Francesco Baracca, icona dell’Aviazione e “padre” dell’emblema Ferrari
Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.
Leonardo Da Vinci
Metaforico filo a collegar Francesco Baracca ed Enzo Ferrari, fu e rimarrà il cavallino rampante, inizialmente assunto a simbolo d’aviazione, poi traslato a emblema automobilistico.
Venuta alla luce di Francesco Luigi Giuseppe Baracca si concretò alle 16:30 del 9 maggio 1888, nel ravegnano comune di Lugo, precisamente nell’allora Via del Corso, dove domiciliò per un sessennio per poi, nel 1894, trasferirsi con i genitori in un edificio della parallela via Fermini, oggigiorno a lui titolata.
Unico figlio dell’affarista, commerciante di vini e proprietario terriero di poderi coltivati a vite, Enrico (1855-1936) e della moglie, contessa originaria di Bagnocavallo, Paolina Biancoli (?-1949), al bimbo venne assicurata prestigiosa istruzione, ciclo primario svolgendosi, con eccellente resa, presso la scuola locale dei Salesiani, per poi proseguire, a partir dal 1900, nella Badia Fiesolana, ai tempi uno fra i più rinomati istituti nazionali — gestito dai Padri Piaristi in territorio fiorentino — ciò significando per Francesco doversi allontanare dai familiari, con i quali manterrà un profondo legame, stabilmente intrecciato tra frequenti missive, attese visite al collegio e bramati ritorni a casa per le vacanze, nella stagione calda il ragazzo rigenerandosi nella villa di San Potito, regolare dimora estiva che gli fu culla d’indelebile gaudio e condivisione d’affetti parentali armoniosi, confidenti e solidali.
Nella frazione lughese solcata dalle torrenziali acque del Senio, fra campagna e vigneti di proprietà Francesco Baracca trovava meritato ristoro dal diligente e costante impegno di scolaro, spensieratezza saturandone le giornate all’insegna di giochi e movimento: oltre ad acuto intelletto, egli possedeva un temperamento vivace e di sportiva inclinazione, prontamente espresso in corse, pedalate, giri in motocicletta quando più grandicello e, soprattutto, cavalcate, pratica coltivata fin dall’infanzia nelle scuderie della tenuta paterna, dato l’essere Enrico un grande estimatore di cavalli; nel periodo al convitto e non senza preoccupazione materna a riguardo, il giovane s’iscrisse a un corso d’equitazione, nell’intento di perfezionare quanto già proprio per ereditata indole e negli anni partecipando con acclamato successo a concorsi ippici, affascinando gli spettatori per preparazione atletica e capacità di salto degli ostacoli.
Terminato il ginnasio a Fiesole, nel 1904 Baracca si diresse a Firenze, nel capoluogo toscano venendo gentilmente ospitato da una coppia amica di famiglia, allo scopo di poter frequentare il Liceo Classico Dante e dopo un triennio siglando fine del percorso formativo con diploma a pieni voti, traguardo che nel padre nutrì presumibilmente aspettative d’un proseguo universitario ad indirizzo economico, medico o giuridico, tuttavia l’amato figlio — disattendendone le speranze — pose ascolto all’anelito che in ciascuno sussurra la direzione da intraprendere e il 5 novembre 1907, volse dunque passo verso quella che all’epoca era denominata Scuola Militare di Modena, per acceder alla quale erano però necessarie le firme d’ambedue i genitori, stavolta toccando a Paolina, totalmente in sostegno alla scelta del figlio, intercedere con il coniuge, guadagnandone pacifico assenso.
Raggiunto in un biennio il grado di sottotenente dell’Arma di Cavalleria del Regio Esercito, nel 1909 Francesco Baracca partì alla volta di Pinerolo, per specializzarsi nella sede torinese deputata alla preparazione equestre dei militari e a settembre 1910 fu prescritto al Reggimento Piemonte Reale, nella caserma Castro Pretorio, situata nell’omonimo rione capitolino e il cui stemma era un argenteo cavallino rampante, su campo rosso.
Per Francesco Baracca, quella tra Pinerolo e Roma — ad esclusione di pochi mesi passati in distaccamento a Rieti nel 1911, da lui ritenuti poco stimolanti nel tempo libero — fu una fase di vita intensa anche a livello di mondanità, egli riuscendo a dedicarsi al divertimento anni addietro trascurato in favor di studio e finalmente lasciar spazio a frequentazioni di circoli culturali, teatri, opere liriche e così arricchire lo scrigno riempito fin da piccolo, brillante mente d’infante attratta da svariati interessi tra i quali il disegno, le collezioni filateliche e la musica, ch’egli sperimentò imparando a suonare il violoncello e talvolta accompagnando la compiaciuta madre al pianoforte.
Di bell’aspetto, Francesco Baracca aveva elegante portamento, era alto ben sopra la media e raffinato nell’abbigliarsi, perfettamente in linea ai dettami della moda; sebbene tendenzialmente riservato e taciturno, era il trovarsi in compagnia degli amici a farne scaturir risata pronta, verace simpatia e sana voglia di svagarsi, a completamento d’una personalità eclettica e ammaliante, rigorosamente strutturata nel soldato e gradevolmente spassosa al di fuori del proprio ruolo, ma trasversalmente amabile con la facilità di benevolenza che sorge spontanea nei confronti delle persone autentiche.
Il 1911 fu anche annata in cui, per la prima volta, venne utilizzato un aeroplano in guerra, nel conflitto italo-turco, otto anni innanzi all’originario “staccarsi da terra” d’un velivolo più pesante dell’aria — motorizzato e di conseguenza con possibilità di controllo — per opera di Wilbur (1867-1912) e Orville Wright (1871-1948), pionieristici inventori e ingegneri statunitensi riusciti, il 17 dicembre 1903, a sfidare le forze di gravità con il loro Flyer, data imprimendosi nella storia e i due aviatori abnegandosi a migliorare prototipi e farli conoscere oltre oceano.
Fu un volo di 12 secondi, incerto, ondeggiante e traballante…ma fu finalmente un vero volo e non una semplice planata.
Orville Wright, narrando il volo del 17 dicembre 1903
Intuendone con non scontata lungimiranza le potenzialità, l’Italia ne sperimentò appunto in Libia, avvalendosene come vantaggioso mezzo per attuare ricognizioni in campo nemico e fotografarne schieramenti, perlomeno fino a quando — l’1 novembre — l’aviatore ventinovenne Giulio Gavotti (1882-1939) non sganciò bombe a mano su un accampamento turco, precorrendo l’azione dei futuri aerei bombardieri, vale a dire biplani fra i quali i più famosi furono quelli progettati dall’ingegnere e imprenditore Giovanni ‘Gianni’ Battista Caproni (1886-1857), in breve tempo adottati da quasi tutte le milizie; rendendosi in seguito necessario un controllo degli stessi sia a offesa che a difesa, vennero creati i Caccia, monoposto più leggeri e di conseguenza maggiormente celeri nel prender quota, dotati di mitragliatrici e atti a coprire il collega o mirare all’avversario.
Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall’aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa del genere.
Giulio Gavotti
Fu casualmente assistendo a una delle ricorrenti dimostrazioni pubbliche che, a partire dal 1909, i fratelli Wright fecero a Centocelle — zona in cui arebbero avviato una scuola di volo e divenuta primo aeroporto italiano — che nel 1912 Francesco Baracca subì fulminea attrattiva, travolgente al punto da inoltrar domanda alla Scuola di Aviazione Civile Hanriot, a Betheny, accolta il 24 aprile e con immediata di lui partenza il 25.
Dopo aver coscientemente mentito alla madre sul reale motivo del viaggio, nell’amorevole premura di non crearle apprensione e dunque dicendole che si sarebbe recato in Francia per apprenderne l’idioma, Francesco Baracca — in accordo con Enrico che lo assecondò nel proposito, ne finanziò le spese e mantenne transitoriamente segreto — si diresse a Reims e di fibrillante entusiasmo in corpo, provato nel primo levarsi da terra il 4 maggio, ne descrisse in una lettera al padre: «Appena il motore si mosse l’Hanriot partì per l’aria come una freccia, nel lasciare la terra non ho provato nessuna impressione tanto l’apparecchio dava segno di stabilità […] Era un meraviglioso sogno ad occhi aperti vedermi scorrere di sotto gli alberi, le strade, la campagna; è una cosa piacevolissima guardare giù e mi sono assicurato di non soffrire affatto di capogiri».
Quando, in un secondo momento, anche Paolina Biancoli venne a conoscenza del tutto, naturale apprensione di madre palpitò comprensibili timori: trepidazioni che Francesco Baracca si premunì di lenire attraverso una fitta e giornaliera corrispondenza, colma di dettagliati racconti e protettive rassicurazioni riguardo al proprio benessere: «Ho mangiato benissimo, non avrei mai creduto. Minestra a volontà assai buona! Facendo il mio dovere, mi troverò contento».
Ottenuto brevetto di pilotaggio numero 1037 il 9 luglio, Francesco Baracca rimpatriò e fu alla Scuola Militare di Aviazione di Cascina Malpensa che, a dicembre, superò esame per conseguire quello di pilota militare su un Caccia Nieuport-Macchi Ni 10 con cui, il 27 settembre del 1913, riuscirà nell’intento di passare con gioiosa soddisfazione nei cieli della sua Lugo, sopra festosi abitanti naso all’insù, orgogliosi del valoroso concittadino; nel frattempo si preparava con dedizione a Parigi, dov’era stato inviato in addestramento, in previsione allo scoppio della Grande Guerra.
Traversando unità aeronautiche — in ognuna lasciando stimato segno di sodate e difficilmente eguagliabili abilità tecnico-acrobatiche, nonché autocontrollo e velocità decisionale, doti essenziali alla salvaguardia e buona riuscita d’operazioni belliche — fu nella 1a Squadriglia Caccia che Baracca ebbe a disposizione un Nieurport 11, con cui effettuò il primo dei cinque abbattimenti occorrenti per esser definito “Asso dell’Aviazione”, designazione della quale si pregò capo il 25 novembre 1916, a distanza di qualche mese dall’esser stato promosso a Comandante di quella che frattanto era stata ribattezzata 70a Squadriglia Caccia, con successiva dotazione d’innovati velivoli, fra gli altri lo SPAD S. VII e il Nieuport 17: su quest’ultimo e sull’onda della tendenza che andava diffondendosi, d’applicare un contrassegno per riconoscersi in volo, Francesco sceglierà d’identificarsi con un cavallino inalberato, o rampante, posto sulla grigia fusoliera in supposto omaggio alla Piemonte Reale, benché all’argentata sfumatura sostituendo il colore nero e per lo sfondo, ove essenziale, prediligendo il bianco, per accentuarne, tramite tonalità a contrasto, la visibilità su aerei mimetici.
Il primo giorno di maggio del 1917, dalla 70a Squadriglia Caccia vennero scelti i piloti migliori, riuniti nella 91a Squadriglia, attualmente attiva e di fatto reparto d’élite — con a simbolo l’araldico Grifone — interamente composto da Assi dell’aviazione, fra i quali Giovanni Sgabelli (1886-1917), Ferruccio Ranza (1892-1973), Enrico Ferreri (1893-1917), Pier Ruggero Piccio (1880-1965), Gaetano Aliperta (1896-1986), Guido Keller (1892-1929), Bartolomeo ‘Meo’ Costantini (1889-1941), Fulco Ruffo di Calabria (1884-1946), selezionati personalmente da Francesco Baracca, in qualità di Capitano e poi di Maggiore, instancabilmente perseverante nell’accantonare vittorie – ufficialmente trentaquattro, le ultime conquistate a bordo del nuovo SPAD S. XIII — e sessantatré duelli aerei.
Protagonista di fiere battaglie sostenute in volta celeste con temerario ardore, il soprannominato “Asso degli Assi” solcò etere da incrollabile guerriero fino al 19 giugno 1918, durante lo svolgimento di quella che Gabriele D’Annunzio nominerà Battaglia del Solstizio, intrapresa dall’Esercito Italiano sulle rive del Piave quattro giorni prima, dopo ripresa delle truppe, stremate dalla devastante disfatta di Caporetto dell’autunno previo, dopo la quale il Comando Supremo dovette spostarsi da Udine a Padova: rientrato alla base in rifornimento per la terza volta, attorno alle 18:15 Francesco Baracca decollò per la quarta missione quotidiana di mitragliamento, ma con lo SPAD S. VII di riserva, causa l’aver lasciato il nuovo SPAD S. XIII in riparazione, per danni alla tela delle ali.
A seguirlo e “parargli le spalle” era il gregario Franco Osnago, il quale dopo averne visto l’aereo emettere un’improvvisa fumata bianca e repentina virata in zona Nervesa, lo perse di vista; solamente dopo disperati e vani giri di ricerca, rientrò totalmente affranto nel dover comunicar triste accaduto, sconvolgendo l’intera squadriglia, sospesa fra tranciante dispiacere e sbigottita incredulità.
L’esanime corpo, con un foro di proiettile tra nella zona orbitale destra e varie ustioni, venne ritrovato il 24 giugno sulle colline del Montello, accanto ai resti del Caccia andato in fiamme; notizia rimbalzò velocemente via stampa a livello internazionale, stendendo un manto d’attonito e generale sconcerto.
Il 26, a Quinto di Treviso — dove la 91a Squadriglia era di base da aprile, per decisione dello stesso Baracca, egli ritenendo la nuova postazione meno accessibile ad attacchi di quella padovana — si svolse funerale solenne alla presenza d’autorità, fra commossi e addolorati sguardi di compagni di volo, ai quali lo legava sincera e fidata amicizia, in primis con Fulco Ruffo di Calabria (1884-1946), avvilito accanto al feretro che domenica 30 incedette in ultimo viaggio fra le strade di Lugo, tra la numerosa folla di civili, sommessamente silenti nel saluto all’eroe nazionale, esempio d’audace coraggio e cristallina lealtà, pilota d’invidiabile professionalità e in perfetta sintonia col proprio mezzo, imparato allo spasimo, ma specialmente ufficiale gentiluomo che «mirava all’apparecchio e non al nemico», in quanto all’avversario riservando rispetto e riguardosamente colloquiandone se ferito o prigioniero.
Le pallottole con scia luminosa che adoperiamo non dovrebbero comunicare il fuoco alla benzina, viceversa questo succede spesso, ed è un fatto molto impressionante veder bruciare un aeroplano a tremila metri e gli aviatori che si gettano nel vuoto, come sempre accade e sto pensando di non adoperale più perché è già il terzo cui faccio fare questa fine.
(lettera alla madre, datata 1 agosto 1917)
Dopo la morte, una delle tre medaglie d’argento al valor militare, venne trasformata in medaglia d’oro, insieme a titolazioni, monumenti, commemorazioni, cerimonie e riconoscimenti che da decenni rimembrano il valore dell’uomo e del milite; a evocar il Francesco Baracca amato figlio, restano gli intensi i cospicui carteggi con Paolina Biancoli e gli scambi epistolari con il padre Enrico.
La salma sposò pace — per eccezionale concessione reale, dacché solitamente i deceduti sul campo lasciati in luogo di ritrovamento oppure seppelliti in ossari appositamente dedicati — al cimitero di Lugo, in un imponente sarcofago costruito con bronzo fuso da cannoni austriaci, sormontato da un’aquila con il Tricolore fra gli artigli.
Noi, suoi vecchi compagni di lotta, non sentiamo di dover ricorrere a immagini mitologiche per ricordarlo; non sappiamo vedere Baracca come una Pallade Atena appena uscita tutta armata dal cervello di Zeus. Per noi non è un semidio, ma più semplicemente un uomo eccezionale, per cui il solo essergli vicino era considerato dai piloti grande privilegio.
(Silvio Scaroni, in omaggio a Francesco Baracca durante la celebrazione del cinquantesimo della morte, tenutasi a Lugo)
Versione storica riporta che a colpirlo fatalmente, sia stato un cecchino da terra, nonostante vi siano alternative ipotesi, fra le quali che spari provenissero da un aereo austriaco, versioni purtroppo, forse per sempre, lontane da verità assoluta; in qualunque modo si sia svolto il funesto epilogo, nulla potrà mai offuscarne leggendarie gesta e bontà animo.
Non era se non un punto nel cielo immenso, non era se non una vibrazione invisibile nell’azzurro infinito. Ed ora è per noi tutto il cielo, è per noi tutto l’azzurro. Il suo spirito è un demone di vittoria. S’è sprigionato dalla carne e dal legno, dalla tela e dalla pelle, dallo scheletro e dall’acciaio. La sua volontà di vincere, che era d’uomo contro uomo, per infondersi in tutti gli uomini combattenti della sua razza, ha preso a propagatrice la morte. Così, incorporeo, nell’ora santa in cui le sorti erano per volgersi, egli volò su la fronte di tutte le nostre armate, traversò l’intera battaglia, profondo come il brivido e splendido come la folgore. Aveva vinto trentaquattro avversari; ed ecco vinceva gli eserciti! La sua gloria non era più un numero; era un’ala innumerevole e unanime sopra l’Italia trionfante.
E c’è chi si rammarica che a lui, prima di cadere, sia mancata la gioia della grande novella? Era egli stesso il messaggero della novella, ai vivi e ai morti. La sua bocca taceva piena di sangue nero, tra sassi e sterpi? Ma il suo grido slargava la bocca di tutti i combattenti. In ciascuno di noi egli ha combattuto con tutte le sue forze moltiplicate di là dell’umano. Per mirar giusto, abbiamo avuto il suo occhio infallibile nel nostro occhio, il suo pugno fermo nel nostro pugno.
L’altra sera, la sera del solstizio che è per noi italiani una sorta di festa solare e segna questa volta il culmine della luce di Roma quando ci fu annunziata la trasfigurazione e l’ascensione di Francesco Baracca il Vittorioso, là, in un campo litoraneo, mentre i nostri uomini caricavano di bombe i nostri apparecchi, io dissi ai miei compagni che bene gli antichi nostri celebravano i funerali degli eroi con giochi funebri. E, per celebrare l’eroe nostro col solo rito degno di lui, io li condussi a un funebre giuoco di guerra. Ritornammo e partimmo di nuovo, e ancora ritornammo e partimmo, finché la notte non fu consunta.
Egli era in noi, egli combatteva in noi, egli perseverava in noi, su quel fiume di nostra vita, lampeggiante come una riviera celeste. Oggi, domani, sempre, com’è con noi, sarà con noi, sarà in noi, combatterà in noi, in noi resisterà, come dice la nostra preghiera, «non fino all’ultima goccia del nostro sangue, ma fino all’ultimo granello della nostra cenere».
O compagni, oggi per lui la nostra anima è colma di bellezza come il nostro cielo è pieno di presagi. Perché da una fredda spoglia chiusa fra quattro tavole d’abete, più stretta che fra gli ordigni della fusoliera, sorge una potenza di creazione che supera ogni verbo? Nessun cantico di grazie, nessuna ode trionfale, nessuna musica solenne eguaglia in sublimità tanto silenzio.
«Di morte in morte, di mèta in mèta, di vittoria in vittoria».
Così comincia il suo inno senza lira, così principia il salmo di questo re. Dinanzi a questo re immortale, per rispondere alla sua umana e sovrumana speranza, noi vogliamo salutare, sia noto o sia ignoto, il giovine successore della sua regalità.
Gabriele D’Annunzio, 26 giugno 1918
Nel medesimo anno della scomparsa di Francesco Baracca, un ventenne Enzo Ferrari cammina nel vento d’un inverno inclemente, mai tanto freddo quanto il gelo nel suo cuore. Ancor non sa che una madre con altrettanto inconsolabile e lacerante sofferenza nel petto, da lì ad un quinquennio lo spronerà ad assumere a marchio automobilistico — in segno di buon auspicio — il cavallino rampante dell’adorato figlio pilota.
Era l’inverno 1918-1919, rigidissimo, lo ricordo con grande pena. Mi ritrovai per strada, i vestiti mi si gelavano addosso. Attraversando il Parco del Valentino, dopo aver spazzato la neve con la mano, mi lasciai cadere su una panchina. Ero solo, mio padre e mio fratello non c’erano più. Lo sconforto mi vinse e piansi.
Figlio Enzo Ferrari nacque a Modena il 20 febbraio 1898, dal carpigiano Alfredo (1859-1915) e la maranese Adalgisa Bisbini; fin da bambino si sentì a proprio agio nell’officina paterna di carpenteria meccanica, a differenza del fratello maggiore ‘Dino’ (1896-1916), più propenso allo studio.
Giornalista sportivo, tenore d’operetta o pilota automobilistico erano altre tre sogni che Enzo Ferrari avrebbe desiderato tentar d’avverare, viceversa ancora minorenne trovandosi mestamente obbligato a chiuderli in cassetto, per la prematura scomparsa di padre e fratello — a breve intervallo l’uno dall’altro — dunque adagiando ambizioni fra le pieghe di maniche avvolte nell’adoperarsi lavorativamente: nuovo impiego d’istruttore all’Officina Pompieri modenese s’interruppe però nel 1917 per chiamata alle armi nel 3° Reggimento d’artiglieria alpina del Regio Esercito, arruolamento che seria pleurite concluse definitivamente in pochi mesi, con sopraggiunto congedo.
Ristabilitosi nel nosocomio bolognese, Enzo Ferrari mirò a Torino, certo che le raccomandazioni scritte e consegnategli dal proprio Colonnello, gli avrebbero garantito — in riscontro positivo sperando anche la madre Adalgisa (1872-1965) — un’assunzione in FIAT, ma l’ingegnere Diego Soria, responsabile del personale, gli presentò inatteso e severo diniego, preferendogli il collaudatore Carlo Salamanno (1891-1969), vercellese che il 3 settembre 1922, avrebbe debuttato nell’Autodromo di Milano — oggi Circuito di Monza — classificandosi quarto alla guida d’una FIAT 502S.
Da quell’ufficio aziendale di via Dante, Enzo Ferrari uscì a spalle abbattute e testa greve, affossata da preoccupazioni e interrogativi, imbrigliati fra loro da un soffocante senso di delusione che gli spezzò respiro ma non gambe, da quella panchina pronte a rimettersi in marcia e incedere a pieni polmoni, con incaponita risolutezza.
D’azienda in azienda e da incarico ad incarico, nel 1920 Enzo Ferrari — rimasto nella città piemontese poiché fidanzatosi con la futura sposa Laura Dominica Garello (1900-1978) — si cimentò pilota con l’Alfa Romeo e fu con il modello RL che partecipò, vincendo, alla prima edizione del Circuito del Savio, tenutasi il 17 giugno 1923 a Ravenna, su tracciato di 44,6 chilometri, con partenza e arrivo in fronte alla Basilica di Sant’Apollinaire in Classe, dal 1996 patrimonio UNESCO.
Ad assistere a competizione Enrico Baracca, da Ferrari già conosciuto a Bologna e che in consecutivo incontro gli presenterà la consorte Paolina Biancoli, dalla qual proposta di dono — spirituale e concreto al contempo — del cavallino rampante appartenuto al compianto Francesco, sgorgherà dal nostalgico animo di mamma, peraltro Enzo mai immaginando che trentatré anni dopo, sarebbe stato trafitto da egual tormento, nella prematura perdita del primogenito Alfredo ‘Dino’ (1932-1956), affetto da distrofia di Duchenne.
Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna.
(lettera di Enzo Ferrari del 3 luglio 1985, nella quale racconta allo storico lughese Giovanni Manzoni, esortazione di Paolina Biancoli)
Passaggio del carlinga a scocca non fu istantaneo, il cavallino rampante restando custodito fino al 9 luglio 1932 ed esordendo sulle due Alfa Romeo 8C 2300 vincitrici della 24 Ore di Spa, poi apparendo sulle carrozzerie delle auto di Scuderia Ferrari, fondata un sessennio avanti a Maranello: mantenutane la tinta corvina, la grafica era stata lievemente modificata e la coda innalzata, mentre per il fondo Enzo volle un giallo deciso, in onore alla natale città di Modena, dove morì novantenne, nell’agosto 1988.
Per pura e singolare coincidenza, tra la nascita di Francesco Baracca e la morte di Ferrari è compreso un centennio, allegorico cerchio ad unione di due esistenze, costellate d’ispirate ambizioni, convertite a realtà.
Non si può descrivere la passione, la si può solo vivere.
Enzo Ferrari
Sincera riconoscenza al Museo Francesco Baracca, per l’estrema e cortese disponibilità
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