Dino Campana, storia e poesie del cantor del mal d’anima e di libertà
Dino Campana: il poeta errante, visionario, il «povero troviero», intenso, dirompente, immaginativo cantor d’Amore, Libertà e del mal d’Anima.
Mi chiamano poeta maledetto, maledetti loro che mi credono malato, ma io non sono malato, sono semplicemente io. Vivo di me. Vivo per me.
Dino Campana
Storia di Carlo Giuseppe ‘Dino’ Campana cominciò il 20 agosto 1885, in Via Pescetti n° 20 di Marradi — cittadina ubicata a Sud-Ovest di Faenza, ove anticamente s’ergeva Castello, sollievo e conforto dei viandanti nella Toscana romagnola della valle del Lamone — dall’unione di Francesca ‘Fanny’ Luti (1857-1925), donna risoluta di comeanesi origini, e del maestro elementare, poi direttore didattico, Giovanni Campana (1854-1926), maestro elementare e direttore didattico: nel babbo — uomo affabile, mite ed altrettanto rigoroso, consacrato all’insegnamento e fervido patriota — scoprì accogliente benevolenza, viceversa, sin dalla tenera età, problematico e da attriti segnato sarebbe stato rapporto con la madre: allorché nel 1965 la novantenne Giovanna ‘Gina’ Diletti, zia del poeta, scrisse i di lui ricordi — anche basati su affermazioni della levatrice Marianna Bianchi e perché erede ne fosse il figlio Raffaele — memoria tratteggiò infante ingegnoso ed inquieto, «uno scarabocchione disordinato» e dalla madre posto «in seconda, o per meglio dire in terza linea» dopo la nascita del secondogenito Manlio, ‘Ninni’, avvenuta nel 1888.
Sfocamento d’attenzion ed affetto – qualora reale probabilmente accentuato da fanciullesca percezione — in Campana si rivelò lacerante conflitto d’amor e odio, angariandone animo fin ad istigarne aggressività, manifesta allo schiudersi d’adolescenza, quando, all’alba del Novecento, terminata con profitto formazione al Convitto Salesiano della vicina Faenza, ne frequentava oramai l’antico Liceo Ginnasio Evangelista Torricelli, opposti risultati ottenendo: dalla precedente media del 7, peraltro guadagnata incassando 9 in francese, 8 in italiano orale e storia, rendimento, inversamente all’incrementarsi delle assenze, subì improvvisa e sensibile flessione, in esiguo novero di discipline sufficienza registrando ed inevitabilmente, in bocciatura incorse; esortata da suggerimento di conoscenti, risposta dei genitori risolse delegandone formazione al Regio Liceo Ginnasio Guglielmo Baldessano di Carmagnola, in provincia di Torino, e malgrado difficoltà, decision convalidò pervenimento di diploma a luglio 1903.
All’apatia verso le attività scolastiche, corrispondeva febbrile interesse su Maestri della Letteratura: Giosuè Carducci, Gabriele D’Annunzio, Edgar Allan Poe, Giovanni Pascoli, oltreché non meno ardente attenzion per la musica classica, trasporto in particolar provando all’incanto delle note di Ludwig van Beethoven, Wolfgang Amadeus Mozart, Gioachino Rossini, Robert Schumann e Giuseppe Verdi.
In volontà di compiacer famiglia ed in particolar l’amato e rispettato zio paterno Torquato, vocazioni però trascurò, al tramontar d’autunno iscrivendosi all’Università di Bologna, dapprima addentrandosi nelle formule della Chimica Pura, dopodiché, nel 1905 — con breve parentesi all’ateneo di Firenze — misurandosi con la Chimica Farmaceutica; quantunque d’opportunità profittando per obbedir al più imo e puro sentir, intrudendosi nell’aule di Letteratura.
[…] studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnarmi da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente […] non studiai più nulla perché non mi andava; mi misi a studiare il piano. Quando avevo denaro spendevo tutto quello che avevo. Un po’ scrivevo, un po’ sonavo il piano. Così finii per squilibrarmi completamente.
(Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana, 1938)
Nel frattempo, a dicembre 1903, precedendo d’un biennio chiamata alle armi, Campana avanzò richiesta d’ammissione alla Scuola per Allievi Ufficiali di Complemento di stanza a Ravenna, entrando, il 4 gennaio 1904, nel 40° Reggimento fanteria — distaccamento del plotone che traversati numerosi trasferimenti, in Bologna incontrò sede e da emilian-romagnolo capoluogo ereditando denominazione.
Esperienza presto si spense, giacché piuttosto di compimento trovar al termine dei previsti 3 anni, si concluse il 4 agosto, Dino Campana — decorato in aprile dei galloni di Caporale — non conseguendo da esame la qualifica di Sergente fu «prosciolto dal servizio» ed inviato a Marradi con comando d’ivi ottemperar «l’obbligo di concorrere alla leva della sua classe 1885», ricevendo peraltro «dichiarazione di buona condotta».
Il 14 novembre 1905, la cartolina di precetto arrivò puntuale, ma dieci giorni dopo la ricezione della stessa — ultima data utile — comparendo alla Caserma del Carmine di Firenze, dov’era in suddetto fugace passaggio all’ateneo, Campana d’avvalersi decise di percorso universitario, per rinviar doveri di leva; inconsapevole del domani riservandogli dichiarazion d’inabilità permanentemente al servizio, recapitatagli circa dodici mesi più tardi ed a cagion d’internamento in manicomio «in via provvisoria».
Al di là delle ipotizzabili motivazioni alla base della decision di Campana d’anticipar eventual ingresso nella milizia del Regno d’Italia — d’egli peraltro la storia rappresentando indubbio grido di libertà e di patimento contro la violenza delle istituzioni — frangente reca considerevole significato, evidentemente contrapponendo l’instabilità mentale attribuitagli e l’appunto accettazion di domanda da parte della Scuola Ufficiali di Complemento, ponderando visite, superamento delle prove attitudinali, il periodo quindi trascorso in caserma, la promozione ed il rinvio all’ordinario reclutamento.
Dino Campana: l’uomo, il poeta
Tornato a Bologna nella primavera del 1906, catturar si lasciò dal respiro della fuga e, intenzionato a donarsi ad inediti orizzonti, malgrado penuria di denaro, saltò su un treno diretto a Milano e tra i vagoni furtivamente muovendosi a scansar controlli, destinazion raggiunse e su sferragliante convoglio, magheggi replicando, dal capoluogo lombardo partì alla volta di Domodossola, fissando ultimo meta — e presumibilmente prefiggendosi contar sulle proprie gambe soltanto — in Svizzera.
Nord Europa s’era prefissato e sebben braccato dell’autorità italiane e dall’allertate elvetiche, ad esclusion d’avvistamento all’epilogar di giugno nelle zone di Locarno, Campana s’eclissò e nel nulla rimase fintantoché, al compier ritorno a Marradi da Parigi – comunicò al Sindaco la Questura di Firenze — nei pressi del comune torinese Bardonecchia, venne fermato e tratto in arresto: laddove peregrinazion si sarebbe rivelata ispirazion a de’ Canti Orfici introduttivo componimento, La Notte, siffatta conclusion d’errar avrebbe avuto devastanti risvolti.
Il 4 settembre 1906, in voler dei genitori, Dino Campana subì internamento nel manicomio di Imola e ad accompagnarne ingresso, dubitativa diagnosi «dementia praecox?» resa nella «modula informativa per l’ammissione dei mentecatti», la qual — ulterior attestato d’approssimativa conoscenza della psichiatria, dunque della derivante “precarietà” di valutazioni, terminologia e trattamenti — osservazioni «fisiche e morali» riferiva, descrivendolo «Dedito al caffè del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo. Epoca e modo di sviluppo della pazzia, se intermittente o continua. Cominciata circa ai quindici anni alternata da periodi di eccitabilità e misantropia quasi continua ed in forma non grave tanto da permettergli il proseguimento degli studi. Manifestazioni sintomatiche attuali tanto fisiche che psichiche della pazzia. Esaltazione psichica. Impulsività e vita errabonda. Cura pratica. Nessuna cura praticata. Dichiarazione delle ragioni per le quali il medico sottoscritto ritiene necessaria la custodia e cura del mentecatto in Manicomio. Per toglierlo dai pericoli del suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporre a gravi pericoli e per le cure necessarie in Manicomio». (Caroline Mezey, The Travels of Dino Campana: Some Unpublished Documents, 1985)
Confessando ansie e rilevante trascorso rimembrando, in missiva datata 13 settembre 1906, Giovanni Campana, velata comprensione e speranze consegnò al Professor Raffaele Brugia, ipotizzando anche, esordi e circostanze del malesser del figliolo: «Anni sono, una domenica mattina, si presentò a Lei un uomo vicino alla cinquantina, panciuto, non molto alto, accusando disturbi nevrastenici. Ella subito non poté visitarlo perché doveva partire col treno e gli disse di attendere fino a sera. Infatti Ella la sera tornò, lo visitò e gli fece due ricette, una delle quali io unisco alla presente per riconoscimento. Ebbene quell’uomo è il sottoscritto, è il babbo di quel povero giovane di Marradi, ricoverato testé in codesto manicomio. Guardi di guarire mio figlio com’Ella guarì me, ricorrendo magari alla suggestione, se non gioverà la scienza. Egli ha la psiche esaltata, avvelenata, pervertita, non sente affetti e prende presto a noia luoghi e persone. Nel 1900 incominciò a dar prova di impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente colla mamma, lo feci visitare al professor Alberigo Testi di Faenza, il quale ordinò una cura di ioduro di sodio e mi consigliò di pazientare nella speranza che il giovane, dopo i vent’anni, si rimettesse. Nella primavera lo vide il professor Vitali di Bologna, il giudizio del quale Ella leggerà nell’acclusa lettera. Questo mio figlio fisicamente non è mai stato malato, fino a quindici anni è sempre stato di carattere un po’ chiuso, ma sempre buono e obbediente e giudizioso nelle cose sue, sebbene alquanto disordinato». (Dino Campana, Lettere di un povero diavolo: Carteggio, 2011, a cura di Gabriel Cacho Millet)
L’uomo, il padre, crisi emotiva e depression psico-fisica da esaurimento aveva sicché patito e da interior angosce egualmente vessato, il fratello Mario, a laceramento arrendendosi, compiendo gesto estremo all’età di 31 anni e durante ricovero nel manicomio fiorentino di San Salvi: contrariamente al parer della moglie Francesca, Giovanni Campana, affinché il figliol fosse presto dimesso, parole e manifesto vano insister, surrogò apponendo firma su atto mediante cui d’egli libertà, ogni responsabilità giuridica s’assumeva, al contempo sollevando da qualsivoglia implicazion il Professor Brugia, giudicante prematura interruzion di ricovero.
Dino Campana, abbandonò struttura il 31 ottobre e senza esitar, si concesse a lungo girovagar obbedendo a di libertà, conoscenza e incontro col mondo, inesauribile sete: nel 1907, i genitori, verosimilmente in coscienza di non poterne placar tumultar d’animo ed intentando medietà, concordi gli procuraron passaporto e biglietto d’andata Genova-Buenos Aires, meta individuando in virtù di parenti in capital argentina residenti ed in essi riponendo fede di protettiva custodia: aspettative però tradì del poeta l’insita e travolgente ebrezza del volo, Campana difatti non più d’un espero attese per perdersi in panorami sudamericani.
Suonavo il piano, nei caffè dell’Argentina, quando non avevo denaro; suonavo nei ritrovi, nei bordelli.
Viaggio a Montevideo
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzi!
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco:
selvaggia a la fine di
[un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune.
Buenos Aires
Il bastimento avanza lentamente
Nel grigio del mattino tra la nebbia
Sull’acqua gialla d’un mare fluviale
Appare la città grigia e velata.
Si entra in un porto strano. Gli emigranti
Impazzano e inferocian accalcandosi
Nell’aspra ebbrezza d’imminente lotta.
Da un gruppo d’italiani ch’è vestito
In un modo ridicolo alla moda
Bonearense si gettano arance
Ai paesani stralunati e urlanti.
Un ragazzo dal porto leggerissimo
Prole di libertà, pronto allo slancio
Li guarda colle mani nella fascia
Variopinta ed accenna ad un saluto.
Ma ringhiano feroci gli italiani.
(Dino Campana, Canti Orfici e altri scritti, 1952)
A Marradi Dino Campana riapparve nell’aprile del 1909 e neppur il tempo d’adagiare sguardo sul natio suolo, fu arrestato dai Carabinieri, poiché — da rapporto — «dava […] segni di pazzia furiosa tanto che senza alcun motivo percuoteva e minacciava chiunque lo avvicinava» e pertanto venne spedito al summenzionato ospedale psichiatrico di San Salvi, ove rimase finché, a circa due settimane dal fermo, il direttore della struttura, tal professor Rossi, dandone avviso al procuratore del Re, indicando in missiva il «controscritto» — testimonianza dello psicopatologo e scrittore, Carlo Pariani — non avente «titolo sufficiente per essere associato al Manicomio», ne dispose rilascio e nel 1910, Campana, cammin ripigliò pensier volgendo all’atmosfere culturali nordeuropee, pur sapendo avventura rischiar brusca interruzione; la qual puntualmente si concretizzò: intercettato in Belgio, fu condotto all’Asile Saint di Tournai — clinica rinominata nel ’21, Asile d’Aliènés e poi Hôpital Psychiatrique Les Marronniers — ov’a ragion d’internamento, diagnosi di «degenerazione mentale, carattere squilibrato, tendenza alla pigrizia, all’alcol e al caffè».
Il Russo
Tombé dans l’enfer
Grouillant d’ëtres humains
O Russe tu m’apparus
Soudain, céléstial
Parmi de la clameur
Du grouillement brutal
d’une lâche humanité
Se pourrissante d’elle même.
Se vis ta barbe blonde
Fulgurante au coin
Ton âme je vis aussi
Par le gouffre ré jetée
Ton âme dans l’étreinte
L’étreinte désespérée
Des Chimères fulgurantes
Dans le miasme humain.
Voilà que tu ecc. ecc.
In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri umani ero rigettato come da onde ostili. Camminavano velocemente come pazzi, ciascuno assorto in ciò che formava l’unico senso della sua vita: la sua colpa. Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente.
(Dino Campana, Canti Orfici)
Del Vecchio Continente, Dino Campana violò barriere territoriali e culturali, vagando in trasporto d’anima e sostenendosi svolgendo qualsivoglia lavoro gli venisse offerto, indifferente al costante incomber di fermo in onor di taglia dall’esistenza postagli quando battezzato l’aveva, ‘el mat Campena’ — imperituro stigma dell’esser a prescindere, del leale confronto col sé e di sé esternazione, ascoltando, interrogando, contrastando e accettando, la dolce e aspra intima melodia variegata d’armonie e dissonanze — in Campana ancestral desio conoscer del tutto le sfumature, delle genti gli usi, gli accenti e della mente i reconditi, invero lasciando all’ali dibattersi e librar, persin poetando in tradimento a tradizion letteraria, conquistando l’arcaica quietudine di latino e greco, le melodie di francese, inglese, tedesco, spagnolo e spoglio di preconcetti, piuttosto in ossequio alla saviezza del dubbio, esplorando il pensiero inabissandosi in testi di psicoanalisi; quando non oltrefrontiera, Campana perdendosi e cercandosi nell’appenniniche foreste incastonate nel lambirsi di Toscana ed Emilia Romagna, inchiostro incaricando suggellar ricordo di tal istanti e all’unison saggio, tra i più suggestivi dal vate lasciati, evocante in particolar, il pellegrinar su vette, dell’etrusca città di Arezzo baluardi: Monte Falterona — cuna dell’Arno — la prodigiosa meraviglia dei Sacri Boschi, la sommità dove il ‘novello pazzo’ Francesco d’Assisi, sconfisse il demonio e ad estasi ascese: La Verna, dal Santo prediletta per tender ad elevazion meditativa e dal poeta raggiunta in volizion di toccar la verità di colui il qual — spogliandosi di qualsivoglia bene material e definendosi Giullare di Dio — cogliendo di Natura immensità, aveva composto il Cantico delle Creature.
La Verna
(diario)
Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta del cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvaggie dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.
[…]
Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo: Stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole. . .finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue pro- filate catene notturne.
[…]
Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede.
Dino Campana: Canti Orfici
Nel 1913, Dino Campana si recò alla redazione della neonata testata fiorentina, Lacerba — eco del poema di Cecco d’Ascoli — ideata e diretta dal pittore, poeta e scrittore, Ardengo Soffici e da Giovanni Papini — il fra’ Bonaventura del Terzo Ordine regolare francescano laico della Diocesi di Arezzo, cantore, saggista e fervido fautor del pragmatismo, futurismo e post-decadentismo, all’epoca già cofondator — con Giuseppe Prezzolini — delle riviste La Voce e Leonardo — lor porgendo manoscritto dal titolo, Il più lungo giorno, serbando fede sull’ascendente di tal personalità sull’ambiente culturale e precipuamente, speranza d’apprezzamento e pubblicazione.
A distanza di settimane senza riscontro alcuno, alla sede del quindicinal lettarario Dino Campana piombò con la sol determinazione di rientrar in possesso del fascicolo, sennonché domanda di restituzione, drammaticamente s’infranse contro l’inimmaginabile: l’autografa opera era sparita.
In realtà, a detener libro in obliato recondito, dimora in cui un dimentico Ardengo Soffici aveva appunto traslocato e non prima del 1971, ad un quadriennio dalla d’egli scomparsa, la consorte, Maria Sdrigotti, riordinandone i documenti, l’avrebbe scovato e di rinvenimento, autore d’annuncio dalle pagine del Corriere della Sera, sarebbe invece stato il poeta orbitante il circolo milanese della rivista, Vita Giovanile di Ernesto Treccani, Mario Luzi.
Dino Campana s’era separato dall’originale ed unico testo redatto, pertanto non appena realizzò averlo inesorabilmente smarrito, d’afflizione, senso di colpa ed infrenabile ira — inevitabilmente esplosa contro Papini e Soffici — fu colto; nondimanco, al calar d’inverno ed unicamente attingendo da bozze e ricordi, inarrendevole ricominciò stesura e senza sosta scrivendo, financo di notte, concepì summenzionato capolavoro, Canti Orfici, onirico prosimetro in titolo evocante il mito, al centro d’atavico culto misterico, ricordato da Ovidio nelle Metamorfosi, nelle Georgiche da Virgilio e diffuso nella cultura otto-novecentesca, d’Orfeo, custode degli imperituri valor dell’arte, musico e vate autor di libri iniziatici, in grado di piegar Regni di Natura al suon di lira e di percorrer i tenebri sentieri della morte; cantor sospeso tra inferi e umano universo, come Campana stesso, tra oscurità e luminoso albore.
Nessuno mi vuole stampare, mentre io necessito di essere stampato, per provarmi che esisto.
Dino Campana
Nell’estate 1914, anticipando caparra di 110 lire, il poeta dette abbrivo a stampa di Canti Orfici e a settembre, nel mentre su iniziativa di Soffici — mosso dal rammarico per l’incidente — Lacerba ne ospitava alcune poesie, opera erompeva nelle librerie e Campana in persona dandone copie nei più prestigiosi caffè letterari della Firenze del tempo: Giubbe Rosse e Paszkowski; dipoi replicando a Bologna, recapitandone al San Pietro, ritrovo degli intellettuali felsinei.
Canti Orfici compì ingresso nei cataloghi ed in crescente diffusione, estratti presero ad apparir su riviste a tiratura nazionale, permettendo frattanto a Campana di stringer relazioni con scrittori e critici — alcun dei quali, Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Giovanni Boine — intanto continuando a divulgarne copie spostandosi lungo la Penisola: Liguria, Piemonte, Sardegna, Toscana — dove di Livorno fu costretto a visitar Questura, dacché all’infiammar della Grande Guerra, agenti della Polizia, fraintendendone frasi all’udirlo dialogar e dall’aspetto traditi dall’aspetto — il poeta esibendo capelli biondo-ramato ed occhi chiari — supposero aver di fronte teutonico informatore e solamente dopo ore di serrato interrogatorio convincendosi d’errore e rilasciandolo.
L’Amore con Sibilla Aleramo
Nel 1916, destin incrociò di Sibilla Aleramo, pseudonimo di Maria Felicina Faccio, alessandrina scrittrice e poetessa, rimasta «incantata e abbagliata» da Canti Orfici: auspici le colline del Mugello, agli «ultimi splendori della bella stagione», spiriti antitetici in temperamento e nel percorrer del tempo i sentieri — Aleramo estroversa, desta a coglier ogni istante e socialmente inserita, impegnata; Campana fuggente e solitario — tuttavia affini in vision d’esistenza, negli affanni del cuore, oltreché nel simil concepir arte scrittoria, in trama di voci, silenzi e sospiri, quasi ebbero a rincontrarsi e riconoscersi: il poeta pur d’acchito tentato, da coinvolgente danzar non poté sottrarsi, trascendental ed ineluttabile, impetuoso ed irrefrenabile, «amore divampò in un delirio selvaggio» e di veemente ardor, vertigini ne dipingeran peraltro in serrato ed intenso scambio epistolare.
Fauno
Lontane dal mondo,
querce,
rade nel sole d’agosto
acque fra sassi,
lontane dal tempo,
e tu
dorato, ridi,
tu alla bianca mia spalla,
tu alla verginea sua musica,
gioia dagli occhi ridi.
(Poesia da Sibilla Aleramo composta nei giorni successivi, ed in ricordo, d’incontro con Dino Campana avvenuto il 3 agosto 1916, dopodiché inserita nella raccolta del 1920, Momenti)
Sono pazza di lui. Sono assolutamente pazza di lui. Cosa volete che dicano loro? Dotti e dottori, musichi e musichieri, artisti e giocolieri. Non c’è passione, ardore, follia più giusta di questo amore. Io corro, corro da lui, appena posso, appena il primo treno mi porta via da questa stazione che è diventata la mia casa, dove aspetto con passione.
Sibilla Aleramo
Ancorché cosciente dell’ombre che n’affollavan pensieri, Sibilla Aleramo, in abbraccio «per la vita e per la mia morte», all’amato si consacra; ma legame, al ri/sorger di sublime estaticità, e forse pel poeta speme di stabilità, principiò a minarne il delicato equilibrio, relazion dibattendosi tra momenti di passion pura e violenti confronti, separazioni, ricongiungimenti ed egli — ossessionato d’assillanti emicranie e dall’insinuarvisi in petto del mai fondato, bieco e logorante sibilo della gelosia — manifestando acuente turbamento, con sempre maggior frequenza intervallando a periodi di lucidità, altri di delirio: Campana percepisce il gelo del baratro sul qual bordo sta osando e da Aleramo esortato, lunedì 22 gennaio 1917, si reca dall’eminente psichiatra, ordinario dell’Università di Firenze, Ernesto Tanzi: «neurastenia acuta», diagnosi da invito seguito di «lungo soggiorno in una casa di salute».
Non possedendo risorse e né consentendo alla scrittrice d’aiutarlo, Campana, deludendo indicazione medica, la pregò d’allontanarsi definitivamente e si ritirò in Val di Susa, a Rubiana, cittadina distante circa trenta chilometri da Torino: nondimeno, amor disperato, rapinoso, immanente, sospirando implacato in epistole, brama di ricongiunger anime da folle fato unite; Campana e Aleramo s’inseguono, sfiorano, si promettono, ma d’improvviso romanzo s’interruppe: il 13 settembre, subìto ennesimo arresto — stavolta a Novara — «per vagabondaggio e insufficienza di documenti» ingenerando nuovamente sospetto d’identità tedesca, il poeta fu obbligato da Foglio di Via e previamente presentandosi al cospetto dell’autorità di Pubblica Sicurezza di Firenze, a ritorno in Marradi: a tratti irruento, vaneggiante, pervaso da depressione, manie persecutorie, sinistramente profetico preconizzando il proprio, prossimo, trapasso, Dino Campana, a gennaio 1918, esito di controverso atto d’aggressione, viene fermato dalla Polizia e internato nel fiorentino ospedale psichiatrico di San Salvi, il medico condotto Ermelio Bernabei riscontrando condizione di «alienazione mentale», a primavera inoltrata, trasferito al cronicario di Villa di Castelpulci, dove, stando a quanto riferito da Carlo Pariani — all’istituto appositamente in visita al poeta —«diede indizi di allucinazioni uditive, espresse idee deliranti di grandezza e di persecuzione, ebbe scatti ingiustificati. Poscia prevalsero false percezioni acustiche cutanee muscolari viscerali, talvolta dolorose; fallacie rappresentative, ripetizioni sonore del pensiero; idee di grandezza assurde. L’ordine rimaneva nei discorsi […] Appariva lucido con giuste nozioni del tempo e dei luoghi e persistente memoria, ma teneva discorsi strambi non lasciandosene mai distrarre […] Trascurava i compagni, evitava di rivolgere loro la parola. Camminava avanti e indietro con passo elastico e lungo».
Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. […] Degli agenti speciali mi davano molta tortura.
Non più l’adorata, innata libertà Dino Campana rincontrò, e martedì 1° marzo 1932, in resa a setticemia, si donò all’eternità.
Campana fu poeta cosmico: e forse di nessuno, come di lui, si può ben dire che fu cittadino del mondo. Le fantasie dell’arte lo rapivano nel mistero di inesplorati cieli, ed egli fece sua legge l’andar senza fine per monti e per valli, per città e oceani, alla ricerca di una pace sognata, che era fervida di colori, di armonie e di tormento. Le battaglie dei piccoli uomini non potevano interessarlo, e la sua partecipazione fu tutt’al più quella dello spettatore seccato che rifugge dai clamori.
Federico Ravagli
La Chimera
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Il canto della tenebra
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare…
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la Sorte:
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all’orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
Il vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e l’acque è notturno
Il fiume va via taciturno…
Pùm! mamma quell’omo lassù!
La speranza
(sul torrente notturno)
Per l’amor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
O tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da’ tregua agli amori segreti:
Chi le taciturne porte
Guarda che la Notte
Ha aperte sull’infinito?
Chinan l’ore: col sogno vanito
China la pallida Sorte
Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!
Genova
Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente
illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.
Batte botte
Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quai)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.
Immagini del viaggio e della montagna
…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto.
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
E si distingue il loro verde canto.
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…
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