Eustacia Cutler, la storia e l’amore di una madre
Il mondo ha bisogno di tutti i tipi di mente.
Temple Grandin
In senso lato, ogni madre partorisce il proprio figlio. Sia esso naturale o frutto d’adozione, è nell’atto del donare Amore che il legame avviene al di là di qualsiasi legge fisica.
Considerando la sola parte delle madri che poi li andranno ad accudire (non discorrendo dunque di coloro le quali, senza volerne arrogantemente ed ingiustamente dare giudizio, si trovano ad abbandonare o privare della vita le proprie creature), credo esistano alcune madri per le quali i figli siano mera prosecuzione di sé, con sogni materni annessi e traslati, pertanto imposti a discapito delle reali inclinazioni, talune per le quali il semplice accudimento materiale, seppur scarsamente anaffettivo, sia da ritenersi sufficiente ed altre ancora il cui affetto, al contrario, risulti soffocante e terribilmente invadente, atteggiamento deleterio e limitante, in maniera equipollente all’imperturbabilità affettiva, sulla sfera psicologica di colui che ne riceve.
Esistono poi madri la cui attitudine amorosa donante rimane equilibrata all’interno della relazione, seppur infinitamente pulsante nell’indiscutibile e meraviglioso assunto che l’Amore di una madre nei confronti dei propri figli non abbia limiti. È all’interno della capacità d’ognuna d’Amare smisuratamente in rispetto al diritto di libertà della prole, che risiede la gemma preziosa di un’educazione materna che desideri intraprendere un percorso di crescita or parallelo, or intersecante, mai congruente. Un dedicarsi tempo ed impararsi a vicenda ove, seppur con un’irrinunciabile e ben definita distinzione di ruoli a necessaria garanzia d’un sano ed evolutivo rapporto di reciproca stima e riguardo, il crescere accanto sia un donarsi respiro, porsi la mano, sciogliersi in un abbraccio, giocarsi i difetti, scusarsi e smussarsi nell’inevitabile ferirsi, nei rispettivi sbagli, nelle ineludibili offese. Un tendersi nel costruirsi di giorno in giorno, altalenando capisaldi fra gratificazioni e doveri, da proporre sulla base d’insegnamenti la cui pietra miliare sia l’esempio nella concretezza dei vissuti e delle gestualità, a completamento di discorsi che, qualora restassero semplici parole, altro non diverrebbero che sterili sermoni improduttivi e privi di senso.
Credo sia responsabilità d’ogni donna (e di ogni uomo) che decida di posare sul mondo una vita, la delicata e premurosa tessitura d’un paio d’ali d’agganciare ai desideri del nascituro fin dal primo vagito, sulle quali ricamare periodicamente un sogno che a lui e solamente a lui appartenga, nella speranza che una fantasia ben nutrita possa divenire uno e mille obiettivi da raggiungere in naturalezza, non senza fatica, senza costrizioni ed in virtù dell’ambizione naturale propria ad ognuno. Emancipazione educativa che raggiunge il culmine di significato nella libertà di pensiero, assolutamente da non intendersi come rinuncia ed abbandono del confronto d’opinione, ma come mirabile dono e straordinario seme per l’armonia esistenziale futura.
Una crescita a filo delle proprie imperfezioni, nel saggio principio che giunga a maturazione nel concepire ed introiettare la perfezione come traguardo irraggiungibile in quanto inesistente e considerandone la spasmodica ricerca, sia essa concettuale od empirica, un pericoloso prefiggersi che lentamente condurrà al triste appassire d’ogni entusiasmo oltre che all’irragionevole perire d’ogni stimolo.
Siamo tutte mamme imperfette, ma è nella bellezza, nella molteplicità e nel moto vitale delle imperfezioni d’ognuna che, sta l’energico “magma” dal quale attingere in una continuità di crescita che sia costante evoluzione accanto ai propri figli.
Esistono poi madri la cui storia, i cui gesti, il cui semplice poterne sfiorare l’esistenza, stravolge la totalità delle emozioni ed insegna le leggi dell’Amore in un sol colpo, quel pugno allo stomaco che risveglia il senso primo della vita, dell’approcciarsi ad essa percorrendola al di là dei luoghi comuni, fuggendo le rassicuranti classificazioni mentali del pensiero unico e miscelando forza a dubbi, frustrazioni ad appagamenti, delusioni a compiacimenti. Il bivio fra ragione ed istinto materno che il piede d’una donna (che il pretendere di riuscire a descrivere in maniera esaustiva con il sol mezzo delle parole sarebbe irriverente saccenteria) ha percorso in straordinaria caparbietà, sconfinata dolcezza, passione uterina e mirabolante realismo.
Educare è somma di tentativi.
Niente è facile.
Nulla è immediatamente raggiungibile.
Ogni tentativo è apprezzabile opera nel suo moto verso l’amorevole condurre alla vita e nella vita i propri figlioli.
Anna Eustacia Purves è stata la giusta scelta di fronte al bivio, la somma d’ogni tentativo possibile e l’intreccio primo alla vita, nella vita della figlia.
Eccezionalmente caparbia, smisuratamente dolce, visceralmente passionale e lodevolmente realista.
Non è possibile essere una madre perfetta.
Ma ci sono milioni di modi per essere una buona madre.
Jill Churchill
Eustacia Cutler e Temple Grandin
Fu il mese che apre ufficialmente la primavera a donare vagito e respiro a John Coleman Purves e Mary Temple Bradley, il 6 Marzo 1896 lui, il 18 Marzo 1898 colei che sarebbe divenuta la sua gentil consorte. Dalla loro unione nacquero Anna Eustacia e Rose B. Purves.
Perspicacia ed intelligenza notevoli di John Coleman, esperto di tecnologia ed aviazione, contriburono alla coinvenzione, nel 1930, d’una bobina elettrica con possibilità di percezione della direzione attraverso il Nord magnetico terrestre.
L’essenza mentale ed esistenziale della moglie Mary, invece, era solita tendere verso sfumature tipicamente rivolte all’ambito sociale, differente approccio caratteriale e comportamentale alla vita che, nel corso degli anni, li rese consapevoli di non riuscire ad amarsi di quella complementarietà che il passo all’altare sembrerebbe garantire in durata e completezza.
La nascita di Anna Eustacia, il 12 Dicembre 1926, unì sul suo delicato capo il nome del nonno materno, Eustace Anstruther Bradley, a quello della nonna materna, Anna Chapman Leonard, intrecciando al contempo alle sue facoltà acuto intelletto mentale, pensiero fine e vocazione sociale indiscussa. Laureata ad Harvard con pieni voti, Anna Eustacia sarebbe divenuta presto tempo la figura materna il cui istinto sembra concretizzarsi nelle parole di Victor Hugo secondo il quale «la madre è sublime perché è tutta istinto. L’istinto materno è divinamente animale. La madre non è donna, ma femmina».
L’uomo che a lei si unì generando nuova vita, ebbe nome in Richard McCurdy Grandin (Dick), nato nel 1914 dopo la sorella Isabella (1908) e precedendo di quattro anni il fratello John Livingston (1918), omonimo di padre e nonno paterno, affarista di successo in ambito di commercializzazione dell’olio. Suo figlio, John Livingston Grandin, padre di Dick, diede vita alla triplice figliolanza grazie all’unione in matrimonio con Isabel McCurdy.
Sede d’incontro fra Dick ed Anna Eustacia fu il Boston Cotillion, ballo annuale di debuttanti tenutosi per la prima volta nella capitale del Massachusetts, nel Giugno del 1944, anno per l’appunto in cui i due, 19 anni lei, 30 lui, festeggiati la stessa sera dietro organizzazione della sorella Isabella, scoprirono di piacersi.
Galeotta fu una cena alla Casa Bianca alla quale furono invitati dall’amico di lui, Johnny Roosevelt, e durante la quale si sciolsero sentimento sulle note di Rhapsody in Blue, nota composizione del famoso pianista statunitense George Jacob Gershwin, al cui armonioso danzar di dita sul bianco nero d’ogni ottava, seguirono giornate di telefonate intense, fiori ed una successiva proposta di matrimonio che divenne realtà nel Marzo del 1946.
Poco prima del matrimonio ed a soli sei mesi dalla cena in candide mura, Dick, laureato ad Harvard, prese parte, nel Dicembre del 1944, alla Battle of the Bulge, meglio nota come Offensiva delle Ardenne, la battaglia più sanguinosa, della durata di tre settimane, che gli Stati Uniti si trovarono a fronteggiare in estrema difesa all’ultimo deciso contrattacco tedesco, durante il secondo conflitto mondiale. In poco meno di un mese, le vittime fra i soldati americani vennero conteggiate in 89.500, tra cui 19.000 morti, 47.500 feriti e 23.000 fra prigionieri e dispersi. La brevità d’un contrasto bellico paradossalmente fra i più efferati e disumani, la cui ferocia fu per Dick, giovane fino ad allora protagonista d’un vissuto privilegiato, impossibile da dimenticare.
A pochi mesi dal matrimonio, Dick ed Eustacia posero seme in una piccola nuova donna che, il 29 Agosto del 1947, concretizzò il suo esistere in due grandi occhi blu, adagiati su un viso paffutello dalla fossetta sul mento e contornati da una folta chioma castana, in tenera attaccatura al minuto cuoio capelluto sopra il quale si posarono il nome della nonna materna, unito al cognome del padre: Temple Grandin.

Alla comprensibile lentezza d’adattamento al ruolo di madre proprio d’ogni neomamma (madri non si nasce, lo si diventa gradualmente) e forse dovuto anche alla giovane età di Eustacia, dubbi atroci presero il posto di fisiologiche preoccupazioni quando la donna iniziò a notare che la piccola, oltre ad un’anaffettività devastante, era caratterizzata da uno stato indefinibile d’inerzia, privo di qualsivoglia emozione, talvolta interrotte da crisi di pianto e da gestualità che a lei apparvero immediatamente anomale. Il confronto con i bambini delle amiche fu inevitabilmente motivo di frustrazione per Anna, la quale, cresciuta in ambiente d’educazione estrema, intelligenza brillante, istruita, avvenente e facoltosa, si trovò forse per la prima volta a dover affrontare uno scoglio all’apparenza incomprensibile, pertanto insormontabile, il peso del quale fu alleggerito, nel Maggio del 1949, dalla nascita della secondogenita, bambina dalla crescita armoniosa e serena, toccasana dunque per il senso d’inadeguatezza fino ad allora da lei interiorizzato e cucito a cuore e pensieri.
Alla posa di piede della sorella sul mondo, parallelo stava il mondo di Temple, perennemente assorta in fissazioni, apparentemente disinteressata al tutto e sostanzialmente concentrata sui dettagli, or cristalli di lampadari nel luccichio dei quali svuotare lo sguardo, or sabbia che, scivolandole fra le dita, portava racchiusi nei suoi granelli i suoi pensieri più reconditi ed impenetrabili. Atteggiamento isolato e dolorosamente anaffettivo che, se da un lato gettò la madre nel sconforto, dall’altro fu la molla che la spinse a farla visitare, allorché a trenta mesi di vita il silenzio e l’assenza di sorrisi ed emozioni, caratterizzavano l’esistenza della piccola, atteggiamenti che non potevano essere giustificati neppure da un eventuale stato di sordità.
C’era qualcos’altro ed Eustacia lo percepiva.
In aggiunta alla sfibrante apprensione, la sconcertante aridità d’animo del marito si manifestò nella semplicistica considerazione della figlia come “deficiente”, insensibile valutazione di basso livello umano alla base dei primi dissidi fra i coniugi, terribilmente desolanti seppur per niente inibitori sulle pervicaci intenzioni materne di fugare ogni dubbio possibile sul sofferente stato mentale dell’adorata Temple.
L’Amore incondizionato
La prima visita della bimba venne effettuate dal Dott. Bronson Caruthers, a capo dell’allor Judge Baker Guidance Clinic di Boston, colui che Eustacia definiva affettuosamente «un vecchio yankee» e nel quale lei riponeva totale fiducia in quanto «gli yankees diffidano di Freud», rassicurazione la cui potenza consolatoria era in lei sottesa non tanto da un puro e prevenuto negazionismo freudiano, bensì dalle precedenti dichiarazioni televisive del dott. Bruno Bettelheim, “l’erede genuino di Freud”, il quale affermò «l’autismo essere una psicosi causata dalle madri frigide e non amorose dei bambini», oscena dichiarazione che avrebbe nutrito le sfregianti denigrazioni del marito nei suoi confronti, oltreché rafforzarne la già radicata idea d’istituzionalizzare la piccola. Irrazionale volontà che, dopo inevitabile ed avvilente disperazione, esortò Eustacia ad intraprendere il suo risoluto ed ammirevole percorso d’Amore in estrema solitudine.
«Dopo una notte di pianto così feroce, ho pensato di strangolarmi sulle mie stesse lacrime, ho giurato che mai più avrei pianto così forte, che le lacrime stavano soffocando il pensiero. Se Temple era psicotica, e io così impantanata nel peccato da non poter compiacere nessuno, avrei capito da sola cosa era meglio per Temple, nascondere le mie decisioni a suo padre e ascoltare solo quelli di cui mi fidavo. In cima c’era il dottor Caruthers…»
Fu dunque il fidato dottore a visitare Temple, prescrivendone, raggiunta la soglia dei tre anni d’età senza che avesse imparato a parlare e notandone indifferenza completa nei confronti dell’ambiente ospedaliero, una visita della durata di dieci giorni, comprensiva di tre ECG, per escludere un eventuale ritardo mentale, un danno cerebrale o una qualsiasi forma d’epilessia che, seppur non ancora dimostrato con empirica certezza, si pensava potesse avere base genetica comune con l’autismo. Temple Grandin superò tutti e tre gli ECG, importante risultato sia da un punto di vista salutare, in primis, che come deterrente nei confronti delle intenzioni d’istituzionalizzazione paterna; l’assenza di deficit cerebrali, apriva infatti la porta alla possibilità concreta d’un apprendimento futuro da parte dell’infante. In più, la concezione dell’autismo come disturbo bio-neurologico e non psico-sociale, sebbene conferma scientifica dell’ipotesi sarebbe emersa tre lustri più avanti, levava nei confronti della madre qualsiasi dubbio sulla corresponsabilità nei confronti della patologia.
Esclusa la sordità, alla Temple fu vivamente consigliata una terapia logopedica, precocità ed intensità d’intervento ne avrebbero garantito, a livello verbale e non solo, una maggior speranza di recupero. L’approccio alle parole trovò volto nella dottoressa Reynolds, con la quale la bambina interagì per un biennio, imparando movimenti labiali e posizioni linguali, seguita parallelamente da una tata con la qual destreggiarsi in mirati giochi di ruolo. Alla soglia dei cinque anni, seppur con inevitabile reticenza fisica di sfumatura autistica, la piccola guerriera, con terapie di 20 ore settimanali, imparò l’arte della comunicazione verbale e fu pronta, dopo aver frequentato l’asilo alla Dedham Country Day School, ad ambiente professionalmente inclusivo, per l’ingresso in una “normale” scuola materna, la Walter Country Day School, tipica scuola anni ‘50 nella quale Eustacia entrò con passo sicuro, spiegando agli insegnanti la delicata situazione di Temple Grandin, senza per questo limarne le capacità, al contrario, riportando loro il concetto che per tutta la vita avrebbe ripetuto all’amata figlia, ovvero l’essere «diversa, ma non inferiore», adducendo pertanto motivazioni ancorate ad encomiabili anni precedenti di sforzi e risolutezza al limite dell’incredibile. Dal settimo al nono anno, concluse una prima fase d’istruzione elementare fra le mura della Beaver Country Day School.
Nel frattempo, lo stupore di Bettelheim raggiunse livelli paragonabili alla sua incompetenza professionale a riguardo, anni dopo, infatti, le sue teorie sulle cause relazionali dell’autismo sono state confutate ed il suo curriculum personale risultato falsificato, smentendo titoli e vanti personali, fra i quali una stretta collaborazione con lo stesso Freud, a quanto pare mai avvenuta e l’esperienza sul campo in ambito di patologia autistica, mai vissuta. In ultimo, non per importanza, la sua nobile teoria sull’inutilità e la nocività delle punizioni corporali, sembrerebbe stata tradita nella pratica, in quanto, dopo la sua morte per suicidio alla veneranda età di 86 anni, a causa di una scarsa sopportazione delle sofferenze imposte dalla vecchiaia, emerse che nel suo Istituto di Chicago, l’ordine fosse mantenuto a suon di sevizie fisiche e mentali, fino alle barbariche molestie sessuali. Nonostante ciò, la notevole influenza e caratura del Bettelheim di quegli anni, se avesse accettato di testimoniare (come fortunatamente decise di non fare) a favore del marito nel sostenerne la pazzia di Eustacia e la sua correlazione con la patologia della figlia, avrebbe probabilmente portato all’internamento di entrambe; a tal proposito, l’incontro con dottor Bronson Caruthers fu fondamentale nell’invertire la rotta nella vita di Temple e della madre.
Negli anni a venire, Temple quindicenne, due sorelle ed un fratello a seguito, ne conseguì inevitabile e sacrosanto divorzio; fortemente desiato, mentalmente rigenerante, sensorialmente affrancatore ed emotivamente liberatorio.
Tre anni dopo, nel 1965, Eustacia si unirà in felicità matrimoniale a Ben Cutler, rinomato sassofonista newyorkese.
MeravigliosaMente, Temple Grandin
Al di là della didattica e dello sviluppo della capacità verbale, gli insegnamenti impartiti a Temple dalla madre si fondarono da subito su regole ben precise, inculcandole una buona educazione, una gentilezza di rapporto interpersonale, seppur ovviamente comprensibile della difficoltà nell’esporsi, tipica del tratto autistico, e l’importanza della stretta di mano, che, interiorizzato il riguardoso gesto negli anni, Temple Grandin non mancherà mai di porre.
L’approccio materno nell’apprendimento della lettura fu considerevole e mirabilmente produttivo; Eustacia Cutler lo raggiunse attraverso la costante lettura, trenta minuti quotidiani per cinque giorni ogni sette. Della fiaba de Il meraviglioso mago di Oz, alla quale Temple s’appassionò a tal punto, da raggiungere traguardi più distanti rispetto a quelli prefissati, superando degnamente i test scolastici e rafforzando contemporaneamente il rapporto affettivo con la madre, perno centrale del suo intero tragitto esistenziale, come ella stessa affermerà in futuro, dedicandole il suo terzo libro: Pensare in immagini, e altre testimonianze della mia vita di autistica.
Dedico questo libro a mia madre. Senza il suo amore, la sua dedizione, la sua perspicacia, io non avrei potuto riuscire.
È però nel percorso di studi adolescenziale svoltosi alla Mountain Country School, istituto scolastico privato per ragazzi con problemi comportamentali, a Rindge, nel New Hampshire, che Temple conoscerà William Carlock, ex lavoratore della NASA ed insegnante di scienze, colui che ne diverrà cardine motivazionale e riferimento costante per tutta la vita. Diplomatasi nel 1966, conseguirà laurea in psicologia umana, nel 1970, al Franklin Pierce Collage, concluderà un master in zoologia presso l’Arizona State University nel 1975 ed un dottorato nello stesso ambito all’Universotà dell’Illinois, l’Urbana-Champaign, nel 1989.
Fu in William Carlock che Temple Grandin si vide per la prima volta riguardosamente riconosciuto e compreso il suo pensiero visivo, ossia la peculiare capacità d’apprendimento fondata sulle immagini in sostituzione a concetti o parole, motivo primo per cui nelle materie astratte incontrò numerose difficoltà. L’esorbitante abilità nell’assimilare dettagli reali fotografandoli a livello cerebrale, fu il perno dal quale Carlock partì per svilupparne le attitudini, mentali e pratiche, all’ennesima potenza. La brillante intuizione di William, da un lato permise a Temple d’instaurare un rapporto di fiducia basato sulle differenti modalità che le patologia di spettro autistico pone come mezzo di comunicazione, dall’altro, di potenziare ingegnosità pratiche nettamente superiori alle menti comuni.
Il pensiero visivo mi ha permesso di costruire interi sistemi nella mia immaginazione […] La mia immaginazione funziona come i programmi grafici dei computer […] quando faccio una simulazione dell’uso di un’attrezzatura o lavoro su un problema di progettazione, è come se li vedessi su una videocassetta nella mia mente. Posso osservare da ogni punto di vista, ponendomi sopra o sotto l’attrezzatura e facendola contemporaneamente ruotare. Non ho bisogno di un sofisticato programma di grafica che produca simulazioni tridimensionali del progetto. Posso fare tutto questo meglio e molto più rapidamente nella mia testa.
Prima rilevante realizzazione concreta per eccellenza fu la Hug Box o Squeeze Machine, una struttura avvolgente, tecnicamente sostitutiva dell’abbraccio materno (che l’eccessiva percezione tattile tipica della persona autistica rende impossibile tollerare) che la ragazza progettò e costruì durante l’estate del suo diciottesimo anno. In vacanza dalla zia Ann Cutler, figura di primaria importanza nel suo percorso formativo ed esistenziale, Temple Grandin notò infatti che le mucche del ranch in fase d’agitazione, se poste all’interno d’una gabbia pressante sui lati del corpo, non appena “compresse” ritrovavano velocemente la calma.
Testato personalmente, la geniale adolescente ne costruì uno personalizzato nella propria stanza collegiale, sennonché il preside Franklin Pierce Collage, ritenendola erroneamente strumento d’appagamento erotico, sulla base di ottuso vociferar di corridoio, gliela fece distruggere. La Grandin, decisa più che mai a ricostruirsela, sfogò rabbia e frustrazione confidandosi con Carlock, il quale le suggerì di ricostruirne una seconda, proponendo al preside di tenerla previo progetto che dimostrasse le reali proprietà calmanti del marchingegno. La maggior parte degli studenti testati, confermarono l’ipotesi e la macchina degli abbracci ritornò nella stanza di Temple.
Ad oggi, la Hug Box è diffusa in tutto il mondo. La possibilità di regolarne intensità e pressione, permette alla persona autistica d’utilizzarla in piena autonomia e di godere degli effetti benefici e calmanti dell’abbraccio, sostituendolo a quello reale che la percezione tattile smisuratamente amplificata non permette di reggere nella fisicità.
Io indietreggiavo quando le persone cercavano di abbracciarmi, perché il contatto provocava l’irrompere penoso di un maremoto di stimolazioni attraverso il mio corpo. Avrei voluto vivere l’esperienza riconfortante dell’abbraccio, ma, appena qualcuno mi prendeva fra le braccia, l’effetto sul mio sistema nervoso era opprimente. Era una situazione paradossale di approccio/evitamento, ma a farmi rifiutare l’abbraccio era la sovrastimolazione sensoriale e non la collera o la paura.
Il contatto instaurato quell’estate con la psicologia animale, fu trampolino di lancio nelle idee di protezione che sarebbero state alla base delle progettazioni indolori degli impianti di macellazione.
Durante le visite scolastiche guidate ai macelli durante la frequentazione della facoltà di zoologia, Temple Grandin fu infatti particolarmente colpita dall’irrequietezza del bestiame durante il percorso al macello. Essendo che tale inquietudine non potesse essere causata dal fatto che le mucche sapessero dov’erano dirette, in quanto ovviamente inconsapevoli della destinazione da raggiungere, esplose nella Grandin la visceral brama di giungere a comprendere quale fosse il motivo reale che agitava il bestiame. La sua ipotesi finale, frutto d’innumerevoli e puntigliose valutazioni sul campo, si svolse su due fronti. Da un lato, percorrendo ella stessa carponi il percorso, l’innata capacità di cogliere dettagli ed immedesimarsi nella psicologia animale, le permise di annotare tutti gli oggetti disturbanti sparsi durante il tragitto (catene, abiti dei fattori, dislivelli del terreno, giochi di luce ed ombra, etc.), dall’altro, la costante ed assidua osservazione dei vissuti comportamentali bovini, le permise di progettare un differente percorso su valutazioni ben precise.
In particolar modo notò che le mucche, quando in gruppo nel recinto ed ancora al di fuori del percorso, giravano in circolo, una vicina all’altra, senza muggire. Essendo che la mucca è un animale preda, l’assunto da cui partì Temple Grandin fu che se le mucche per avvisarsi di un pericolo muggiscono, quando non lo fanno significa che sono in stato di serenità. Progettando quindi un percorso di conduzione al macello con numerose curve, la mucca avrebbe provato la stessa sensazione di tranquillità, credendo di girare in cerchio e di ritornare al punto di partenza, mantenendo di conseguenza lo stato di calma. Il laterale transito del fattore in senso contrario, avrebbe rafforzato l’erronea convinzione spazio temporale delle stesse.
Dopo aver affrontato con audace stoicismo ed innumerevoli volte, la screditante derisione d’ovvio stampo maschilista da parte degli uomini addetti al bestiame, la costruzione del primo percorso secondo le sue indicazioni ottenne l’effetto desiderato.
Attualmente, più della metà degli impianti di macellazione degli Stati Uniti, sono stati costruiti sulla base dei suoi progetti ed esportati in più parti del mondo.

Lo sguardo inorridito di Temple Grandin mentre osservava le mucche procedere verso il macello, non era causato da sentimenti etici o di dispiacere per l’imminenza della morte, ma dalla consapevolezza empirica che esisteva la possibilità oggettiva di condurre il bestiame a fine vita in stato di pace. Un progetto che menti comuni non sarebbero probabilmente riuscite neppure a concepire, tantomeno ad ideare.
Dobbiamo dare a quegli animali una vita decente, e dobbiamo dar loro una morte indolore.
Abbiamo il dovere del rispetto nei confronti degli animali.
Temple Grandin, professoressa di scienze affiliata alla Colorado State University, porta in giro in tutto il mondo il suo pensiero per il rispetto degli animali e, parallelamente alla madre, tiene conferenze mondiali sull’autismo, contribuendo in maniera significativa, vivendone la condizione, ad una maggior conoscenza del disturbo (scoperto per la prima volta nel 1938) e dimostrando concretamente con la sua storia che “cervelli diversamente abili” sono da considerarsi preziose ed insostituibili possibilità d’interazione ed apprendimento.
Eustacia Cutler: La donna. La madre. La femmina.
Colei che dal senso di colpa ha saputo filare sovrumana determinazione, uscendo dall’ombra della facile rassegnazione ed aggrappandosi con le unghie al sogno possibile, quello di resuscitare a vita una figlia apparentemente inerme, eruttandone il vulcano interiore ed invocandone la tempesta a disturbo della quiete.
Lei, donna d’equilibrio sopraffino e d’Amore smisurato, sentimento che ha saputo amabilmente tenere a bada nella fisicità, domandone il naturale impulso, bramando un’evoluzione, un barlume, un’emozione, ineguagliabile compromesso in carne ed ossa fra le necessità interne e le richieste esterne da porre con delicatezza nell’animo d’una creatura speciale, da dissetare goccia su goccia, nel farne un mare, avvolgendone le burrasche pur senza la possibilità d’un abbraccio vero, caldo, tenero.
Eustacia Purves. La figlia studiosa, avvenente sposa sul filo d’una conoscenza di coppia troppo superflua e madida di sgradevoli sorprese.
Eustacia Grandin. La moglie non troppo devota. Libera, idealmente sana, fottutamente vera e spasmodicamente integra nell’amor proprio a tal punto, da nuotare e gareggiare da vincitrice nelle sue stesse lacrime, a giro di boa sulla perdita della stima che nutre il distacco. Lei, che non è il matrimonio a render l’anime gemelle. Lei, che meglio il vuoto di un’assenza alla grettezza d’una presenza.
Eustacia Cutler. La passione. Il pulpito. La condivisione. La scelta. La rinascita.
Semplicemente Eustacia. Splendida e solare nelle sue nove decadi che non le hanno smarrito il sorriso, abbandonandone l’eccesso agli stolti. Lei, che le rughe in viso ne han dolcemente ricamato l’ardimento a fil di pelle e conservato un’amorevolezza di sguardo che strugge le meningi. Lei, che la normalità è un meraviglioso insieme di patologie e fisiologie. Lei, che chissà quanti vaffanculo avrebbe voluto gridare a se stessa ed al mondo intero nei momenti più scorticanti; lei, che è si è veracemente reinventata, in quei vaffanculo, dignitosamente e saggiamente plasmata a bisogni di prole degnamente ascoltati, accuditi, sorretti, spronati, dissetati e nutriti.
Colei con la quale si converserebbe interminabilmente, stringendole una mano e premendola a lungo in segno di riconoscenza, perché è immensamente bello ed illimitatamente appagante, sapere di donne così, donne emancipate, sanguigne, d’animo impavido e radicate al terreno, con occhi alle nuvole.
Coloro che tentar di denigrare è ardua impresa.
Quelle che i figli si amano come sanno essere. Quelle che i successi non hanno valore se avulsi da gentilezza. Quelle che un buon genitore, un buon amico ed un buon insegnante, fanno un mondo.
Coloro le quali ben comprendono che il pensiero unico, se incasellante a discapito delle peculiarità d’ognuno, anche in ambito di fisiologia, tarpa le ali.
Ma a loro spetta il volo. Per aver raggiunto l’utopia.
Con differenza, senza inferiorità.
I am different, not less.
Temple Grandin
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