vagoni ferroviari sui quali l’imbarcazione venne caricata previo smontaggio e successivo riassemblamento con prua rivolta al lago, in direzione dell’Adriatico e la parte posteriore unita alle architetture dei viali, la discesa nella stiva regalando esperienza d’ineguagliabile suggestione a ricordo dell’episodio che a fondo colpì l’impavido vate, ossia la morte a cui andarono incontro, a Spalato, capitano dell’incrociatore — medaglia d’oro al valor militare — Tommao Gulli (1879-1920) ed il fuochista Aldo Rossi durante un tumulto a difesa di marinai aggrediti.
Nella pittoresca area verde, piccole valli e laghetti catturano i sensi ed è con pietra bianca di Verona che venne costruito il Ponte delle Teste di ferro, con parapetto a mo di seduta e proiettili d’obice — gentilmente omaggiati dal generale Armando Diaz (1861-1928) — incastonati sui pilastri, mentre nella parte sottostante la Veranda dell’Apollino è una minuscola zona boschiva di magnolie — l’Arengo — a far da luogo di ritiro e raccoglimento, che D’Annunzio predispose a commemorazione bellica, con esecuzione di simbolici rituali a riguardo, le ventisette colonne grigie rappresentando numericamente le vittorie italiane durante la prima guerra mondiale; dalla Veranda della Via Crucis s’apre ingresso nel Cortiletto degli Schiavoni — interno alla Prioria e provvisto di tre antichi pozzi — in manifesta e riconoscente riverenza ai compagni dell’impresa fiumana, il chiostro comunicante il Portico del Parente, ossia Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il poeta percependo nella necessaria ricerca trascendente la tecnica, della bellezza, intima affinità col genio di Caprese.
Come precedentemente evidenziato, amante dei cani, D’Annunzio non lesinò cure verso i propri levrieri, offrendo loro appositi spazi con dignitosi giacigli ed in gratitudine predisponendo un’area cimiteriale; risaltante riguardo mostrando a Natura, nel dispensare altrettanta attenzione al frutteto, impiantato — peraltro radicando, oltre al prediletto melograno eletto simbolo d’intima espressione ed esistenza nel mito di Persefone, rara varietà di cedro dal nome scientifico di Citrus Medica Sarcodactylus ed in ragion di forme del frutto, conosciuta come Mano di Buddha — cingendone rigoglio in un abbraccio di fiori, aquile e gigli in pietra, fra essi stagliandosi emblema del ciclo di morte e rinascita anzidetto, opera dello scultore Napoleone Martinuzzi (1892-1977), una bronzea Canefora, raffigurazione di colei che nelle sacre ritualità osservate nella Grecia antica, sul capo recava canestro ricolmo di doni.
Il fiore vivo accresce il pregio della cosa d’arte; ed essa cosa accresce l’incanto del fiore vivo.
Gabriele D’Annunzio
Munificamente progettato dal Maroni per degnamente distendere l’inerme corpo del compianto Imaginifico in prossimità dei Cieli fu il Mausoleo, monumento — peraltro di straordinaria veduta panoramica — rifacentesi ai sepolcro romano ed attorniato da tre cerchi a guisa di danteschi gironi, omaggianti, a partir dal primo, la Vittoria degli Umili, degli Artieri ed infine degli Eroi, prima pietra in posa il primo marzo 1939 e le dannunziane spoglie ivi elevate nel giugno del 1963, in commemorazione del centenario dei natali e del venticinquesimo della compassionevole dipartita, attorno al vate, su volontà dello stesso, a minor altezza riposando le salme di dieci legionari fiumani nelle persone di, da destra procedendo: Italo Conci (1893-1920); Guido Keller (1892-1928); Luigi Siviero (1899-1919) con Antonio Gottardo (1896-1920, sepoltura simbolica); Giancarlo Maroni (1893-1952); Giuseppe Piffer (1894-1930); Antonio Locatelli (1895-1936, sepoltura simbolica); Ernesto Cabruna (1889-1960); Riccardo Gigante (1881-1945, sepoltura simbolica); Adriano Bacula (1894-1938); Mario Asso (1899-1920), a lor sopraelevandosi — in fiera e perenne presenza — il creativo e sensibile pescarese, uomo la cui esistenza, imperscrutabilmente trascorsa fra plurime sfaccettature caratteriali, tenacemente zampilla nell’imprescindibile aggancio al proprio stile poetico in cui tipica fu la scrupolosa ricerca di vocaboli da tatuar a carta ed ai quali imprimere armoniosa personalità il cui ritmo — irriducibilmente battente — pulsasse sull’interiorità sensoriale del lettore, prima che sulle facoltà intellettive dello stesso, il poliedrico, volubile, puntiglioso, contraddittorio, perspicace, fantasioso e generoso versificatore venuto da Pescara, fra gaudio e malinconia ondeggiandosi la vita ed a solitaria altezza chetandola in perenne pace, l’essenza del suo spirito planando fra verdeggianti pendii ed effondendosi su gardensi acque.
Non soltanto ogni casa da me arredata,
non soltanto ogni stanza da me studiosamente composta,
ma ogni oggetto da me scelto e raccolto nelle diverse età della mia vita,
fu sempre per me un modo di espressione,
fu sempre per me un modo di rivelazione spirituale,
come un qualunque dei miei poemi,
come un qualunque dei miei drammi,
come un qualunque mio atto politico o militare,
come una qualunque mia testimonianza di dritta e invitta fede.
Perciò ardisco offrire al popolo italiano tutto quel che mi rimane
e tutto quel che da oggi io sia per acquistare e per aumentare col mio rinnovato lavoro,
non pingue retaggio di ricchezza inerte ma nudo retaggio di immortale spirito.
Già vano celebratore di palagi insigni e di ville suntuose,
io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica,
non tanto per umiliarmi
quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione.
Tutto infatti è qui da me creato e trasfigurato.
Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare allo stile.
Il mio amore d’Italia,
il mio culto delle memorie,
la mia aspirazione all’eroismo,
il mio presentimento della Patria futura
si manifestano qui in ogni ricerca di linee,
in ogni accordo o disaccordo di colori.
Non qui risanguinano le reliquie della nostra guerra?
E non qui parlano o cantano le pietre superstiti delle città gloriose?
Ogni rottame rude è qui incastonato come gemma rara.
La grande prora tragica della nave “Puglia” è posta in onore e luce sul poggio,
come nell’oratorio il brandello insanguinato del compagno eroico ucciso.
E qui non a impolverarsi ma a vivere son collocati i miei libri di studio,
in così grande numero e di tanto pregio,
che superano forse ogni altra biblioteca di solitario studioso.
Tutto qui è dunque una forma della mia mente,
un aspetto della mia anima,
una prova del mio fervore.
Come la morte darà la mia salma all’Italia amata,
così mi sia concesso preservare il meglio della mia vita in questa offerta all’Italia amata.
Atto di Donazione, 22 dicembre 1923
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